27 marzo 2006

L'uomo che fugge

L’UOMO CHE FUGGE
Rumori di passi. Si volta di scatto, gli occhi scrutano la strada che hanno appena percorso alla ricerca di qualcosa o qualcuno che corra verso di loro, si aspettano di vedere una sagoma indistinta di colori confusi, in movimento, rabbiosi e furenti che punta dritta al ventre, per squarciare e sbranare.
Nessuno. Niente si avventa contro l’uomo. La lunga via è deserta. Lentamente fa scorrere lo sguardo intorno, scruta fra le ombre degli alberi che costeggiano la strada. Cerca di riconoscere nella penombra che si crea tra tronco e tronco una sagoma, un profilo che possa ricondurre ad una forma umana nascosta, in attesa, famelica.
Man mano che i suoi occhi si concentrano e scorrono i lati della via percorsa, il suo cuore accelera, ad ogni albero un battito più veloce, un colpo più violento nel suo petto, una lenta salita, progressiva, verso il parossismo, verso il climax atteso: una figura, lo scorgere una sagoma acquattata nell’ombra, una silhouette nascosta, cattiva, pronta a seguirlo e a colpirlo alle spalle, senza difesa. Il viso si sposta, ombra dopo ombra, verso il punto a cui è arrivato del suo cammino. Prima a destra, poi, a sinistra. Come in un’assurda roulette russa sa che ogni albero setacciato inutilmente è un colpo a vuoto, sente nello stomaco la tensione di un proiettile in attesa in un tamburo che si va via via svuotando. Il ricaricatore si svuota, con lentezza, con spasmodica attesa, finché l’ultima ombra resta da scrutare, lo sguardo indugia, coraggioso e spaventato, gli occhi mettono a fuoco lo spazio nero indistinto, setacciano e indagano, prefigurano il nemico sconosciuto. Lo desiderano.
Nulla. Niente è nascosto in crudele attesa tra gli spazi fra un albero e l’altro. E’ solo. Forse suggestionato da se stesso, dalle sue stesse paure, dai suoi medesimi timori. E’ la follia dentro la sua mente a corrergli incontro per possederlo, definitivamente, totalmente. Ne è consapevole, la pigra discesa verso l’inferno della follia è cominciata da molto tempo e ad ogni passo il lago ghiacciato in cui riposa colui che porta la luce si fa sempre più vicino.
E’ un uomo in fuga. Un uomo che cammina che per scappare, per allontanarsi dal mondo. Ogni suo singolo passo, lento, strascicato, sofferente è la sua risposta a ciò che lo circonda, a ciò che lo insegue, a ciò che lo pretende.
Si volta ora verso l’orizzonte lontano, verso ciò che gli si staglia di fronte, la strada sembra non avere fine e gettarsi inconsapevole nel baratro della fine del mondo. Quella è la sua meta, la sua destinazione. Un punto lontano che non esiste o che forse esiste solo nel suo essere distante, irraggiungibile, un traguardo costantemente oltre il punto del suo presente.
Il suo cuore torna con fatica a ritmi meno sincopati, scrolla la testa schernendosi delle sue paure paranoiche e sposta il piede destro. Il cammino riprende. L’interruzione è stata breve ma ogni sosta è peccato, è la fine del senso del suo stesso esistere, è una battaglia vinta dai suoi nemici in una guerra che avrà fine solo con la sua morte, solo con il termine del cammino, solo con la staticità dell’istante. Camminerà, continuerà a farlo per fuggire a chi lo vuole dominare e assoggettare. Lo farà finché le sue gambe lo reggeranno e finche la strada si srotolerà eterna di fronte ai suoi piedi.
Alza gli occhi, fissa il punto lontano che non esiste, sorride mesto e riprende il viaggio. Il percorso che non ha una meta e non ha un origine ma che è un semplice andare, incessante, infinito.
La strada gli è di fronte. Una striscia di cemento grigio, granuloso, deforme per il freddo e il caldo delle stagioni che scorrono nel cielo, intorno alti alberi, i loro sottili aghi verdi restano colorati ogni giorno dell’anno, come indifferenti al passare del tempo e al decadimento del mondo, possenti racchiudono la strada in un abbraccio affettuoso e lugubre. Lo squarcio di cielo che si intromette oltre le cime appuntite dei sempreverdi è azzurro, luminoso, pigro di una domenica pomeriggio d’estate silenziosa e ovattata. Non c’è vento a muovere le fronde rigogliose, immobili osservano altezzose il passare lento dell’uomo che cammina, indifferenti alla sua fuga, al suo dolore.
Il silenzio ora lo circonda, come una bolla infrangibile che lo scherma dal vocio, dal frastuono, dai rumori del mondo vivo da cui fugge. Ma il silenzio è subdolo, vigliacco; avvolge l’uomo che cammina come una cappa che sembra impenetrabile, spessa come un muro invalicabile, basta poco però, uno scherzo della sua mente folle, il cozzare imprevisto dei neuroni incontrollati, un sogno fatto dai suoi occhi aperti sul nulla d’intorno e allora il silenzio sparisce, crolla come un immenso castello di carte informi, una scultura di vetro frantumata, una cascata lucente di frammenti cristallini e il suono viene al mondo, emerge, esplode, improvviso, e tutte le illusioni di solitudine, di isolamento nella quiete, naufragano con esso, in una tempesta di cacofoniche urla.
Piano, delicatamente, con infinite attenzioni la suola del piede destro calpesta il cemento della strada, come se fosse un’ospite poco gradito ed invadente che cerca di rendere la sua presenza meno importuna possibile. C’è però determinazione in quel passo, in quella suola che, con mille scrupoli, calpesta la via; c’è la forza di una determinazione, di una lotta, di un conflitto che non può essere vinto ma che non deve esse abbandonato.
