11 aprile 2006

Cronaca del dopo-bomba

CRONACA DEL DOPO-BOMBA
Quando uscì dalla porta, la luce del sole si era fatta rossa e stava morendo lentamente dietro la fila di case sull’altro lato della via. Un cane attraversò la strada dimenando la coda. Lui si chinò, gli fece una carezza e pensò. Mi resta ancora una cosa sola da fare.
Con la mano fra il pelo fulvo del dorso del cane borbottò qualche frase scomposta e l’animale gli rispose con un mugolio triste, guardandolo con i suoi grandi occhi neri. Si drizzò con fatica in piedi e fece scorrere lo sguardo sulle case a ridosso della strada. Se le ricordava un tempo, vive e piene di gente vociante, felice e spensierata, ora le vedeva devastate dall’esplosione, ruderi ammassati di mattoni e calcestruzzo senza forma, un’incoerente opera d’arte astratta dalle proporzioni gigantesche.
Solo la memoria gli permetteva di riconoscere in quelle macerie le forme consuete, rassicuranti delle piccole villette che un tempo sorgevano ridenti lungo quella strada di campagna.
Un alito di vento improvviso gli scompigliò i capelli e con un gesto rabbioso tentò di tirali indietro dalla fronte e dagli occhi, li sentì sporchi, pieni di polvere grigia, fine e sottile, mefitica, tanto infida da infilarsi ovunque, inaridendo la gola e oscurando la vista.
Il suo sguardo si perse all’orizzonte, la strada procedeva a perdita d’occhio costeggiata dalle rovine delle case e dai resti ancora fumanti di alberi bruciati. Rivoli serpeggianti di fumo nero salivano al cielo scossi da un filo d’aria secca e pungente.
L’ultima cosa. Doveva fare l‘ultima cosa. Non avrebbe lasciato che tutto finisse semplicemente così. Ormai nulla sarebbe potuto cambiare, il pulsante era stato premuto e anche se erano passate solo poche ore da quel singolo momento di distruzione, sembrava davvero che facesse parte di un’era prima, di un mondo prima, di una vita prima.
Si incamminò con un passo strascicato e sofferente. La bomba l’aveva risparmiato ma il suo corpo era stato comunque consumato dalle radiazioni, dal calore e dalla violenza della detonazione.
Era stato fortunato. Quando il bottone era stato premuto, lui si trovava casualmente in cantina e, nonostante il crollo della casa sopra di lui, era riuscito a strisciare fuori e a respirare per la prima volta l’aria calda e densa di quel cielo violaceo. Aveva capito immediatamente cosa era successo. Troppe volte aveva ascoltato i notiziari scherzare sul pericolo di una nuova guerra totale, esorcizzare la paura con astrusi ragionamenti di geopolitica, scongiurare il panico con preghiere rivolte al cielo stellato e inebetendosi davanti a stupidi spettacoli televisivi.
Alla fine il dito si era mosso, un gesto semplice, apparentemente quotidiano, ripetuto infinte volte ogni giorno, abbassarsi, dare una leggera spinta e premere un interruttore, ma questa volta il bottone calcato non era uno qualunque.
Si immaginò il meccanismo che comandava la bomba, che le dava vita; una volta lesse un racconto in cui veniva descritto come un’enorme marchingenio grande quanto una parete di un’ampia sala, con led multicolori e intermittenti ad indicare chissà quale dato. Lui se lo era sempre figurato in modo più semplice.
Un piccolo meccanismo ovale, liscio, di colore biancastro, caldo al tatto e pesante. In cima, nella parte più stretta, un piccolo pulsante con un singolo led rosso opaco. Un oggetto dal design avveniristico, studiato e ricercato, ergonomico, quasi che vi fosse la necessità di averlo sempre con sé per essere pronti in ogni momento a comandare la distruzione.
Percorse faticosamente la strada che tante altre volte aveva intrapreso per recarsi in città, ora l’asfalto si deformava ad ogni passo, improvvise crepe e bubboni comparivano qua e là senza ordine apparente.
Dolorosamente gli tornò alla mente la pelle ustionata della prima persona che vide una volta risalito a fatica dalla cantina semisepolta. Non ebbe il coraggio di avvicinarsi troppo, di soccorrerla, di prestarle qualche aiuto, rimase lì, fermo ed immobile, guardandola contorcesi e sibilare gemiti di dolore. La pelle, ciò che l’aveva impressionato era l’epidermide, gli era rimasta scolpita nella retina, grigia, leggermente fumante, piena di croste, pustole e tumescenze gonfie di una sostanza giallastra e viscida. Aveva osservato l’uomo contorcersi a terra per diversi minuti e poi spegnersi con un rantolo soffocato, era rimasto lì incantato a fissare quel corpo ormai privo di vita e liberato da una sofferenza indicibile. Quello era stato il suo risveglio nel nuovo mondo. Nel dolore di quell’uomo morente si era compiuto il suo travaglio, la sua nuova nascita. Come la prima volta anche questa seconda volta era venuto al mondo nel sangue e nelle urla di sofferenza.

