22 agosto 2006

Il senso del mondo

Il senso del mondo
(dalle "Cronache del Signor Jacopus B.)

Una mattina di un freddo novembre di qualche anno fa Jacopus B. scoprì che il mondo non aveva senso. A dire il vero lo aveva sempre sospettato ma solo quel giorno ne ebbe l’assoluta certezza. Tutto gli fu evidente, ogni cosa andò al suo posto e per la prima volta vide chiaramente che tutta la realtà che lo circondava era semplicemente assurda. Volse lo sguardo intorno a sé e, quasi magicamente, tutte le domande che si era posto sul senso della vita, sui perché e i percome dell’esistenza, dell’essere e di ogni altra cosa trovarono la loro semplice, immediata, manifesta risposta. Fu come se Jacopus B. si fosse svegliato per la prima volta in vita sua e, aprendo gli occhi al mondo, come un mugugnante neonato, avesse visto. E ciò che vide non lo sorprese neppure molto.
Ma non affrettiamo troppo, una storia come quella di Jacopus B. merita di essere raccontata, magari senza entrare troppo nei dettagli e non annoiando il povero lettore ma di certo non può essere ignorata dal narratore.
Stavamo dicendo che in una fredda mattina di un novembre di qualche anno fa il signor Jacopus B. (l’anonimato è qui necessario per proteggere la riservatezza del nostro protagonista) ebbe un’intuizione. In realtà molti dubitano che si tratti davvero di un’intuizione, c’è chi parla piuttosto di una visione, un’epifania sospesa tra il magico e il religioso, chi, invece, parla di effetti secondari (e immagino sgraditi) di qualche sostanza stupefacente non meglio identificata, chi ancora di una sorta di miracolosa autoevoluzione delle facoltà percettive e intellettive del signor Jacopus B. che gli permisero di vedere ciò che agli altri esseri umani non è dato vedere e capire.
Su questa questione, io che sono il narratore onnisciente e in quanto tale dovrei sapere ogni cosa, mi riservo di mantenere la mia opinione. Non è affatto importante sapere quali furono i motivi che consentirono al nostro protagonista di vedere oltre, magia, evoluzione, visioni, ecc. ciò che importa è che il signor Jacopus B. vide (in realtà il lettore più smaliziato avrà già intuito quali sono le convinzioni di un narratore che racconta di un mondo insensato e assurdo).
Ma non divaghiamo. I fatti in questo caso sono importanti tanto quanto i ragionamenti e le intuizioni che da essi scaturirono.
Il signor Jacopus B. quella mattina, come quasi ogni mattina della sua vita, si era alzato di buon ora, si era fatto una rapida doccia bollente per scacciar via dalle ossa l’umidità della notte e del suo piccolo appartamento, si era concesso un’abbondante colazione e, vestitosi, era uscito.
La destinazione era la medesima di sempre: il teatro della città. Il signor Jacopus B. era un attore. Oh, non di certo un grande interprete e un grande calpestatore di palcoscenici del mondo. No, potremmo forse dire meglio che il signor Jacopus B. era una comparsa, un interprete di personaggi minori. Nella, seppur lunga, carriera del nostro protagonista si ricordano si e no tre o quattro ruoli degni di nota: uno Jago, un Orazio e anche un Caligola. Ma furono soprattutto i personaggi minori ad essere interpretati con maggior frequenza dal nostro protagonista. E non si creda che sia più facile impersonificare un Rosencrantz rispetto ad un Amleto, o un Creonte rispetto ad un Edipo! Per poter entrare in questi personaggi secondari l’attore deve fare un sforzo notevole, un lavoro di caratterizzazione ulteriore, deve riuscire, dalle poche o pochissime battute assegnate dall’autore, a capire come il personaggio pensa, come si muove, come vive la vicenda e come in essa si inserisce. E’ proprio nella parti minori che l’attore mette più arte drammatica, più sforzo, più riflessione.