Allora ancora un passo e altro dolore.
La strada si lascia sedurre, si lascia percorrere, forse apprezza la delicatezza dell’uomo che sa quel tragitto che gli si para davanti, come una donna accogliente, non è un diritto ma un dono, una costante offerta che va rispettata e accettata con umiltà.
Il suo cammino continua, egli è indifferente al pezzo di mondo che lo circonda, lo osserva, a volte persino curioso, ma non se ne lascia mai sedurre; incessante, come un movimento perpetuo, costringe le sue gambe a portarlo avanti, sempre più avanti, faticosamente e caparbiamente. Non ricorda neppure il momento preciso in cui questo suo viaggio è cominciato, quel giorno in cui per la prima volta il singolo passo che tutto origina è stato compiuto. Vaga ed offuscata è nella sua mente la genesi di questa fuga, di questo procedere, di questo vivere solamente del passo compiuto. A volte all’uomo sembra quasi di ricordare, come una presenza estranea che si insinua nella mente e fa capolino, un volto, un sorriso, un profumo, un corpo accogliente e morbido, ma nessun particolare è così forte, così vivo da poter essere messo a fuoco e non riesce neppure a costruire un’immagine compiuta e chiara da questi frammenti caotici e sfocati. Resta consapevole che, forse, sepolto dal tempo e dalla memoria devastata, un giorno lontano, chiuso nello scrigno di un passato che non esiste più, un perché ci fosse, una causa scatenante, un motivo reale che potesse almeno dare senso a tutto quello che ora vive.
Si consola a volte, l’uomo che cammina, vagheggiando una ciclicità antica, sperata ma assurda, senza ragione e illogica. Sogna, mentre le sue gambe stanche lo conduco avanti, che questa origine nebulosa nella sua mente, questo viso inafferrabile possa attenderlo là, in quel luogo che non esiste e che si chiama approdo, casa.
La maggior parte del tempo, però, il suo viaggio è senza pensiero, come stordito, come assente, ed egli è semplice spettatore di una vita che scorre su una strada infinita e a cui neppure riesce a donare l’attributo del vero. La sua mente è come sdoppiata, divelta in due tronconi, in due emisferi che non riescono più a ricongiungersi, ad unirsi in un tutto armonico e che lottano, si scontrano, tentano di amarsi e di fondersi per tornare l’uno che erano. Inutilmente, la mente che osserva e la mente che vive restano distanti e i loro contorni così frastagliati da rendere impossibile ogni unione, ogni pacificatrice fusione. La dicotomia di una mente scollata è l’unica verità che l’uomo che cammina riconosce. E’ la sua verità, è la sua stessa vita, che così, vanamente, prosegue.
Ad ogni passo l’uomo sperimenta la folle sensazione di essere al tempo stesso agente e spettatore, di essere responsabile e dipendente, di essere carnefice e vittima, di sentirsi vivere una vita che non gli appartiene ma che è semplicemente un palco in cui osservarsi recitare una tragedia, sconosciuta e sanguinaria. In attesa di un finale scritto da un autore crudele.
L’uomo ha ormai dimenticato il rumore dei passi che un attimo prima, ha interrotto il suo viaggio, quel passato così recente va già pian piano scolorendosi, perdendosi nell’oblio della ripetitività del cammino; non si interroga più sulla misteriosa fonte di quel suono, la terrificante creatura in agguato nell’ombra si è dissolta, evaporata da un memoria labile e sbadata. Pochi passi ancora e persino il vago sembiante della paura e dell’adrenalina pompata velocemente scomparirà e ciò che resterà vivo nella mente dell’uomo che cammina, sarà il suo presente, identico ad ogni altro presente che l’ha preceduto e che lo attende.
E la strada prosegue.

L’edificio non appare subito, nascosto dalla prospettiva irregolare di una piazza circolare si rivela all’improvviso, sorge inaspettato e coglie l’uomo che cammina quasi di sorpresa. C’è stupore nell’uomo: la lunga strada che accoglie il suo cammino è a volte inframmezzata da queste ampie aree apparentemente circolari, come se in questi punti i confini della strada si fossero fatti più deboli e l’invisibile flusso di materia inesistente (o forse solamente potenziale) che percorre la via li avesse deformati e allargati, ristagnando poi in questo spazio venutosi così a creare. Questa zona, però, ha qualcosa che la rende diversa, unica e in questa sua specificità, terrificante. In nessuno spiazzo vi era nulla del genere, l’anomalia è lì, così palese da dubitarne, così manifesta da chiedersi se non sia solo il frutto di una mente suggestionabile, solo il prodotto di un desiderio così forte da creare allucinazioni.
Sopra tre gradini, si leva una costruzione. L’uomo stupito si ferma ad osservarla più attentamente. All’inizio fatica a dare un significato conosciuto alle caratteristiche della struttura: un’ampia vetrina, un ingresso presidiato da un cartellone senza scritte, qualche pianta raccolta in un vaso ma abbandonata a se stessa, un stretta tettoia che come una sorta di tappeto sospeso nel cielo invita ad entrare e poi quella cosa, insensata, grottesca. Un insegna. Ad uno stretto tubo di metallo inchiodato nel muro a poca distanza dall’ingresso, cigola pigramente una lastra metallica nera, rovinata dal tempo e dalle intemperie. L’uomo che cammina si avvicina e scruta curioso lo strano disegno che, scolorito, ancora vi si intravede, ripetuto speculare sui due lati della lamina, forse più chiaro in quella di sinistra ma inequivocabile nel suo significato: un treno. Un treno a vapore, con la ciminiera fumante, la sagoma inconfondibile, il muso leggermente rivolto verso lo spettatore come se il disegnatore avesse voluto dare la sensazione di un avvicinarsi, di un farsi prossimo, di una segreta intimità.
