27 febbraio 2006

Il Foglio Bianco

IL FOGLIO BIANCO

“Cosa vede in quest’immagine?”

La voce dello psicologo era impostata, ferma, come se avesse seguito un corso di dizione e di teatro prima di ottenere l’abilitazione alla professione.

“Ma cosa vuoi che veda in questo sgorbio?”

Fu l’unica cosa che riuscì a pensare. Aveva davanti un foglio con una macchia informe, speculare, di diverse tinte di grigio, colore sparso a caso su una pagina e poi piegato a metà, casualmente, senza senso, senza nessun intento figurativo.

“Che vuoi che ti dica? Che vedo i miei genitori far l’amore? Che vedo un elefante che cammina furioso sul corpo di un leone? Io non ci vedo niente!”

Avrebbe voluto avere il coraggio di dirle quelle parole che riusciva solo a formulare nella mente ma sapeva che era troppo vigliacco per poterlo fare. Temeva l’ospedale a cui l’avrebbero destinato per anni se non avesse collaborato con quella specie di stregone della mente che aveva davanti.

Fissò il medico, ne osservo gli occhiali mollemente poggiati sulla punta del naso, gli occhi chiari, inespressivi, i baffetti curati, le labbra sottili chiuse in una smorfia che non era neppure un sorriso distorto.

Fece finta di osservare un po’ la figura con interesse e poi, con un enorme sforzo di immaginazione, cominciò a raccontare di animali che si inseguivano, di montagne innevate, di spiagge deserte, di bambini felici e giocosi.

Il medico lo osservava senza muoversi, non prendeva neppure appunti, lasciava che fosse il piccolo registratore a fare tutto il lavoro di memoria, avrebbe affidato poi a qualche suo tesista il lavoro di sbobinatura.

Il silenzio della stanza era rotto solo da quella voce timida e incerta che descriveva paesaggi impossibili, visti in una macchia informe, nemmeno il ritmico scorrere del nastro del registratore sembrava disturbare quel momento di raccoglimento e di presunta confessione.

La luce soffusa proveniente dalla abat-jour sulla scrivana del medico ad illuminare il foglio macchiato emanava un alone rossastro che si diffondeva in tutta la stanza, come una sorta di profumo caramelloso che sembrava appiccicarsi alle cose e possederle.

“Lei mi prende in giro.”

Non era una domanda. Aveva sempre sentito dire che gli psichiatri rispondono a domande con domande, che mai fanno affermazioni, lasciando che sia sempre il paziente a dare le risposte che ritiene più giuste. A loro spetta semmai il compito di fare delle domande e di farle nel momento opportuno.

Ma quello non era un quesito.

Alzò gli occhi timoroso e fissò il medico.

“No… che glielo fa pensare?”

“Lei non mi ascolta. Le devo ricordare che questa è la sua ultima possibilità prima di finire nel reparto psichiatria dell’ospedale cittadino?”

Terrore. Domande giuste al momento opportuno. Quella era giusta. E il momento era dei più opportuni.

Non tentò neppure di scusarsi. Aveva sempre visto gli strizzacervelli come depositari di un sapere magico, esoterico, in grado di vedere aldilà della fronte e di cogliere verità e menzogna, di sapere cose che neppure noi stessi sappiamo del nostro essere. Davanti a loro si era sempre sentito un libro aperto anche se aveva cercato di ingannarli, di nascondersi, di non dire quello che, invece, passava nella sua testa.

Fissò quegli occhietti cattivi e inespressivi che lo guardavano con derisione. Rimase un lungo momento in silenzio come se volesse cercare delle parole sepolte nella sua mente, nascoste da chissà quanti strati di difese e di blocchi e, infine, pacatamente disse:

“Io non vedo nulla.”

Sincerità. Se il medico voleva la verità, eccola! Per lui quella macchia davanti agli occhi era solo una forma senza senso, non gli richiamava alla mente nulla, neppure sforzandosi riusciva a vederci qualcosa di concreto. Non capiva perché lo psicologo si incaponiva con quel test ridicolo e assurdo, cosa avrebbe potuto scoprire della sua mente confusa con quei disegni infantili e senza forma? Per lui quegli sgorbi non rappresentavano davvero nulla.

“Nulla?”.

