27 agosto 2006

La scelta

LA SCELTA
Non vi era stata scelta. Non vi è mai scelta. Tra la morte e qualunque cosa non vi sono dubbi. Qualunque cosa. E lì era qualunque cosa.
Boris fece scorrere lo sguardo tutto intorno, l’espressione dei suoi occhi tradiva il ribrezzo, l’odio, lo schifo per ciò che vedeva. Sputò per terra. Il grumo di saliva marrone raschiata dalla gola finì sul pavimento tra i segni di altre e vecchie sputate. Fissò la macchia per un po’, poi si voltò e tracannò una lunga sorsata da una contenitore di plastica poggiato sul tavolo.
A fatica ingollò il liquido del contenitore, ne conosceva il sapore a memoria ma allo stesso modo ogni volta gli faceva salire violenti spasmi e feroci conati di vomito. Concentrato proteico. Stampato in chiare lettere occidentali sul dorso della bottiglia e poi, più sotto e in piccolo, a caratteri cirillici tutte le tabelle dei valori alimentari. Li aveva letti un’infinità di volte ma ogni volta si chiedeva come potesse sopravvivere un uomo bevendo un litro di quella cosa al giorno. Nonostante l’alto contenuto proteico, vitaminico, minerale concentrato in quella specie di denso brodo giallognolo Boris si meravigliava che ad un corpo potesse bastare così poco.
Non importava del suo sapore, del suo odore mefitico, putrescente, un odore che Boris aveva sentito solo nei cadevi putrefatti al sole del deserto, non importava della sensazione di viscido lungo l’esofago che si provava ogni volta, non importavano le feci gialle e liquide che Boris era costretto a cacare ogni giorno, non importava che quel preparato sarebbe stato il suo unico nutrimento di qui a.. a chissà quando. Non importava. Tra la morte e qualunque cosa non vi è scelta. Qualunque cosa.
Boris si sdraiò sulla branda, tentò di chiudere gli occhi e di pensare ma la scarica di adrenalina che la caffeina contenuta nel liquido lo contrinse a tenere le palpebre spalancate. Fissò il soffitto. Osservò la lamina metallica un paio di metri sopra di lui. Il suo cielo, il suo orizzonte da tanti di quei giorni che neppure si ricordava. Bestemmiò con violenza. Un urlo inutile, rivolto ad un dio che non lo aveva mai ascoltato, sia nelle preghiere che negli insulti.
Mise le mani sul petto e attese con pazienza che il suo corpo digerisse il preparato. Mezz’ora, non ci sarebbe voluta più di mezz’ora perché il suo avido corpo assimilasse tutte i composti nutritivi presenti in quella merda.
Fece scorrere gli occhi lungo le pareti di quel luogo. E vide il suo qualunque cosa.
Una stanza. Una sola stanza, grande non più di tre o quattro metri per ogni lato, le pareti di un ferroso color grigio scuro, illuminato da un’unica lampada al centro del soffitto. Un lampadina perenne che attingeva la luce dal complicato sistema di alimentazione esterna che dava energia a tutti gli impianti presenti nella stanza.
Sul lato destro la branda, dalla parte opposta uno scaffale ripieno di manuali di funzionamento, sugli altri due lati, una scrivania con un computer accesso e altri aggeggi elettrici, illuminati da led intermittenti e colorati e, opposta a questa, la dispensa, colma dei contenitori per il liquido proteico. Migliaia di identiche bottiglie, numerate da 1 a… Boris non lo sapeva fino a che numero. Una bottiglia di garantiva la sopravvivenza per due giorni. Sapere quanti contenitori vi fossero nella dispensa significava sapere la data della fine. O quantomeno la data in cui sarebbe terminata la speranza.

Quella era la sua casa. Lo era da circa otto anni, da quando il giudice lo aveva condannato alla non-scelta. La morte o quel luogo. Boris aveva fatto l’unica scelta possibile.