L’uomo che cammina si ferma, ancora una volta concede una sosta ai suoi nemici, ai suoi bramosi avversari, tuttavia capisce che questa struttura che ha di fronte, inaspettata e improvvisa non può non aver un legame con la sua fuga. Intuisce come essa debba rappresentare una tappa obbligata del suo procedere, del suo allontanarsi, del suo fuggire, un momento necessario in quel cammino senza fine che sta compiendo.
Fissa la vetrina e l’ingresso, cerca di scorgere l’interno del edificio, di notare dei particolari, di cogliere degli elementi che gli consentano di capire meglio cosa ha di fronte, ma c’e’ troppo buio per poter vedere qualcosa. Così si decide e si avvicina all’entrata.
Scala i tre gradini con fatica, il fardello del timore di ciò che lo attende a pochi metri lo attanaglia, lo schiaccia con un peso enorme sulle spalle, la stessa forza di gravità sembra farsi più crudele e violenta ad ogni movimento, spingendolo verso il basso, verso terra, opprimendolo e immobilizzandolo. Una gamba, poi l’altra, ancora una gamba, quei tre gradini appaio eterni, sembrano una montagna lanciata verso il cielo, impossibile da scalare, la cui cima resterà sempre vergine all’impronta dell’uomo.
Una vita dopo, i gradini sono vinti e l’ingresso si staglia libero di fronte a lui.
Apre la porta e guarda dentro.
Un locale ampio, a sinistra un bancone occupa tutta la parete, dietro di esso delle mensole con delle bottiglie appoggiate, in mezzo dei tavolini circondati da sedie, alle pareti dei disegni, delle fotografie, tutte raffiguranti dei treni, antichi o moderni che siano.
Sicuro, come se il timore e la paura fossero rimaste chiuse fuori, in attesa sulla piazza deforme, si fa strada fra i tavoli e si siede al tavolino più in fondo, nell’angolo a destra del locale. Si mette comodo sulla sedia, accavalla le gambe urlanti di fatica e dalla tasca della giacca estrae un piccolo libro. Lo apre ad una pagina segnata con una piega nell’angolo e comincia a leggere.
Seduto ad un tavolo in un locale apparso improvvisamente, il suo viaggio continua, non vi è sosta in quel momento, non vi è la staticità dell’attimo, le sue gambe saranno si ferme e immobili, ma l’uomo che cammina non è fermo. Continua ad avanzare, continua a percorrere la sua fuga incessante ed eterna, lo fa in un modo diverso, come se ciò che contasse non fosse tanto il camminare in sé, quanto piuttosto un essenza della fuga e dell’andare, del non fermarsi.
Ora la fuga è nel leggere, nel lasciare che la mente non si fermi nel presente, non ristagni nel momento, nell’attimo dell’ora, ma continui ad andare oltre, aldilà di se stessa, dei suoi limiti, delle sue barriere verso la medesima direzione che esiste solo nell’essere cercata, desiderata.
Senza che l’abbia richiesto un tè gli viene servito sul tavolo, caldo e profumato, riconosce qualche spezia, forse cannella, forse zenzero, non gli importa, alza lo sguardo, incrocia gli occhi della cameriera sorridente e con un cenno la ringrazia. Torna ad immergersi nella lettura, lascia che questa volta siano i suoi occhi a dettare il ritmo della fuga, scorrendo le righe da sinistra a destra e lasciando che la mente, nella suggestione delle parole, evada.
L’uomo che legge è consapevole che quelle frasi che ora così attentamente percorre e che, come una formula magica evocano nella sua mente mondi lontani, paesaggi impossibili e personaggi così simili a lui, presto svaniranno, persi nell’oblio contro cui nulla può fare. Ma non gli importa, ora quelle parole costituiscono il suo presente dotato di realtà e di senso e ora questo è sufficiente. La fuga, solo la fuga deve essere salvaguardata. Lo stare fermi, l’abbandonarsi ad un presente eterno, questo è il peccato, la vera paura, il timore soffocante dell’uomo che fugge.
Le righe scorrono veloci, molto più rapidamente di quanto possa fare la strada sotto i suoi piedi martoriati da un cammino interminabile, la sua mente scappa, corre, si perde e si nasconde in mondi immaginati da altri, in vite solo pensate e perciò dotate di almeno qualche senso; si rintana in rifugi di parole, lascia che le frasi gli si arrotolino intorno e, come un corazza di suoni e simboli, lo proteggano e lo spingano oltre, al sicuro dai suoi nemici e dalle sue paure.
Si sente al sicuro, forse come non mai si è sentito, protetto, amato, tutelato, le parole non tradiscono, non ingannano, sono lì, ad attendere uno sguardo significante che doni loro vita, che, pronunciandole, le faccia fiorire e loro si concedono, beate e passive, amanti fedeli, agli occhi del lettore che le mormora.
La fuga nelle parole continua, le pagine scorrono fra le sue mani, come chilometri percorsi di strada, la sua bocca silenziosa mina il suono muto di una parola recitata, un mantra, una preghiera, il cui vero significato non sta nel senso delle singole espressioni dette, ma nel ripeterle, continuamente, incessantemente, senza fine, finché lo stesso significato si svuota e ciò che resta sono solo una serie di suoni senza senso, una melodia, una musica, che giunge dritta al dio a cui questi inni sono rivolti.
Il tempo scorre, deformato dalla percezione soggettiva dominata dalla suggestione del libro, i secondi passano in ritmi differenti, non è il trascorrere del tempo dell’uomo seduto a leggere, è l’avanzare del tempo della narrazione letta, posseduta, introiettata. Seduto a quel tavolo, l’uomo che legge vive intere epoche, secoli pieni e sanguinari, millenni soffiati via come un alito di vento, secondi interminabili che sembrano cristallizzarsi in un attimo eterno, non vi è più un tempo condiviso ma solo quello che dalle pagine del libro pervade e trascende la sua mente.