Una volta, parlando con un collega il signor Jacopus B. tentò di spiegare questa difficoltà avvalendosi di una metafora:
- Per me è più difficile. Cerca di immaginare, io sono come una sorta di archeologo che ha pochi frammenti di una pergamena o di un papiro su cui restano confuse scritte di una lingua non perfettamente decifrata e da questo poco materiale devo trarre il senso e il significato dello scritto. Devo dire cosa l’autore ha voluto trasmettere, comunicare. Mentre tu, mio caro amico, che interpreti sempre i grandi personaggi sei facilitato. Tu hai di fronte un libro fresco di stampa, con le note a piè di pagina e non devi far altro che leggerlo per capirlo. Certo, il testo potrà essere difficile, ma almeno tu un testo completo ce l’hai! Io neppure quello. Capisci allora che io devo mettere tutto me stesso per cercare di intuire il senso, il messaggio di quello scritto frammentato che ho fra le mani. Io quando recito sono costretto a creare, ad immaginare, a mettere tutto il me stesso possibile nel dare al personaggio un senso, un ruolo, un significato plausibile all’interno del dramma rappresentato sul palcoscenico.
Abbiamo voluto riportare questo particolare aspetto della vita del signor Jacopus B. per mostrare come in lui la ricerca di un senso e di un significato fosse una sorta di deformazione professionale e che, quindi, non deve stupire se anche per ciò che lo circondava, il mondo appunto, mettesse in campo questo meccanismo di attribuzione (o tentativo di attribuzione) di senso.
Vorrei quindi, credo che sia doveroso, tranquillizzare il lettore, non tema di giungere un giorno alla stessa assoluta, limpida certezza del nostro protagonista, si pasci delle sue tranquille e godibili illusioni. Non verrà per caso, all’improvviso la rivelazione che ha colpito il signor Jacopus B. Essa colpisce solo chi ad un certo punto della propria vita (chissà perché poi?) si pone una domanda laddove tutti gli altri hanno certezze. Si interroga su ciò che per tutti gli altri è manifesta verità.
Si dice che vi siano della categorie più predisposte a questa deriva dubbiosa, i filosofi, gli attori, i comandanti di eserciti e i seduttori ma aldilà di queste tipologie vi è senza dubbio un qualche gene mutato o un germe di follia nell’uomo che ad un certo punto della sua vita, fissando un albero in fiore, ha come principale reazione quella di chiedersi perché? Quella di interrogarsi sul senso di quella cosa di fronte a lui. E difatti, mio caro lettore, come ben saprai, tu che vivi nella cieca felicità delle certezze, l’uomo che si interroga (non importa se giunga ad una rivelazione oppure no) è un uomo triste, solo, spesso disperato, forse malato ma senza alcun dubbio messo ai margini della società e, semplicemente, ignorato.
E così era di certo il nostro signor Jacopus B.
Viveva solo in un piccolo appartamento all’ultimo piano di una vecchia casa semidiroccata. La pioggia e l’umidità disegnavano sulle pareti strani ghirigori e inconsuete forme, le tubature perdevano e le moderne invenzioni tecnologiche (dal telefono in poi) erano lussi che in quelle stanze non erano mai entrati. Ma al signor Jacopus B. andava tutto sommato bene così. Il suo unico intrattenimento era una vecchia radio, una montagna di libri e le sue tragedie. In questo caso la parola tragedia ci viene in soccorso per descrivere un po’ meglio il nostro protagonista. Il linguaggio dell’uomo è cosa meravigliosa, dice e non dice allo stesso tempo, significa una cosa e al contempo ne significa un’altra, tanto da non sapere più a cosa ci stavamo riferendo, all’una, all’altra? O forse ad entrambe?
In questo caso la parola tragedia vogliamo intenderla nei due suoi significati principali: da una lato nel senso di dramma rappresentato su di un palcoscenico, dall’altro di vicenda triste, dolorosa, disperante.
Il signor Jacopus B. viveva in compagnia della tragedia. Da un lato passava le giornate a recitare, studiare, leggere i vari drammi che per lavoro o per diletto gli capitavano tra le mani, dall’altro si pasciava di un antico ricordo doloroso che, insanamente, cullava e coltivava dentro le tortuose vie della sua memoria e della sua coscienza. Ma di questo dramma preferiamo non dir nulla, ogni lettore saprà di certo che di alcune cose è meglio tacere e lasciare che il dolore resti cosa personale.
Il signor Jacopus B. non era sposato e non era neppure fidanzato, la sua vita sociale era ridotta così a minimi termini che spesso si accorgeva di essersi dimenticato del suo compleanno senza che nessun altro avesse fatto lo sforzo di ricordarglielo, inviandogli gli auguri.
Si associa spesso la solitudine alla tristezza, come se fosse naturale e necessario che un uomo (o una donna) solo sia anche un uomo triste. Il signor Jacopus B. non era certo un uomo triste (a parte quella piccola parte di coscienza in cui albergava un antico ricordo), parlando di lui con i suoi colleghi di teatro emerge la figura di un uomo spiritoso, dalla mente acuta, pronto alla battuta mordace e mai volgare. C’è chi lo descrive come riservato, chi come pacato e paziente, chi come semplicemente distaccato.