L’avevano beccato in un bordello di Vladivostok mentre si scopava una puttana. Una morettina niente male. La Feder-pol aveva fatto irruzione nel palazzo in tenuta da combattimento, poliziotti armati di mitragliatori automatici, bombe a percussione e di un’infinità di gas letali. L’avevano trovato nudo come un verme mentre si agitava freneticamente tra le gambe della puttana. Sarebbe bastato un poliziotto di quartiere a catturarlo. La Feder-pol aveva preferito mandare la squadra d’assalto per catturare il famoso Boris Ivaschenko. Accusato di dodici omicidi su commissione, sospettato di altre ventitre, killer prezzolato al soldo della mafia russa, della jakuza giapponese e delle tradi cinesi. A Boris non importava da chi veniva l’ordine, a lui interessava solo che il suo conto corrente cifrato sulla banca on-line presentasse l’accredito stabilito e il destino del tizio, della tizia, o anche del bambino raffigurato sulla fotografia che gli spedivano al suo e-mail era segnato. Di solito preferiva risolvere le sue pratiche con un fucile d precisione, una sola, singola pallottola calibro 12 a spappolare il cuore. Gli era capitato però che qualche cliente gli chiedesse un trattamento speciale per gli obiettivi. Aveva ucciso a mani nude, con ogni tipo di arma bianca, con cannoni così potenti da rendere irriconoscibile il cadavere anche alla madre. Una volta si era persino servito di un serpente velenoso. Non aveva mai fallito Boris. Amava il suo lavoro. L’ordine, la semplicità, la ripetitività. Mail, acconto, esecuzione, saldo finale. Non aveva mai ucciso per piacere. Era capitato che provasse piacere nel eseguire un contratto. Ma ciò che gli dava soddisfazione era la sua stessa efficienza. Il suo essere professionale. Sempre. Non era uno di quei maniaci che finiscono per farsi beccare perché si masturbano sulle loro vittime. Boris era un colletto bianco. Pulito, preciso.
Il sistema giudiziario della Federazione dei Paesi Commerciali lo riconobbe colpevole di ventitre omicidi su commissione, atti di brutalità e violenza su tre bambini e su dodici donne, collusione con la mafia russa, giapponese, cinese, italiana e inglese. Fu condannato, inoltre, per una lunga lista di violazioni fiscali, contributive e persino per un’effrazione stradale.
La F.P.C. si vanta che le sue carceri sono tra le più pulite e vivibili del pianeta, omette però che il suo sistema giudiziario prevede il carcere solo in casi particolari e piuttosto rari. La pena capitale è considerato nella F.P.C. un valido strumento di repressione del crimine, o quantomeno, del criminale.
A Boris però venne data una chance, venne offerta una scelta. Da un lato l’iniezione endovenosa continuata di un barbiturico ad azione rapida in combinazione con un agente chimico paralizzante, dall’altro la possibilità di contribuire al progresso dell’uomo e alla sua conoscenza dell’universo. Boris comprendeva il significato della prima frase e non della seconda. Proprio per questo scelse la seconda.
Niente ago in vena, in cambio quella stanza. Questa la sua condanna. Questa la sua scelta.
Fu sottoposto ad un breve addestramento: immersioni, giri sulla macchina centrifuga, palestra per rafforzare il tessuto muscolare e fu imbottito di farmaci antibiotici fino a scoppiare. Tre mesi dopo era pronto. Fu caricato di peso sulla prima astronave della F.P.C. in partenza dallo spazio porto militare di Edimburgo e, ancora senza sapere il significato della seconda frase, sparato nello spazio.
Il viaggio durò circa un mese, era confinato nella sua stanza e poteva uscirne solo per i pasti, sempre tenuto sotto stretta osservazione da due Feder-pol e senza mai mischiarsi con il resto dell’equipaggio.
Una sera, mentre era a cena, sentì uno dei due suoi cani da guardia scherzare con il collega.
-Speriamo che se la goda questa cena del cazzo. Sarà l’ultima volta che ingurgiterà qualcosa di solido. Da domani ce ne liberiamo.-
Si addormentò rimuginando sulle parole del Feder-pol e quando si risvegliò si ritrovò in una stanza nuova. Allora la osservò con sorpresa ora la conosceva sin troppo bene. La sua prigione. La sua casa. Il suo centro ricerche per l’esplorazione spaziale della F.P.C. Questa stanza.