Come un orologio assurdamente preciso, l’avanzare dei secondi è scandito dal livello del tè nella tazza, finché con un rintocco assordante, l’ultima goccia di bevanda è bevuta e la tazza torna ad appoggiarsi sul tavolo, vuota. L’uomo che legge, allora, alza gli occhi e si guarda intorno e per la prima volta di accorge di non essere solo.
Alcuni tavoli sono occupati da figure sedute, leggermente chine in avanti, quasi a sussurrare delle misteriose verità alla figura di fronte, dei leggeri bisbigli, indistinti, fastidiosi come dei brusii e dei fruscii, raggiungono l’uomo che fugge. Cerca di cogliere qualche frase, ma non riesce a distinguere nulla, non è neppure sicuro di riconoscere la lingua in cui quelle strascicate parole vengono pronunciate. Osserva le varie coppie sedute ai tavoli, ne ode l’indefinito mormorio ed ogni volta gli sembra di cogliere un linguaggio differente, estraneo, intraducibile nel suo muto idioma. Vanamente socchiude gli occhi per concentrarsi meglio sulle singole parole, sui suoni che vengono pronunciati ma ode solo un ronzio, come di fogli spiegazzati dal vento, di foglie che cadono a terra in un autunno rosseggiante, il gorgoglio lontano di una stanza chiusa, il rumore di fondo di un nastro terminato, di un disco che gira a vuoto.
Alza gli occhi allora e fissa le figure che gli siedono attorno, cerca di concentrarsi sui particolari, di cogliere un colore, un tratto, un particolare distintivo l’uno dall’altro, di vederne le caratteristiche peculiari che rendono il singolo soggetto unico: una forma del naso, un colore degli occhi, un’espressione imbronciata o felice. Ma non vi riesce. Man mano che il suo sguardo si fa più attento, più indagatore, le figure sembrano quasi ritrarsi, allontanarsi, rendersi incerte, fuggevoli. Più i suoi occhi cercano di penetrare i particolari degli altri, più questi sembrano fare un passo indietro, alienarsi, distaccarsi dalla stessa realtà, rifuggire al sicuro su un altro piano, abbandonare questa realtà per trovare comodo riparo altrove, in un aldilà a loro accessibile ma invisibile e inavvicinabile.
Mentre gli occhi dell’uomo che fugge indugiano sulle sagome sedute, queste si fanno via via più diafane, impalpabili, trasparenti e inafferrabili, i loro stessi contorni si vanno perdendosi, trasformandosi in una sorta di nebbiolina indistinta dall’ambiente circostante, i colori si appannano, perdono di vivacità, trasformandosi in un grigio piatto e monotono, gli stessi tratti distintivi del volto, che permettono il riconoscimento e con esso l’attribuzione di emozioni, si deformano, si levigano, si trasformano in una maschera liscia, ovaloide, una superficie biancastra e piatta in cui si infossano due buchi neri poco sotto la fronte e un foro rosso al di sopra del mento. Il movimento della labbra si trasforma in una sorta di risucchio di questo baratro di carne, uno sfintere incontrollato, spasmodico, che cerca di catturare e di introiettare in sè il mondo intorno. Gli stessi occhi diventano due fori neri, senza espressione, vacui e morti, come ferite di un proiettile in una superficie scura. Il naso scompare, il viso si fa piatto, informe, identico, l’uno con l’altro. Mostruosa identità comune, che si ripete, invariata, clone dopo clone, in tutti i presenti, finché anche la cameriera sorridente non si trasforma. E l’uomo che fugge resta il solo a mantenere un volto e in quei tratti, scolpito, resta il dolore della vita, dei ricordi, del tempo trascorso e degli sbagli compiuti.
Si alza l’uomo che cammina, piano si dirige verso l’uscita, e ancora una volta volge lo sguardo a quei casuali commensali che hanno condiviso una breve parte della sua fuga, e con mestizia, con tristezza, si accorge di non riconoscerli, si rende conto che non sono esseri umani, ma solo marionette, identiche creature avide, cloni identici che dalla bocca orrenda succhiano la vita che sta loro intorno, come inconsapevoli vegetali alla spasmodica ricerca di limacciose sostanze vitali.
Così, senza più rivolgere uno sguardo a quelle creature deformi e lontane, l’uomo che cammina esce dal locale, si guarda intorno nella piazza e, scendendo i tre gradini, riprende il suo percorso, lungo la via che gli si apre dinnanzi.
E la strada prosegue.

Il cielo si sta oscurando, il sole nascosto dagli alti alberi che costeggiano la strada ha abbandonato la volta, rintanandosi nella sua dimora notturna, tuttavia i suoi raggi, testardi e caparbi, ancora soffusamente illuminano il mondo, sebbene la loro luce si faccia via via più labile, più tenue e fioca, allungando le ombre e oscurando i colori.
I dettagli cominciano a farsi offuscati e velati, l’aria più fredda e l’immaginazione dell’uomo che cammina trova facili appigli per sognare di spaventosi inseguitori e per costruire fantastiche creature subdolamente in attesa alle sue spalle, pronte a ghermirlo con le loro fauci digrignanti. Aumenta il passo, l’uomo che fugge, come a voler scappare più velocemente dall’ombra che dal cielo scende oscurando il mondo, come se il tempo stesso fosse ubbidiente al ritmo del suo passo e camminando più veloce anche i secondi scorressero più veloci, anticipando l’alba ancora lontana del giorno dopo.
Non è ancora sceso il buio che tutto rende nero e impercepibile, quando la strada termina.