Giunse in città lasciandosi indietro i luoghi che aveva amato e che chiamava casa. Sul suo cammino non aveva incontrato nessuno, solo cadaveri orrendamente ustionati o statue di gesso digrignanti e urlanti, coloro i quali erano stati colpiti in pieno dalla folgore dell’esplosione e dalla sua vampa incandescente.
Aveva camminato a lungo, la testa china, senza guardare il volto dei corpi sparpagliati lungo la strada, non voleva riconoscere in quegli amassi di carne devastata amici e conoscenti, non voleva dare umanità a quelle orrende cose immobili stese lungo l’asfalto deformato.
Il sole scendeva placidamente lungo la linea dell’orizzonte e il crepuscolo lentamente oscurava i deboli raggi rossastri che ancora si incaponivano ad illuminare l’orrore, quando arrivò nella piazza. Ampia, spaziosa, decorata da antichi palazzi frutto dell’ingenio di sommi architetti, era stata per secoli il fulcro della città stessa, il luogo in cui i suoi cittadini si trovavano, si scambiavano idee, si amavano e vivano la loro natura di esseri sociali. La guardò, i suoi occhi inespressivi e vuoti scorsero le poche macerie, la desolazione, la miseria di una radura deserta, piatta, niente era rimasto, nessuno degli imponenti palazzo era sopravvissuto alla deflagrazione. Del luogo più bello della città rimaneva solo uno spiazzo polveroso di terriccio marrone, una piana distesa di scempio. Era quello il luogo in cui era scoppiata la bomba.