Sul tavolo un foglio. Una stampa direttamente dal centro ricerche spaziali della F.P.C., poche righe per dargli finalmente il senso di quella seconda frase.
Boris lesse quella pagine cento volte senza capire realmente ciò che vi era scritto. Conosceva il senso delle parole, delle frasi e in generale, a parte qualche termine tecnico su cui aveva dei dubbi, riconosceva la lingua comune della F.P.C che parlava sin da bambino. Ma lo stesso non gli era molto chiaro come ciò che ci fosse scritto potesse riguardarlo. Che cazzo c’entrava lui con l’esplorazione dello spazio, con la ricerca di nuove forme di vita, di nuove razze intelligenti nell’universo, che cosa era una diavolo di cometa ad orbita aperta, che cosa un centro permanente di trasmissione dati ciclici?

Boris si alzò dal letto e svuotò la vescica nel buco che spuntava a fianco dello scaffale dei manuali. Non voleva saperlo ma era ben consapevole che il suo piscio sarebbe stato riciclato, purificato e rimesso nel circolo dell’acqua potabile della struttura. Erano anni che ormai beveva le sue urine distillate. Nella stanza non vi erano orologi a scandire il tempo. Non vi era tempo da scandire in quel luogo. Solo un unico, interminabile, identico presente. Seduto alla scrivania, Boris fece il back-up delle operazioni delle ultime ore, controllò che tutto fosse regolare e che non vi fossero strane sorprese. Tutto identico. Ogni volta. Gli stessi numeri. Le stesse cifre. Un solo significato: niente. Nulla. Solo il vuoto dell’universo intorno a lui, solo il nero dello spazio cosmico davanti alla cometa ad orbita aperta e a quel suo bitorzolo grigio scuro che da circa dieci anni abbelliva la sua superficie di biossido di carbonio, metano e acqua ghiacciati, con aggregati di polvere e vari minerali.
Nessuna risposta al continuo, incessante, martellante, ossessivo invio del segnale radio a frequenze radio cicliche. Ogni frequenza un nuovo inizio del segnale, della sua sequenza. Il sistema era automatizzato da un software e Boris aveva il solo compito di verificare che le antenne ricettive non avessero captato qualche specie di risposta alle sequenze inviate.
Due erano le sequenze numeriche che venivano sparate utilizzando un codice binario di acceso/spento, di on/off, di intermittenze duali. Da un lato la successione di Fibonacci dall’altro la sequenza dei numeri primi. Due codici numerici facilmente riconoscibili e, queste erano le speranze degli scienziati della F.P.C., riconoscibili da qualunque razza extraterrestre con un minimo grado di evoluzione.
Il sistema di invio dati era piuttosto banale, lo spettro radio era stato scandagliato e diviso in frequenze differenti. Ad ogni frequenza partiva un impulso radio in codice binario con la sequenza dei numeri primi, alla frequenza successiva, sempre in codice binario, la successione di Fibonacci e così via. L’etere intorno al cometa era letteralmente invaso dal messaggio proveniente da quella scatola grigio scuro sparata e incastonata anni fa sulla superficie ghiacciata della cometa. In quella scatola aspettava Boris, attendeva che qualcuno o qualcosa rispondesse al segnale e si avvicinasse alla cometa. Lì lo avrebbe trovato, rappresentante della razza umana, pronto ed istruito ad iniziare immediatamente una trattativa di carattere commerciale tra la F.P.C. e la nuova razza aliena.
Questo era il significato della seconda frase, questo era il qualunque cosa che Boris aveva scelto. Attendere. Aspettare sino a che le scorte di liquido proteico non si fossero esaurite, una risposta, un segnale, una razza aliena che lo tirasse fuori di lì e che magari lo riportasse da eroe sulla Terra. E lì quante se ne sarebbe scopate di puttane alla faccia della F.P.C.