Si è sempre aspettato di vedere di fronte a sé la via, il cammino aperto verso un orizzonte lontano, talmente distante da diventare quasi mitico e leggendario ed ora la lunga striscia di cemento grigio che ha fin lì percorso si conclude. Finisce. Si infrange.
Ancora una volta le gambe dell’uomo che fugge si fermano, ancora una sosta, ancora una vittoria per i suoi avidi nemici, un’altra sconfitta, un’altra triste concessione alla morte, alla disfatta e al fallimento. L’uomo che cammina è perplesso. Si guarda intorno stranito, cerca la striscia di grigio che ha così intimamente condiviso il suo vagabondare sino ad ora, si aspetta di vederla spuntare all’improvviso, nascosta da qualche albero, cerca di svelare il crudele inganno dei suoi inseguitori, l’angosciosa strategia per porre fine al suo andare. Presi dal panico, i suoi occhi corrono, tutto intorno, razionalmente incapaci di dare un senso a questa sparizione, a questo presente infido e irreale. Ma non vi è traccia della strada. La via si è frantumata contro quella cosa davanti, quell’abominio che ha inghiottito il manto grigio, il suo fedele compagno. E allora l’uomo che cammina trova la forza e il coraggio di alzare lo sguardo e di osservare la cosa che pone fine alla sua fuga.
Alta, imponente, l’ampia cupola di vetro al centro si staglia contro l’orizzonte che ancora si intravede riflesso nelle vetrate linde; a sostenere la struttura una spirale di metallo, che lentamente sale ad avvolgere e proteggere sino alla cima, da cui spunta un’asta, su cui non svetta nessuna bandiera. Ai lati, le solenni colonne bianche si lanciano repentine verso il cielo, a volerlo conquistare, raggiungere e sottomettere; i capitelli delicati a ricordare un abbraccio con cui possedere le stelle che ancora non illuminano la volta; dietro il colonnato si intuiscono le grandi finestre a specchio che riflettono la strada che lì muore, dando la fugace e illusoria impressione che essa possa continuare ad esistere, magari in un'altra dimensione a cui si accede da quelle porte chiuse. Al centro un pesante e massiccio portale di ferro battuto, da lontano solo si intuiscono i minuti bassorilievi che lo decorano, sembrano esili figure che danzano nell’ombra della sera che va calando.
L’intero edificio è bianco, ancora luminoso anche nella penombra del tramonto, risplendente di una luce propria, chiara e sottile. Forse un tempio, forse un tributo a qualche sovrano beneamato, forse un tribunale in cui i peccati vengono giudicati, forse semplicemente un edificio bello, ornamentale, fatto per il piacere e non per una funzione specifica.
Per l’uomo che cammina quella costruzione è semplicemente una fine, un omicidio. E’ la morte della strada e con essa della sua fuga ed è la sua condanna, la sua perdita.
Con un passo malfermo, ciondolando sulle gambe stanche e disilluse, l’uomo che fugge si avvicina alla costruzione che si gli pone dinnanzi. Il capo chino, rassegnato, senza più la forza di opporsi al destino che lo opprime, passivo di fronte alla rassegnazione della disfatta, accetta umile le sventure e le offese. Percorre quei pochi metri che lo separano dal portone debolmente, indolente ad una esecuzione capitale che lo attende oltre.
I piedi strascicano, grattando a strada che l’ha tradito, che si è fatta ingannare e sconfiggere, raschia le suole sul manto di cemento come a volerlo ferire, a volersi vendicare di un abbandono, di un tradimento. Ferisce la via a cui si era concesso con fiducia, a cui si era donato senza riserve, silenziosa urla di protesta s’innalzano nel cielo con quel passo apatico e il suo modo di gridare la sua rabbia, la sua frustrazione, la sua finale disperazione.
E’ di fronte al portone. Lo osserva, non vi è curiosità, piuttosto la succube inerzia del dover vivere questa condanna fino in fondo, pienamente, colpo dopo colpo, accettandola e lasciandola scorrere su tutto sé stesso.
La luce morente del tramonto con fatica rischiara e definisce le piccole immagini scolpite che paiono fondersi in un tutt’uno caotico, una bolgia di corpi che si contorcono nelle fiamme di un inferno demoniaco e sadico. L’uomo che fugge alza gli occhi, svogliatamente fa passare l sguardo sulla superficie miniata del portone nero, cerca di cogliere un senso a ciò che vede ma la sua mente si rifiuta di ricondurre quelle forme ad una rappresentazione, ad una riproduzione di qualcosa di reale, di esistente. Non sembra esservi mimesi in quelle sagome levigate che emergono come ecchimosi dalla superficie massiccia e metallica, appaiono piuttosto un insieme di escrescenze callose e gonfie di pus, pronte a scoppiare, lacerandosi.
Piano i suoi occhi smettono di indugiare, rifiutando di dare un senso alla caoticità scolpita, desistono dal tentativo di assoggettare alle loro regole logiche ciò che viene loro trasmesso, abbandonano i loro schemi precostituiti e si lasciano sedurre dalle forme putrescenti e informi. Spalanca gli occhi, l’uomo che fugge, come a voler cogliere l’intera figura e non più i singoli particolari, rassegnato al trionfo della casualità sull’ordine della razionalità umana. Nessuna figura emerge, nessuna immagine si fa strada nei recessi arcaici della mente dell’uomo che fugge, nessun archetipo di razza trova identità e somiglianza con l’ammasso indistinto, astratto che gli sta di fronte, come se quel portone fosse stato concepito da una mente totalmente aliena, mossa da regole, meccanismi, completamente avulse, lontane eoni nel tempo e nello spazio dalle strutture uniformi umane.