E’ difficile dire quale fosse la caratteristica emergente, peculiare del nostro protagonista, ciò che però più di ogni altra cosa lo definiva (e faceva si che, a volte, fosse ritenuto un po’ strano) era il suo sguardo. Gli occhi spesso indugiavano intorno fissando un qualche non ben precisato punto fra l’orizzonte e la persona con cui stava parlando e in quel punto si perdevano. Dava l’impressione il signor Jacopus B. in quei momenti di smarrirsi nella contemplazione di un qualche mondo, di uno strano paesaggio che solo lui poteva vedere, come se i suoi occhi potessero guardare cose agli altri precluse.
A noi piace pensare che più che una strana follia che colpiva il nostro protagonista, più che una sorta di delirio allucinatorio si trattasse di una sorta di intenzione, di proposito, di intento. Come se quel volersi abbandonarsi in un punto imprecisato verso l’orizzonte fosse il tentativo costante e continuo da parte del signor Jacopus B. di vedere l’oltre. Un oltre che di certo non intendeva come una sorta di mondo fantastico aldilà del velo di Maya, abitato da creature fantastiche, fate, draghi, principesse ed orchi ma semplicemente di vedere oltre la trama del reale e di scorgere la sorgente da cui si irraggia il mondo intorno. Jacopus B. cercava quello strappo nell’ordito della trama del reale da cui sbirciare oltre e vedere ciò che stava dietro.
A questo proposito, uno degli episodi più curiosi della vita del nostro protagonista accadde in un museo della città; in quei giorni vi era ospitata una mostra itinerante dedicata ad un artista piuttosto noto.
Molte erano le opere esposte: quadri, sculture, disegni. Tuttavia fu una di esse in particolare ad attrarre l’attenzione del nostro protagonista. Il quadro era a dir poco semplice: una tela dipinta di un rosso sangue al cui centro spiccava un taglio. Uno squarcio. Una ferita da cui emergeva l’ombra, il nero che stava dietro il dipinto. Un invito, forse, a prendere i lembi della fessura e spalancarli per poter vedere oltre. Il signor Jacopus B. non conosceva questo, seppur noto, artista. Era andato alla mostra più che altro per ingannare il tempo in quel pomeriggio afoso di un’estate interminabile ma non appena giunse di fronte a quadro ebbe un sobbalzo. Lo vediamo sgranare gli occhi, emettere un sorpreso Toh! e rimanere imbambolato di fronte alla tela. Come il lettore avrà già intuito il signor Jacopus B. era un tipo tranquillo, non avvezzo a comportamenti eccessivi ed esagerati. Quella volta però si smentì. Arrivato di fronte all’opera, dopo un primo momento di sorpresa, rimase a contemplare il quadro come ipnotizzato, mesmerizzato dal potere misterioso dell’arte, restò per più di due ore fisso, immobile, cementizzato di fronte alla tela, tanto che gli altri sparuti visitatori dovettero desistere dal guardare il quadro che era, di fatto, colonizzato dal nostro signor Jacopus B.
Ma la cosa strana dovette succedere a cinque minuti dalla chiusura della mostra, gli inservienti del museo, già fissavano preoccupati quel bizzarro signore che si era mummificato di fronte a quel quadro, si scambiavano occhiate terrorizzate per decidere chi sarebbe stato il prescelto per andare a scuotere (svegliare?) quel tizio. Quando all’improvviso, il signor Jacopus B. alzò le mani, volse lo sguardo al cielo (al soffitto sarebbe meglio dire) e poi si mise ad urlare. All’inizio fu un suono disarticolato, un grido liberatorio proveniente dai meandri di una memoria ancestrale viva, come retaggio di un passato animalesco, in tutti gli esseri umani. Poi l’urlo si modulò in qualcosa di più intelligibile, finché non furono facilmente riconoscibili le parole, ossessivamente ripetute - Non sono il solo! Non sono il solo!