La condanna infatti parlava chiaro, se fosse, in un qualunque modo, tornato sulla Terra con la prova di un contatto con una civiltà extraterrestre intelligente sarebbe stato libero e tutti i suoi crimini perdonati e dimenticati. Avrebbe persino ricevuto una rendita vitalizia pari a tredici transizioni commerciali standard. Una montagna di soldi. Una catena montuosa di soldi!

Non ci credeva molto la F.P.C. in questo progetto. Il governo centrale della Federazione aveva acconsentito al programma sperimentale presentato dal Centro Ricerche Spaziali solo perché presentava dei costi irrisori rispetto alle solite richieste degli scienziati. Sarebbe bastato una struttura autoreciclante ad energia dinamica, un’astronave da cui lanciarla sulla prima cometa ad orbita aperta individuata ed infine, ma questo era il problema più semplice da risolvere, un candidato volontario ad essere il terminale di ricezione in caso di contatto positivo con una civiltà aliena.
Il Governo centrale della Federazione in seduta plenaria voto all’unanimità l’approvazione del progetto del Centro Ricerche Spaziali. In un colpo solo il Governo si sarebbe levato dalle scatole sia dei pericolosi “volontari” sia quelle sanguisughe degli scienziati.
Gli astrofisici, felici come dei bambini il giorno di Natale davanti ai pacchi da scartare, cominciarono a lavorare al progetto e tutto fu pronto in soli sei mesi.
Furono costruite tre strutture autoriciclanti ad energia dinamica e Boris fu il candidato ideale per la seconda. Non gli dissero che la prima si era distrutta nell’impatto con la cometa e che i resti del “volontario” ora gravitavano in un’orbita semiellittica fra Giove e Saturno. Boris fu scelto sia per la sua solidità fisica che per quella psicologica. Era anche un killer professionista ma aveva superato brillantemente i test che di nascosto e in segreto gli avevano sottoposto. Il responso degli psichiatri non lasciava dubbi, Boris avrebbe potuto sopravvivere in totale isolamento per anni senza dare segni di follia e continuando a svolgere, meticolosamente, le ripetitive mansioni che gli erano state affidate. Tutto purché vi fosse una, seppur infinitesimale, possibilità di sopravvivere. E almeno sulla carta quella sarebbe rimasta per circa trentacinque anni. Tanto sarebbero durate le scorte di liquido proteico. La struttura autoreciclante ad energia dinamica avrebbe continuato ad inviare il segnale sino a che la cometa si fosse mossa, dalle previsioni a modello matematico si ipotizzava che la traiettoria della cometa l’avrebbe portata a scontrarsi contro una nana bianca non prima di 4 milioni di anni. Per tutto quel tempo sarebbe stata la tomba spaziale delle ceneri di Boris.

Qualcosa di sbagliato. Una sensazione. La vaga percezione di un errore. Di Una rottura della monotonia. Nel sonno Boris ebbe la sentore che qualcosa stava accadendo. Fu dapprima il suo inconscio a registrare dei dati assurdi. Non li comprese. Non poteva farlo. E allora li tradusse. I rintocchi di una campana lontana. Tlong Tlong. Un ritmo lento, prolungato a invadere il sogno di Boris. L’annuncio di una morte, di un funerale. L’inconscio di Boris aveva scelto quel suono per tentar di comprendere ciò che stava accadendo. Campane che suonavano a morto. Il sogno di Boris fu disturbato dal suono lugubre, ripetitivo, angosciante e pian piano Boris risalì verso lo stato cosciente di veglia. Finchè si destò del tutto.
Non capì subito da dove veniva quello scampanellio assillante che sentiva. Ancora un po’ intontito dal sonno non si rese conto di ciò che stava accadendo. Poi capì. Comprese.
L’attesa era finita. La speranza era lì, annunciata da tutti i sensori della struttura autoreciclante, un trillo continuo che aveva un unico, solo, inequivocabile significato. Qualcuno aveva captato il segnale radio in codice binario e aveva risposto. Là fuori, a distanza di impulso radio, vi era qualcuno o qualcosa abbastanza intelligente da interpretare un segnale radio e rispondervi. Là fuori c’era una civiltà extraterrestre, là fuori c’era la speranza di Boris.