Man mano che i suoi occhi indugiano su quell’orrore, l’uomo che fugge, si accorge di avere la fronte imperlata di un sudore viscido, freddo, cattivo, una patina vischiosa e putrida; fa scorrere le dita per pulirsi il volto e scopre le dita umide di una sostanza biancastra, densa, un umore molliccio. Sente il suo corpo reagire all’atrocità insensata che ha di fronte, ribellarsi, urlare la sua protesta tramite queste esalazioni mefitiche. Si terge la mano, violentemente e convulsamente, su pantaloni, spaventato e terrificato. Fissa il portone con paura, si chiede cosa nasconda quell’arte aliena e inumana. Accecato dal panico e dallo sgomento, spalanca furiosamente le ante e, quasi di corsa, si lascia alle spalle quella malvagia raffigurazione. E così entra nell’edificio.
Un ampio salone lo accoglie, flebilmente illuminato dalla scarsa luce che filtra dalle imposte socchiuse delle finestre. La luce giunge a fatica ad illuminare sino il centro della vasta sala, lasciando nel buio e oscura la parte in fondo, opposta all’entrata. Una parete di nero, come un sipario chiuso a nascondere misteriose scenografie e attori ansiosamente in attesa. L’attenzione dell’uomo che cammina è, tuttavia, attirata repentinamente dall’enorme e sproporzionata scalinata che dal cuore del salone sale mollemente e placidamente verso un piano rialzato, di cui si intuisce, nella penombra, solo uno stretto ballatoio e una ringhiera decorata.
La scala appare agli occhi affaticati dal buio crescente come una sinuosa ansa, un dorso di un serpente serenamente disteso al sole, una leggera curva che sale, gradino dopo gradino, senza fretta, senza ansia di condurre a destinazione.
I gradini sono bianchi, di marmo pulito, leggere venature grigie impreziosiscono la pietra, come degli spiritelli capricciosi che danzano beati nella purezza della roccia. Ai lati della scala, una bassa ringhiera scolpita nello steso marmo a forma di colonne i cui capitelli ricordano quelli della parete esterna dell’edificio, finezza estetica e artistica di un fantomatico architetto.
Le basse colonne accompagnano il salire della scala come impettiti soldati, sull’attenti di fronte al passaggio di un re distratto, fermi a celebrare ogni singolo passo del loro amato sovrano.
I gradini sono bassi, larghi e irragionevolmente lunghi, costringendo chi sale a poggiare sempre entrambi i piedi su ogni gradino e per un momento ergersi come su un podio, per poi riprendere la salita, raggiungendo il ripiano successivo. Una celebrazione continua di successi, di trionfi, sino all’apice, all’ultimo gradino che porta al premio finale, alla meta desiderata, al graal ricercato.
L’uomo che cammina, nella sua mesta rassegnazione, intuisce subito che quella scalinata marmorea non è stata costruita per lui, per quel momento, per la sua salita ma che ora, quei gradini sproporzionati sono lì, esistono, trovano senso, nell’attendere i suoi passi, le sue rovinate suole, il suo incedere claudicante. Intuisce che è la sua presenza a tenere insieme tutto ciò che ora lo circonda, l’edificio, le scale, il piano superire che solo si intuisce; è il suo essere osservatore, protagonista a far sì che quell’edificio emerga dal nulla di un oblio d’inesistenza e trovi spazio nel piano dell’essere.
L’uomo che fugge capisce, allora, che in questo suo essere latore del senso stesso del reale, il suo destino è segnato, non può essere rifuggito, deve essere vissuto, deve essere compiuto. Il suo essere presente in quel luogo lo inserisce necessariamente e di forza in un percorso predefinito, in un disegno in cui egli è parte obbligata e le cui azioni sono già state tracciate, già vergate sul grande libro del fato e vanno, ora, semplicemente compiute, vissute.
Muove il passo l’uomo che fugge e si lascia condurre verso l’alto. Le colonne salutano il suo passaggio, disinteressate al suo aspetto trasandato e al suo incedere fiacco e rassegnato, riconoscendogli comunque la regalità di chi sale quelle scale.
Piano, gradino dopo gradino, abbandona l’ampio salone e si fa più vicino alla meta che, così crudelmente, gli è stata imposta e donata; guarda in basso, per una volta sola, nelle sue iridi colorate e acquose vi è la malinconia di un passato perduto, la tristezza di un futuro che non si compirà mai e la pena di un presente doloroso e insensato.
Seguendo la linea docilmente curva della scalinata, l’uomo che fugge conquista la cima e pone i piedi sul ballatoio del piano rialzato.
Uno stretto corridoio perpendicolare alle scale lo attende, l’oscurità che si va facendo sempre più densa non concede alla vista altro che vaghi particolari, indefiniti, nebulosi, forse dei quadri appesi alla parete, forse dei ritratti antichi di volti austeri e autoritari, chiome bizzarre, abiti insoliti, espressioni mute di ferma determinazione. Di fronte alla scala si apre un largo ingresso, chiuso da un portone di legno a due ante; nonostante le ombre si siano fatte sempre più lunghe e nere ancora se ne coglie il colore marrone, vivo, leggermente venato a ricordare la possanza, la maestosità dell’albero da cui proviene quel legno.
Il ballatoio è stretto, non vi sono ulteriori aperture ai lati, la sua finzione è solo quella di offrire una sorta di palco rialzato, di largo loggione da cui osservare il salone sotto e scrutare con spietata e morbosa curiosità gli invitati ad un ballo, perso in un passato sepolto dalle macerie del tempo. Ondeggianti figure, strette in una danza leggiadra, sbarazzina, ampie gonne ad aprirsi nel vortice del ballo e a rivelare intricati disegni e immagini amorose, la musica soave, delicata, severi cavalieri sorridenti nel contemplare rilucenti compagne felici, camerieri impettiti e ossequiosi, negli occhi la loro invidia per un mondo a loro così vicino ma così estremamente lontano, bambini dai pantaloni al ginocchio, a rincorrersi schivando le roteanti coppie danzanti, tutto questo sembra ancora essere lì, presente nel salone, come antichi fantasmi, testardamente inconsapevoli che la loro vita si è ormai conclusa e ciò che resta di loro è solo un cumulo di cenere grigia.