Dovettero trascinarlo via di peso e a forza, mentre continuava a gridare di non essere il solo (a far che cosa loro di certo non potevano saperlo, noi ora lo possiamo intuire, mio paziente lettore). L’episodio, per fortuna, finì per passare inosservato: la direzione del museo non sporse denuncia, consapevole che i musei sono luoghi che, chissà per quale motivo, attirano i matti di tutti generi ma fu comunque vietato al signor Jacopus B. di mettere piede di nuovo nelle sale del museo. Il nostro protagonista ne fu molto dispiaciuto perché, sebbene non fosse un intenditore, l’arte lo aveva sempre affascinato e passare le giornate a vedere mostre era un buon modo di far passare il tempo (e, ma questo non lo avrebbe mai ammesso, di tributare una ricordo, una sorta di celebrazione cultuale della memoria di una persona).
Si chiese più volte il signor Jacopus B. che cosa gli fosse preso e molti gli fecero questa domanda, lui rispose sempre che era stato un momento di pazzia, forse dovuto alla stanchezza o allo stress di un personaggio difficile che aveva da interpretare, ma in cuor suo sapeva che erano banali scuse e la vera motivazione era una sola, semplice e chiara. In quella tela aveva per la prima volta in vita sua capito che i pensieri, i dubbi, le domande, i perché, i percome, i ma, i se, i però, i forse, le incertezze che avevano trovato dentro la sua mente territorio fertile per attecchire e prosperare non erano solo sue, ma vi era qualcun altro nel mondo che ne sopportava il peso e, forse allora non era così pazzo come a volte credeva quando la sera si addormentava tra pensieri e ansie. C’era qualcun altro nel mondo che si chiedeva cosa vi fosse dietro lo schermo su cui veniva proiettato il mondo. E per quello stano meccanismo della mente umana il saper di non essere i soli a portare un peso, a soffrire di un male, a piangere lacrime rende tutto meno doloroso; nella condivisione vi è una compassione reciproca che è, senza alcun dubbio, un mutuo sostegno e soccorso.
Dopo l’episodio del museo la vita del signor Jacopus B. cambiò, anche se in modo quasi impercettibile, tanto che solo le poche, pochissime persone a lui vicine se ne accorsero. Di questo cambiamento ne fu particolare testimone una sua collega. Era nella compagnia da non molto tempo, indubbiamente molto brava e molto dotata per l’arte drammatica ma sfortunatamente ancora senza grande esperienza e questo la costringeva ad accettare ruoli marginali che, oltre a sminuire il suo talento, non le consentivano di percepire uno stipendio onorevole. Si sa che gi attori vengono ben poco pagati e che la loro professione è tra le più insicure e precarie che vi siano, tuttavia dopo anni di onorata carriera un attore riusciva a raggiungere uno stipendio degno di questo nome e così campare decorosamente, almeno così era per il signor Jacopus B. I giovani attori e le giovani attrici, sfortunatamente, dovevano però pagare il prezzo di una crisi generalizzata del teatro; era un dato di fatto ma ormai la gente non andava più molto a teatro, preferendo forme di intrattenimento differenti, dal cinema in poi. Così un giovane attore era costretto ad accettare stipendi bassi, a volte vergognosamente bassi, pur di poter continuare a lavorare nel teatro seguendo i propri sogni e le proprie aspirazioni. Ebbene, questa collega del signor Jacopus B., che per comodità chiameremo L., nella busta di fine mese trovava davvero ben poche banconote e, naturalmente, se ne doleva. Sarebbe però scorretto raccontare di questa collega del nostro protagonista solo per le sue lamentele economiche, il signor Jacopus B. si era affezionato a questa giovane attrice e l’aveva molto a cuore. Caso vuole che L. e il signor Jacopus B. per rientrare dal teatro alle rispettive dimore, facessero un tratto di strada insieme e durante quella breve mezz’ora si scambiassero impressioni sui colleghi, sulle recite in programma e un po’ su tutto il resto. Il signor Jacopus B. era sempre molto attento e ascoltava con grande curiosità i progetti di matrimonio della giovane collega con un ragazzo di provincia, gran lavoratore, che aveva avuto il coraggio di chiederla in sposa, nonostante le loro finanze (mala tempora!) non fossero proprio rosee. Il nostro protagonista ammirava il coraggio e la determinazione alla vita di questa giovane collega e del suo fidanzato, chiedendosi se lui una così grande voglia di vivere l’avesse mai avuta. E poi tornava indietro col pensiero, ricordava. Ma subito ne fuggiva, troppo dolorose quelle lande da percorrere, abitate ancora da creature mostruose e tremende, pronte a ghermirlo e ad avvolgerlo nelle spire di un sofferenza folle. Volgeva lo sguardo oltre allora il signor Jacopus B., guardava davanti a sé, osservava il mondo, se ne interrogava, come se questa spinta di cui continuiamo a dire non fosse altro che una estrema, forse vana, fuga da qualcosa rinchiuso dentro di sé che non riusciva ad affrontare e a vincere.