Una risposta così assurda aveva messo in difficoltà il medico. Non si era aspettato un responso così banale, tanto normale da essere vero. Molti pazienti non vedevano nulla al test di Rorschach, erano quei soggetti in cui i blocchi dell’io erano così forti da impedire in ogni modo l’emersione dell’inconscio. Si trattava dei casi più radicali ma, in fondo, anche i più semplici. Era come se fossero una lastra di metallo duro ma senza elasticità, bastava la giusta pressione per spezzarla e allora lì l’inconscio fuoriusciva come una cascata, rivelando fobie, nevrosi, psicosi, perversioni, un magma sepolto che eruttava senza limiti.

“Si, dottore. Vedo solo una macchia informe.”

Lo psicologo rimase in silenzio per un attimo. Probabilmente stava valutando quella risposta.

Improvvisamente prese il foglio su cui era impressa la macchia e lo capovolse. Il retro del foglio era semplicemente bianco.

“Che cosa vede ora?”

Questa volta fu lui a rimanere spiazzato. Lo stava prendendo in giro? Si divertiva a ridicolizzarlo?

“Ma...Ma…il foglio è bianco…” Balbettò.

“Lo vedo anche io che il foglio è bianco. Lo guardi. Mi dica se ci vede qualcosa e, in caso, cosa ci vede”.

Stupito continuò a fissare lo psicologo.

“Su, lo guardi.”

Per la prima volta la voce del dottore aveva assunto un’intonazione umana, quasi paterna.

Abbassò lo sguardo e si mise stupidamente a fissare il foglio bianco.

I secondi passavano, scanditi dal silenzio fedelmente riprodotto nel registratore che impassibile continua a far scorrere il nastro.

Gli occhi erano sempre fissi su quella superficie bianca. Quel rettangolo immacolato che stava lì, fermo, poggiato sul tavolo.

Sentiva lo sguardo indagatore dello psicologo fisso su di sé, ne sentiva l’attesa che emergeva.

Continuò a fissare. Pian piano dimenticò la stanza, la scrivania, persino il medico che gli stava di fronte. Rimase solo lui e il foglio bianco. Gli occhi erano lì, concentrati, a guardare il bianco. Non stava cercando delle immagini che non c’erano. Stava solamente osservando quel colore.

Le palpebre sbarrate, le pupille fisse oltre la stessa vista, oltre lo stesso vedere semplicemente, fissate su una superficie monocroma. Finché qualcosa accadde.

Come un fiore che dischiude i petali il bianco si aprì. Si espanse, crebbe veloce e vorace dell’ambiente che lo circondava, salì vibrante dalla scrivania al resto della sala. I suoi occhi erano sempre lì, bloccati, nel centro del foglio, in un particolar punto di genesi del tutto che stava sorgendo, che stava prendendo vita.

Fu come una lenta marea che, ad onde sempre più ampie, estende il suo dominio in profondità nella terra ferma, onda e risacca, avanzata e ritorno, movimento lento, progressivo, continuo, incessante, ma ad ogni passo un pezzo di realtà era conquistata dal potere del bianco. Non fu esplosione improvvisa che dipinse tutto ma una fiacca, apatica e ripetuta deriva del bianco nel reale.

Non vi era panico nei suoi occhi, solo assorta contemplazione del potere che si faceva strada nel mondo. Lo osservava passivo e inerme come di fronte al manifestarsi di una creatura superiore, che in quel momento nasceva. Prendeva vita dai suoi occhi e seguendo il suo sguardo giungeva ad essere.

L’esser stesso del mondo, le sue forme, i suoi colori, le sue manifestazioni oggettive sembravano pian piano arrendersi alla deriva di quel potere, come se un’armata conquistatrice avesse invaso il reale e lo stesso sgretolando, convertendolo alle sue leggi e alle sue religioni.

Non vi era opposizione, non vi era freno, vi era solo umiliante, passiva rassegnazione di una dominazione, di una perdita di controllo, di una progressiva distruzione di senso.

La monocromia dominava sulla molteplicità dell’essere.

Alla fine tutto fu bianco. Il suo sguardo immerso in quella totalità trionfante.

E fu così che lo vide.

Di quei pochi minuti che seguirono non ricordò nulla. Seppe solo che tutta la vicenda fu ricostruita con accurata precisione dal nastro del registratore che aveva immortalato la sua voce e quei minuti di apparente folle delirio.

Nemmeno quando fu posto sulla sedia elettrica vollero dirgli come mai quando riprese coscienza di essere nella stanza la prima cosa che vide furono gli occhi spalancati dello psicologo e la sua bocca aperta un ghigno innaturale e la bava.. la bava.. la bava che colava dal mento del medico.