Il grande portone di legno si apre docile e obbediente alla spinta dell’uomo che fugge e disvela il cuore stesso dell’edificio che ne compie il fato.
I cardini, sebbene inabituati al loro lavoro, con grazia fanno scorrere i due battenti e senza un suono, senza una stridente protesta le ante si muovono, rivelando il tesoro sin lì nascosto e protetto.
La stanza che si disvela all’uomo che cammina è avvolta da un manto nero di oscurità, un’apertura su uno spazio indefinito e senza confini di nero in cui i contorni degli oggetti presenti si intuiscono semplicemente nelle diverse gradazioni di buio. I piedi posti sull’orlo di un abisso, di fronte ad un baratro, attratti inesorabilmente dal nulla tenebroso che si leva e domina un passo oltre. L’uomo che fugge strizza gli occhi, come a voler catturare le forme nascoste dall’assenza di luce e piano i suoi occhi cominciano ad abituarsi e le pupille, deformandosi all’estremo, imparano a svelare particolari sin lì occulti.
La stanza appare vasta, dalla forma leggermente ovale, le pareti laterali allungate a ricordare le forme morbide di un uovo perfetto, senza deformità. Alle finestre alte e strette dei lunghi tendaggi dal colore scuso, forse nero, forse viola, si oppongono alla crepuscolare luce che tenta di farsi strada dall’esterno, severe sentinelle poste a presidio del nero dello stanza. Le lunghe tende sono immobili, sebbene se ne intuisca la leggerezza della stoffa esse rimangono ferme, senza che nessun alito di vento riesca a smuoverle e farle danzare incontrollate. Nella loro statica rigidità presidiano quell’ampio spazio da ogni possibile intrusione.
A pochi passi dall’uomo si intuiscono delle sedie, basse, semplici che contrastano con il lusso dell’intero edificio, poste forse per un’occasione particolare e specifica ma destinate a ritornare in qualche polveroso magazzino. Dal lato opposto della sala sembra emergere un’ombra più nera, una massa di oscurità maggiore di cui è impossibile immaginare la forma e gli aspetti. Una sorta d foro nero nell’oscurità intorno che attira lo sguardo, lo calamita, lo ammalia, lasciando sognare oggetti impossibili e magici.
L’uomo che cammina entra nella stanza e, senza neppure spiegarsi il perché, chiude le ante dietro a sé, esiliandosi e imprigionandosi in quello spazio cupo, nell’abisso informe che lo fissa.
La porta di legno massiccio, chiusa dall’uomo che cammina, completa l’azione preservatrice dei tendaggi e la luce, anche se fioca e notturna, viene completamente bandita.
Paradossalmente, tuttavia, ora nel buio più assoluto piano gli oggetti e le figure presenti nella stanza si vanno via via a definirsi, risplendendo di una sottile luce nerastra che ne stabilisce contorni e le forme.
Si ergono così dal buio nuovi dettagli e l’uomo che cammina, immobile e fisso si trasforma in un passivo osservatore, lasciando per la prima volta che il reale fluisca, mostrandosi progressivamente, di fronte ai suoi occhi senza che sia lui a rincorrerlo, a cercarlo, a bramarlo.
La fuga dell’uomo che cammina è terminata, non sta più spingendosi in quell’incessante e continua avanzata in cui il mondo stesso si muove a ritmo del suo incedere. Quell’evasione, quel avanzare passo passo, creavano una sorta di tunnel protetto in cui l’uomo poteva rifugiarsi e sentirsi al sicuro, lasciando che la realtà intorno fosse evitata, fosse tenuta distante dalle barriere stesse create dal movimento. L’essenza del reale era scavata, perforata e in quel buco stretto, che veniva così a crearsi, camminava l’uomo che fugge, certo di non venire mai contaminato e toccato dal ambiente che dominava aldilà. Era la sua stessa fuga, il suo camminare passo passo, il suo non fermarsi mai, né con i piedi né con la mente a perforare il reale creando una nicchia di vuoto, di isolamento in cui l’uomo si nascondeva, timoroso e spaventato. Ma ora, per la prima volta, l’uomo che cammina è fermo e lascia che sia il mondo a venire a lui, esibendosi e ostentandosi improvvisamente, senza preavviso, senza preannuncio, senza controllo alcuno. L’uomo è ora passivo di fronte al mondo, al suo esistere, al suo imporsi sul suo agire, ne è immerso, avvolto, annegato. Imperscrutabilmente allora il reale si apre agli occhi dell’uomo, lo investe, lo travolge, incurante dei suoi rifiuti e del suo desiderio di dominio e ordine.
Senza che l’uomo possa fare alcunché i particolari della stanza si mostrano, come attori che entrano in scena e recitano il loro copione.
Sono le figure incappucciate, vestite di un lungo e cadente manto nero a mostrarsi per prime. In piedi di fronte alle sedie fissano quel punto nero e seducente in fondo alla stanza. Il leggero velo opaco e trasparente, rivela le sagome confuse di un viso assorto e in contemplazione, un respiro leggero muove il velo, in lente contrazioni del tessuto. Si intuiscono dei profili femminili, austeri, severi, dai tratti duri, spigolosi, angolosi. Gli occhi aperti, concentrati, fissati su di un punto poco oltre che non si svela ancora e che rimane, nel suo essere nero e misterioso, fonte di attrazione e di spasmodica curiosità. L’ampia veste scende morbida lungo corpi che non si intuiscono e restano protetti ad ogni sguardo indagatore. Sono impossibili silhouette dal corpo informe, ampio, vasto e indefinito, racchiuso in una veste nera che sembra estendersi come viva e, sopra questo ammasso di colore vago, un volto, un viso minuzioso, tagliato con colpi violenti e precisi in un blocco di carne pallida.