Si alzò di corsa e si precipitò alla consolle di controllo della struttura e dei suoi impianti ricettivi. Nella fretta fece cadere a terra un contenitore di concentrato proteico che si riversò sul pavimento. Una macchia giallognola che si ingrandiva e che copriva le vecchie macchie di sputo. Boris non se ne curò, se il computer non era impazzito aveva finalmente finito di vivere cibandosi di quella roba.
Attivò tutti i sensori, sia quelli perimetrali che quelli esterni della struttura riciclante, molti si erano attivati automaticamente ma Boris sapeva che era necessario il suo intervento manuale per rendere la struttura operativa al cento per cento. Una scelta dei progettisti per risparmiare energia e per responsabilizzare il volontario. All’inizio ciò che captò fu un debole lamento, ciclico, ripetuto. Un segnale trasmesso su una frequenza così bassa che dovette regolare manualmente le antenne di ricezione e il commutatore radio. Ruotò la manopola del ricevitore con grande attenzione finchè all’interno dei pochi metri quadrati della struttura autoreciclante non si diffuse un suono ritmato, un beep scandito in sequenze palesemente ordinate. La voce degli alieni. La loro melodiosa voce che annunciava a Boris la salvezza. La vita.
Digitando i tasti freneticamente, Boris lanciò il programma di interpretazione di codici alfa-numerici. Era un programma studiato da uno specializzando della facoltà di informatica di Coventry che raccoglieva tutti i codici di decriptaggio conosciuti dall’uomo e li implementava su di un software preso a prestito dalla facoltà di matematica che era in grado di rilevare sequenze numeriche ordinate da un qualunque insieme casuale di cifre.
Osservò lo schermo e la finestra che si era aperta nel centro con la scritta – Now Matching – e la barra bianca sotto che pian piano si colorava di un rosso vivo.
Dieci minuti. Solo dieci minuti per interpretare il segnale radio ricevuto dalla struttura autoreciclante e per avere i primi dati.
Numeri. Un insieme di numeri che si srotolavano sullo schermo: 1.6180339887 4989484820 4586834365 6381177203 0917980576 2862135448 6227052604 6281890244 9707207204 1893911374 8475408807 5386891752 1266338622 2353693179 3180060766 7263544333 8908659593 9582905638 3226613199 2829026788 0675208766 8925017116 9620703222 1043216269 5486262963 1361443814 9758701220 3408058879 5445474924 6185695364 8644492410 4432077134 4947049565 8467885098 7433944221 2544877066 4780915884 6074998871 2400765217 0575179788 3416625624 9407589069 7040002812 1042762177 1117778053 1531714101 1704666599 1466979873 1761356006 7087480710 1317952368.
Uno virgola sei, uno, otto e un’infinità di altri che continuavano a scorrere sullo schermo. Finché una finestra non si aprì sullo schermo. Una sola scritta. Due parole. Semplici. - INTELLIGENT ANSWER – E di seguito una formula matematica: x = .
Boris non ci capì molto. Non era la matematica ad interessargli. Ciò che voleva era che quel maledetto computer rivelasse una qualche intelligenza in quel rumore radiofonico. E l’intelligenza era stata annunciata.
Boris si gettò indietro sulla sedia e sorrise. Mise le braccia dietro la testa e si mise ad ascoltare quel ritmico beep che dagli altoparlanti della consolle si diffondeva per tutta la struttura autoreciclante. La sinfonia più bella, la musica più dolce, le note più armoniose. Il suono della libertà. La musica della vita.
Socchiuse gli occhi e lasciò che il ritmo cadenzato lo cullasse. Non doveva far altro che attendere ancora un po’, poi sarebbero arrivati e chiunque avrebbe aperto il portello ermetico della struttura, umanoide o mostro che fosse, non importava. Non c’era scelta, tra la morte e qualunque cosa. Qualunque cosa.