Fu l’ispettore di polizia incaricato delle indagini sul decesso dello psicologo il primo ad ascoltare la registrazione di quei minuti. Ciò che sentì fu il folle vaneggiare di un povero malato di mente, frasi confuse, logiche assurde, colori irreali descritti con minuziosa attenzione, teoremi di geometrie astratte, racconti di mitologie inumane e poi il finale, quello strano finale che continuamente gli tornava ala mente, come una strana onda che avanza e ritorna. Spinta e risacca. Non capì mai come tutto quello potesse c’entrare con la morte dello psicologo, con il suo infarto improvviso da shock. Sostenne fino alla fine che era una follia condannare quel povero disgraziato alla sedia elettrica per una morte che era certamente naturale, non vi era stato nessun omicidio, il medico era morto perché gli era scoppiato il cuore a causa di una paura enorme o di uno spavento incontrollato ma ordini provenienti da molto in alto furono molto chiari: quel uomo doveva morire. Senza clamore. Senza perdita di tempo. Senza inutili scartoffie. In alto qualcuno voleva che di quel disgraziato non rimanesse neppure il ricordo.

Passarono solo sei settimane dalla morte del medico all’esecuzione. Il processo fu silenzioso, veloce, efficiente. Furono ascoltati tre testimoni. Due per l’accusa, uno per la difesa. La giuria popolare si riunì in camera segreta per ventiquattro ore e la sentenza fu scontata. La difesa non presentò appello. I giornali riportarono la notizia dell’esecuzione in ultima pagina, in un trafiletto quasi invisibile. Le associazioni contro la pena capitale non protestarono. La comunità internazionale non si lamentò.

Così come era vissuto quel uomo morì. Nel silenzio.

L’ispettore capì subito che dietro quel uomo vi era qualcosa che doveva restare nascosto e allora non insistette nelle sue lamentele, nella sua difesa e non disse nulla quando una mattina scoprì che la sua scrivania era stata saccheggiata nella notte e fra tutti i documenti spariti compariva anche la cartella con la trascrizione della registrazione con le farneticazioni di quel disgraziato. Sporse regolare denuncia e tutto fu messo a tacere.

Nella sua mente però, ripetutamente, tornavano le parole di quel uomo che ormai riposava tre metri sotto terra nel cimitero civile della città.

A volte era lui a richiamarle alla mente, altre volte erano loro che si facevano strada tra percorsi bizzarri della memoria e allora sentiva quella voce insicura, timida, quasi sorpresa, raccontare che cosa vi era nascosto nel bianco di quel foglio.

“…e così le infinite linee concentriche trovano il senso in un fulcro asimmetrico.

Poi vedo… vedo una vasta distesa, è di fronte a me, sconfinata, non ne percepisco la fine, allora mi volto, è anche dietro di me, senza termine, fin dove lo sguardo riesce a giungere vedo questa distesa, come se ne fossi circondato, ne sono in mezzo e mi avvolge in ogni direzione, si confonde con la linea dell’orizzonte, si perde in un eterno confine in cui cielo e terra si fondono in un tutt’uno. Abbasso lo sguardo, solo ora mi accorgo che questa distesa è fatta di sabbia, una specie di infinito deserto, mi chino e raccolgo un po’ di granelli nella mano, li lascio scivolare tra le dita, la sabbia è calda, scaldata da un sole che non si vede nel cielo semplicemente azzurro. Una vasta pianura di piccoli grani di terra rossastra, un colore d’ocra, come se miliardi di mattoni fossero stati sbriciolati e distesi in un piano infinito.

Sono in un luogo che è stato chiamato il deserto eterno. Non so perché sono certo che questo sia il suo nome. Lo sento. Come se fosse una conoscenza dentro di me, che ho sempre avuto ma di cui non ho mai saputo nulla. Avanzo nel deserto eterno. Non fa caldo, non sto sudando. Muovo un passo. La sabba è morbida sotto le mie suole. Sento quello strano rumore di granelli che cozzano e stridono l’un l’altro ad ogni mio passo, come se si stessero lamentando del mio calpestarli. Li ignoro e avanzo. Non ho una destinazione. Non sto andando a est, piuttosto che a sud, non vi sono punti cardinal nella distesa illimitata che si apre ai miei occhi. Semplicemente cammino. Un piede dopo l’altro, segno quel immacolato deserto delle mie esitanti tracce, delle mie orme, come se stessi scrivendo il libro della mia vita e lo facessi della strada che ho percorso. Non vi è tempo se non vi è spazio. Non ho punti di riferimento per contare momenti che scorrono se non i segni timidi che lascio dietro di me, mi volto e vedo questa striscia continua di impronte muovere serpeggiando da un punto ormai lontano, quasi confuso nella distanza, sino al punto in cui ora poggio i miei piedi. Mezz’ora? Un giorno? Sempre? Da quanto sto camminando? Non mi rispondo neppure e continuo. La prospettiva da cui guardo la distesa intorno a me non cambiata, è come se non stessi mai abbandonando il centro di questa pianura eterna e in realtà mi stessi muovendo circolarmente in un momento immobile.