Queste creature emergono dal buio, una ad una, come invitate ad una celebrazione che sta per compiersi, nessuna rivolge uno sguardo all’uomo che cammina che resta semplice, passivo spettatore al presentarsi del mondo dal buio.
L’uomo che cammina volge lo sguardo nella direzione in cui sono rivolte le figure velate, osserva con attenzione quel punto nero che sul fondo della sala, lascia che le pupille si dilatino a coprire l’iride colorato e l’occhio si trasformi in una biglia nera. Finalmente alcuni dettagli emergono, dalla massa di oscurità sembra mostrarsi un basamento su cui è poggiato un oggetto, lungo rettangolare, dalle forme squadrate e precise. Ancora non ne coglie il senso l’uomo che cammina quando, all’improvviso, una luce calda, di un giallo che ricorda il grano in un campo d’estate, illumina quella forma impenetrabile. E’ come se un faro fosse stato acceso esattamente sopra la sagoma nera e i suoi raggi di luce ardente cadano esattamente sulla massa nera, destandola al mondo. Il fascio luminoso colpisce così con precisione che null’altro nella sala è illuminato e tutto resta protetto e velato dal buio.
Per un lungo momento l’uomo che cammina non vede nulla, accecato da una luce che le sue pupille estese allo spasmo non riescono a cogliere; gli occhi urlano il dolore della sorpresa e le mani vanno a proteggere il viso, impedendo ai raggi luminosi di ferire ancora.
Lentamente il cerchio della pupilla si ritrae restituendo il colore all’iride e abituandosi alla luce inattesa. L’oggetto illuminato ora è lì, visibile, osservabile nei minimi dettagli, emerge come un fiore colorato in un prato di erba nera e invita a coglierlo, a possederlo.
Un lunga bara è distesa su un piedistallo marmoreo, scolpito nella stessa roccia biancastra delle scale percorse poco prima. Una cassa di legno rettangolare, dal colore scuro, di mogano, lucida e riflettente i raggi caldi del faretto acceso.
Non vi sono dettagli scolpiti ad abbellire il legno, la superficie è levigata e liscia, senza imperfezioni, senza concessioni all’estetica dello scultore. Una semplice cassa il cui scopo è quello di contenere, di raccogliere, di proteggere il corpo deposto.
Il coperchio della cassa è aperto, se ne coglie l’imbottitura soffice, spugnosa, dal colore rosso ramato.
Dalla posizione in cui si trova, l’uomo che cammina, non riesce a vedere l’interno della bara; da lontano coglie solo le pareti legnose e il coperchio spalancato. Intuisce che quella luce, accesasi improvvisamente per ordine di chissà quale mano, ha tuttavia un significato, un senso. E’ un messaggio, chiaro e luminoso come il veicolo con cui si è manifestato. E’ un ordine, repentino, semplice; è un invito ammalante e sinuoso; è una promessa finale e conclusiva.
L’uomo che fugge capisce che tutto quel procedere all’interno dell’edificio è stato un lento costrutto di senso, una lenta realizzazione di un progetto, di un tragitto che trova in quel finale illuminato il suo significato. La strada ostruita, l’edificio imponente, il portone alieno, l’ampio salone popolato da spettro, la scala regale, il ballatoio teatrale, la stanza buia, ogni cosa è stata posta lì per quel momento, per quella bara illuminata contenente un corpo ancora nascosto. Solo avvicinandosi, scoprendo il volto di colui che riposa eternamente nella cassa scura, solo così il fato potrà compiersi e il destino realizzarsi.
Quest’attimo rappresenta il punto finale, il momento in cui ogni cosa trova la giusta collocazione in un disegno più vasto forse ancora irrazionale e assurdo ma quantomeno globale. E’ il punto in cui ogni cosa si connette in un tutto armonico.
L’uomo ne è consapevole e lo accetta. Avanza, lentamente, un passo strascicato dopo l’altro, finché non è di fronte alla cassa e guarda dentro. Il suo sguardo si ferma ad osservare l’interno della cassa, vi indugia a lungo, lasciando che le informazioni che giungono dagli occhi trovino logica nella sua mente. L’uomo chiude per un attimo le palpebre, poi guarda ancora.
La cassa è vuota.
L’uomo capisce. Finalmente il senso di tutto quello che lo circonda gli è chiaro. Manifesto, palese. Forse in qualche antro del suo cervello folle aveva immaginato un esito completamente diverso, un finale per questa storia diametralmente opposto. Una conclusione pessimistica si era fatta strada nella sua coscienza e ormai se l’aspettava. E’ stato sorpreso. E’ stato forse pure ingannato. Ma ora l’uomo che vive ha compreso. Tutto gli è chiaro, palese e, sebbene sorpreso, è pronto ad accogliere questa verità. E a viverla.
L’uomo che vive si volta, a passo svelto abbandona la stanza e scende le scale. Vede sul fondo del salone una porta che prima non aveva notato. La apre e nel crepuscolo della sera scorge la striscia di cemento che temeva scomparsa. Lì, fedele ad attenderlo.
Esce dall’edificio e, con un sorriso, riprende a camminare.
E la strada prosegue.

Questo racconto è stato scritto ascoltando “Voyage 34” dei Porcupine Tree

Logos
25/03/2006

adopt your own virtual pet!