Accadde però una cosa che Boris non aveva previsto. La musica si interruppe. Il modulato suono emesso dalle onde radio captate si fermò e il silenzio tornò a regnare all’interno della struttura. Boris si levò di colpo e controllò i sensori. Niente più segnale. Niente più onde radio da raccogliere nell’etere e decifrare. Nessun numero a scorrere sullo schermo in quella sequenza intelligente. Solo silenzio. Il vuoto. Chiunque aveva lanciato il segnale ora si era fermato. Aveva trasmesso per non più di una ventina di minuti e ora si era interrotto.
Boris non ebbe il tempo di chiedersi che cosa fosse successo, per quale ragione il segnale si fosse troncato, quale significato potesse avere quel nuovo silenzio. La cosa lo colse completamente all’improvviso. Inaspettata e incredibile. Tanto da fa vacillare la mente gà sovraeccitata di Boris.
Una palla di luce. Perfettamente sferica, lì, all’improvviso in mezzo alla struttura. Comparsa così, dal nulla. Di fronte a lui. La fissava con gli occhi sgranati e la bocca aperta.
La sfera rimase immobile per un lungo, interminabile, eterno secondo. Poi si mosse, si trasformò, mutò. Lentamente si estese, sino a formare una patina sottile grande quanto la struttura. Un’evanescente, microscopica, lastra di luce, a dividere la stanza in due blocchi. Identici. La lamina si mosse, lentamente. Si spostò dalla parte opposta a dove stava Boris sino alla parete in fondo. Poi tornò al centro. Ancora un attimo ferma. Come a voler computare, digerire, le informazioni che aveva raccolto al suo passaggio (l’altra parte della branda, la metà dello scaffale con i manuali e la dispensa dei contenitori del concentrato proteico). Si mosse nuovamente. Questa volta verso Boris e verso l’altra metà della struttura. Pigramente. Boris non si mosse. Dove sarebbe potuto fuggire? Dove scappare in uno spazio grande un paio di metri quadrati? La luce lo attraversò senza provocargli alcuna sensazione particolare, arrivò sino in fondo alla parete, analizzò (o qualunque altra cosa fece) la console di comando e di ricezione e ritornò al centro della stanza. Al punto da cui era partita. Qui si ritrasformò con una specie di guizzo repentino nella sfera di luce e, così come era apparsa, scomparve. All’improvviso.
Boris restò ammutolito, incapace di comprendere ciò che era successo, sovrastato dalla assurdità, dall’enormità, di ciò che aveva vissuto. Un contatto. Una razza aliena, qualcuno o qualcosa fuori di lì aveva scandagliato e esaminato la struttura autoreciclante, lui stesso, ogni cosa. Per quale motivo? Era un esame? Una prova? Una forma aliena di curiosità? Di tutela? Volevano sapere chi stava disturbando il loro etere con messaggi radio di sequenza numeriche intelliggibili? Cosa era accaduto? Perché?
Ancora domande. Ma ancora una volta non gli diedero il tempo di formularle con chiarezza e ad alta voce. Un suono metallico dalla consolle di ricezione. Di nuovo. Le antenne stavano ricevendo un segnale radio. Lo captarono, lo convertirono in suono e lo tradussero.
Quattro identici, scanditi beep. Beep – Beep – Beep – Beep. E sullo schermo comparve l’immediata traduzione di un linguaggio matematico e binario che era davvero universale. Oltre lo spazio, oltre le diversità biologiche, l’on/off, l’acceso spento, il si/no, rappresentava la via di una comunicazione teoricamente possibile. Sullo schermo apparve la traduzione numerica di quei beep. Quatto numeri identici. Un solo significato. 0 – 0 – 0 – 0. Una scritta: - RESULT: 0.
E poi più nulla.

Boris restò ad attendere, davanti alla console, un suono, un beep. Qualunque cosa. Attese che quel chiunque che aveva inviato il segnale tornasse a farlo, che lo liberasse da quella prigione, lo tirasse fuori, che lo riportasse trionfante sulla Terra, da quelli stronzi della F.P.C e dalle sue amate puttane.
Quel chiunque non trasmise più nulla.
E Boris restò in piedi ad aspettare un segnale che non sarebbe mai più arrivato mentre la cometa su cui viaggiava proseguiva il suo cammino nello spazio cosmico.


Logos
26/08/2006

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