Poi scorgo qualcosa. Si confonde da lontano con l’immensità che ho negli occhi. Tuttavia qualcosa vi è che rompe la perfezione di un piano liscio e levigato. Una protuberanza, un’escrescenza, una sorta di bubbone che spunta da lontano, confuso tra in quella linea che fonde l’azzurro del cielo al rosso del deserto. Avanzo più deciso. Ho una meta. Ho un obiettivo da raggiungere. Passo dopo passo la tumefazione del reale che mi circonda sembra prendere una forma costituita. Sembra definirsi all’orizzonte. Un tumulo di terra compatta. Una sfera sprofondata nella sabbia che lascia emergere solo la parte più esterna, una sorta di cupola distesa sul piano del deserto. Un gibbone sulla perfezione del deserto eterno. Mi accorgo che il ritmo del mio passo è aumentato, sto quasi correndo, sento il respiro farsi corto, qualche goccia di sudore cadere sulla fronte, la costruzione si definisce man mano che mi avvicino. Mi accorgo ora che non è perfettamente liscia, ma sulla sua superficie spuntano altri bozzoli semicircolari, come una sorta di figliata parassitaria, non vi è ordine apparente, vi è quella casualità che è propria della vita che si impone, della vita che trova tutte le strade per continuare sé stessa, nel singolo individuo e nelle generazioni successive, vi è quella prepotenza, quella brama della vita che nel suo infinto egoismo e stimolo semplicemente accade.

Continuo ad avanzare, sempre più veloce, paradossalmente non sento la stanchezza anche se mi sembra di correre da ore, mi volto fugacemente e mi accorgo di quanta strada ho percorso, le tracce delle mie suole, ora più distanti l’una all’altra per via della corsa, seguono una precisa linea retta che, come una freccia, giunge dritta alla tumescenza.

Vi sono di fronte. La prima cosa che noto è la sagoma nera che si apre di fronte a me, un ingresso che è un invito, un richiamo, un’attrazione fisica verso il nero che si affaccia.

Mi controllo, faccio correre lo sguardo su quel edificio. So bene che sono le mie categorie mentali a definire quella cosa un edificio, una costruzione, un artefatto più o meno umano ma il mio corpo, il mio inconscio, quella parte di me non influenzata dalla normativa sociale in cui sono intriso, urla, urla e mi dice altro. Quella escrescenza è viva. Non è un artefatto ma è un essere vivente fatto di terra, di sabbia, di qualunque cosa ma vive e prospera nel deserto eterno. Vive sono le sue tumescenze piccole che emergono bizzose dalla superficie, senza ordine, accavallandosi l’una sull’altra nella lotta per la vita che è la lotta della vita.

Il suo richiamo silenzioso è fortissimo. Non resisto. Varco la soglia.

Il nero mi avvolge. E’ un abbraccio affettuoso, materno. Un senso di protezione che mi circonda, mi fascia, come una lanosa coperta calda, mi sento al sicuro, non temo i fantasmi che solitamente albergano ne buio, anzi l’oscurità mi nasconde agli occhi delle creature demoniache che vivono nella luce della quotidianità.

Mi sento come trascinato. Condotto. Avanzo sicuro sebbene non veda nulla, né la strada che i miei piedi calpestano, né le pareti che mi circondano, lascio per un secondo vagare la mente nella fantasia e sogno di vene pulsanti accavallate le una sulle altre, gorgoglii e rigurgiti di sostanza vitali e linfatiche, di sangue appiccicoso e di bile nerastra, mi sembra persino di percepire quei rumori viscosi e viscidi che caratterizzano le macchine viventi. Mi distraggo per un po’ ascoltando e sognando la vita che continua e che si preserva all’interno della tumefazione che mi ha accolto e che mi protegge.