Vagò per la città senza meta, perdendosi tra strade che ormai non esistevano più e contemplando palazzi che si trovavano solo nella sua memoria. Attraversò interi quartieri scavalcando macerie e rovine, arrampicandosi tra cumuli di mattoni rossi del sangue di corpi schiacciati. Perse la cognizione del tempo e solo quando si accorse che il buio della notte, indifferente alla tragedia dell’uomo, era calato come ogni giorno si decise a portare a termine il suo progetto.
Cercò sopra di sé qualche punto di riferimento per orientarsi, una stella o una costellazione che potessero dirgli, dalla loro immutabile ed eterna staticità, quale direzione intraprendere per giungere nel luogo in cui tutto si sarebbe finalmente computo. Guardando nel nero del cielo si accorse di un fenomeno strano, un leggero alone arancione rischiarava leggermente la volta celeste, una sorta di aurora boreale, onde sinuose e tortuose si muovano delicate, improvvise esplosioni di luce gialla si accendevano casualmente al loro interno, tracciando misteriose figure ed evocando insolite e assurde raffigurazioni.
La violenza dell’esplosione era stata tale che persino il cielo ne era rimasto sfigurato e ora, nel buio della notte, sanguinava gocce di luce giallognola.
Quasi confortato dal fatto che il dolore non fosse solo degli uomini e che anche la natura stessa ne portasse le tracce e le cicatrici suppuranti si diresse verso la foresta che sorgeva al limitare della città. Non dovette camminare molto, il suo vagare senza metà l’aveva condotto nelle sue vicinanze come se il suo inconscio non si fosse affatto dimenticato del suo proposito finale.
La foresta, in realtà una semplice radura boscosa, sorgeva a nord della città e si estendeva per una superficie identica a quella del centro abitato. Una sorta di immagine riflessa, di presuntuoso duplicato naturale dell’operosità urbana dell’uomo.
Vi giunse percorrendo un lungo e stretto sentiero che come una sorta di innesto nervoso collegava le case agli alberi.
La conosceva bene la foresta, tante volte ci aveva passato dei momenti meravigliosi, perdendosi in essa, lasciando che i rumori e i versi degli animali lo cullassero e lo stregassero, come smarrito in un luogo magico, incantato, un bosco fatato popolato da fate e spiritelli benigni.
Ora della foresta non rimaneva che cenere. Gli alberi erano bruciati e i loro tronchi ardenti rischiaravano la notte come tanti fuochi fatui. Il profumo del muschio e dell’erba era sostituito dal fetore di bruciato che bruciava i polmoni e accecava gli occhi.
Tossendo e coprendosi il viso con un brandello della camicia si trascinò sino al punto che cercava.
Una piccola radura. Si accorse di essere arrivato poiché in quel spiazzo non vi erano alberi incendiati, né arbusti fumanti, solo una sottile polvere che, depositatasi lentamente, aveva colorato di un grigio spento ogni cosa.
Si fermò al limitare della radura, non più grande di pochi metri quadrati, e per un attimo rimase a contemplare quel luogo. Quante ore vi aveva passato seduto, a leggere un libro o a sonnecchiare, oppure rimanendo lì a far nulla, lasciando che il mondo, le sue preoccupazioni, la sua stessa vita si allontanassero e lo lasciassero leggero e svuotato.
Con passo incerto, timoroso e tremante, si avvicinò al centro della radura. Debolmente si inginocchiò sulle gambe malferme e cominciò a scavare. La terra si era seccata per il calore dell’esplosione e le sue dita stanche fecero fatica a smuovere quei pochi centimetri di superficie che lo separavano da ciò che cercava. Una scatola. Un piccolo contenitore di metallo, senza incisioni né raffigurazioni, nel buio rischiarato dalle braci degli alberi ardenti, intuì il colore ramato, leggermente rugginoso, conseguenza di anni di sepoltura. L’esplosione non lo aveva danneggiato, era come se lo ricordava.
Delicatamente ne sollevò il coperchio. Guardò all’interno della scatola e vide ciò che cercava, un sorriso fece capolino sul suo volto. Reverente estrasse il piccolo foglio contenutovi. Una fotografia, ingiallita dal tempo i cui contorni ormai sbiaditi erano quasi cancellati, tuttavia il volto che vi compariva era chiaro, luminoso e limpido. Vivo.
Il viso di una donna, sorridente, i grandi occhi scuri fissavano curiosi l’obiettivo come se vi potessero vedere oltre ed osservare coloro i quali avrebbero guardato quella fotografia negli anni. I lunghi capelli neri erano leggermente scompigliati da un movimento repentino e giocoso. Alle spalle della donna si intravedevano degli alberi. Quella stessa foresta.
L’uomo si lasciò cadere a terra stringendo tra le dita la fotografia. La fissò a lungo e, chinando il capo, per la prima volta da quel mattino, pianse.

10/04/2006
Logos
Questo racconto è l'ideale e speculare prosecuzione di "Cronaca dell'ante-bomba".

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