Poi una luce. Appare all’improvviso confusa da lontano. Bianca, fredda, stride col calore avvolgente del nero che mi culla, un atomo di gelo nel calore di un grembo materno. Ho camminato molto. Molto più di quello che avrei dovuto viste le dimensioni ridotte del tumulo all’esterno. Sembrava non più grande di qualche metro, invece, ho continuato a percorrere quella strada invisibile per molto tempo. No ho avuto l’impressione né di scendere, né di girare intorno ma, in fondo, di questo aspetto poco mi importa. Seguo la luce. Non è sufficiente per rischiare intorno a me e tutto rimane allora il semplice parto della mia fantasia sovraeccitata. Il punto luminoso che distinguo da lontano è semplicemente il richiamo finale, è come se mi stesse urlando: “Qui vi è la fine del tuo cammino.”

Gli ultimi passi, la luce è di fronte a me. Lì. E’ debole, soffusa, il suo alone di raggi e onde serve a rischiarare solamente un oggetto.

Un leggio. Poggiato sopra un libro chiuso.

Lo osservo nella scarsa luce che lo circonda. Un libro normale. Cartonato, elegante senza essere sfarzoso. Nero, piuttosto lucido. Sulla copertina una scritta. I caratteri argentati, maiuscoli, grandi, chiari, quasi fluorescenti nella luminosità fioca della tumescenza. Il titolo del libro. Di fronte a me. Assurdamente qui dove ogni cosa cozza con il comune senso di realtà, di normalità, è questo libro, così normale, così comune, così quotidiano, ad essere veramente irragionevole, irrazionale e fuori posto. Lo prendo fra le mani. Lo alzo di fronte ai miei occhi e non posso trattenermi dal leggere a voce alta le parole del titolo, so che sono per me. Ne ho le la certezza assoluta. Modulo a voce sulle indicazioni foniche di ogni lettera e il risultato è questo insieme di suoni coerente: “Il Vostro Futuro”.

Non mi soffermo molto a pensare al senso di quelle parole, mi sembra così immediato, così chiaro, così evidente. Non è rivolto solo a me in quanto singolo essere vivente, è rivolto a me come rappresentante di un’intera razza, gli esseri umani. E’ il nostro futuro che vi scorgerò all’interno, è ciò che ci aspetta, è il domani che ci attente. E’ il futuro di una razza. Stranamente non sono divorato dalla curiosità di sapere cosa ci riserva la fortuna, il destino, il caso, le nostre azioni. Non mi interessa sapere cosa sarà di noi domani, sono maggiormente incuriosito da questo oggetto in sé, da questa cosa così comune, così abituale che posta in un contesto così assurdamente diverso si carica dello stessa irrazionalità, trasformandosi esso stesso in un oggetto dai poteri miracolosi, inusuali come quello di predire il futuro. Mi accorgo che è come se fosse il contesto a definire il grado di realicità degli oggetti che ne fanno parte. Un libro, così comune, posto in un contesto irreale, diviene esso stesso irreale, acquisendo caratteri e specificità non quotidiane. Per un attimo mi chiedo se anche per me vale lo stesso ragionamento. Io, un comune essere umano, in questo stato di cose irreale acquisisco peculiarità non comuni? E quali sono? Mi immagino come una sorta di essere super potente, perfetto e immortale che destina la sua vita infinita al vagare nel deserto rosso che mi circonda, scoprendone segreti e luoghi magici.

Scrollo la testa. Torno al presente. Apro il libro. Il futuro della razza umana è lì di fronte a me. Chiaro, manifesto, semplice, come può esserlo la sola parola che vi leggo nell’unica pagina di cui è composto il libro. E mi accorgo come tutto sia vano, inutile e sprecato.

Ancora ad alta voce modulo la parole e come un mantra la ripeto, la ripeto, la ripeto, migliaia di volte, catturato al suo potere e al suo volere.

La mia voce fuoriesce come una cascata gorgogliante a cui siano state tolte improvvisamente le barriere di contenimento, esplode nell’etere nero e affettuoso che mi circonda, portando il dolore della verità nel mondo intorno a me.

So che ferirò, so che tradirò, so che deluderò ma la parola va pronunciata:

“Morte”.

E la ripeto. Infinite volte. Senza sosta.

“MorteMorteMorteMorte …”.

Logos

26/02/2006


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