L’amicizia fra il signor J. E la giovane L. crebbe e si consolidò, tanto che, a volte, il nostro protagonista, solitamente chiuso e riservato, si lasciva sfuggire qualche riflessione personale, qualche considerazione di sé che mai prima avrebbe osato pronunciare. Fu proprio dopo quello strano episodio al museo, circa una paio di mesi dopo, che il signor Jacopus B. in un momento di particolare confidenza con la giovane L. si lasciò scappare una frase che da subito apparve quantomeno sibillina: - Comincio a vedere. A volte con la coda dell’occhio mi sembra di cogliere un movimento repentino, come di un ombra che si spostasse al limitare del mio sguardo. Mi volto per afferrarla ma non riesco ancora a coglierla. So, ne sono ormai certo, che c’è. E’ lì ad attendermi. Non sono ancora completamente pronto ma lo sarò presto. E’ come quel quadro, la realtà si sta squarciando e piano ciò che vi sta dietro sta emergendo e fra poco lo potrò vedere. Mi sono documentato, ho letto molti libri in questi mesi, ho fatto delle ricerche fra i maggiori pensatori della storia, alcuni osannati, altri ritenuti dei folli. Credo che qualcun altro abbia visto, qualcuno probabilmente ha frainteso ciò che sta oltre, ciò che sta aldilà. Sono certo che uno scrittore americano ha visto oltre la ferita della realtà ma si è autosuggestionato e nell’ombra e nel buio ha immaginato, creato direi, un pantheon di creature e divinità bizzarre provenienti dagli eoni della storia dell’universo, ma non è questo ciò che sta oltre, ne sono certo. Sarebbe troppo semplice,troppo… romanzesco. Dietro il velo del reale non vi può essere un’altra realtà, simile a questa anche se deformata e maligna, infinitamente maligna. Dietro la patina di questo – e così facendo distese le braccia a comprendere ciò che lo circondava – vi deve essere la risposta. Si, la risposta finale a tutto. Quanto mi piacerebbe che fosse la parola. La singola parola in grado di rappresentare, di dire, di significare ogni cosa. E nel farlo donare la comprensione. Ma di questo non ne sono ancora certo.
L. fissò il signor Jacopus B. con fare stranito. Non comprese (e come avrebbe potuto?) le strane parole pronunciate da quel suo simpatico e affettuoso collega. Diremmo anzi che si preoccupò e che forse cominciò a dar credito alle voci che volevano le rotelle del nostro protagonista non completamente a posto, un po’ fuori fase. Trovò il coraggio di rispondere semplicemente – Ma cosa stai dicendo Jacopus, spiegati meglio.
Ma il signor Jacopus B. restò chiuso in un mutismo assoluto per tutta la durata del viaggio verso casa e il giorno seguente si comportò come se nulla fosse successo. L. non fece parola con nessuno delle farneticazioni (così lei le giudicò) del signor Jacopus B. ma in cuor suo serbò il dubbio e il timore che qualcosa non andasse in quel suo caro collega.
E fatti successivi non la smentirono.
Ma non affrettiamo le cose e procediamo con quel minimo di ordine che la narrazione impone.
Siamo ormai a poche settimane da quel fatidico giorno di novembre di qualche anno fa, data in cui il nostro signor Jacopus B. scoprì che il mondo intorno a lui (e intorno a tutti noi) non aveva alcun senso. Ma prima di arrivare a quella mattina e tutti i fatti che ne conseguirono, ci resta ancora qualcosa da raccontare. Non certo per il gusto della curiosità morbosa che a volte assale il narratore e che gli impone di dire tutto, anche quello che non importa e non riguarda lo scopo della narrazione, del suo protagonista. Noi vogliamo semplicemente dare ancora qualche altro indizio, qualche dato in più per capire il signor Jacopus B. e per rendere la sua vicenda chiara e limpida agli occhi del lettore.
Il bravo narratore a questo punto si sarebbe dedicato ad una sorta di rapido riassunto, riepilogando e tornando sui fatti e sulle considerazioni salienti sino ad ora emerse. Un modo per scrostare tutto ciò che nella narrazione è superfluo e lasciare solo quelle due e tre cose che sono effettivamente necessarie per il racconto. Noi questa operazione non vogliamo farla, non saremo noi a dare le dritte per attribuire un significato ed un senso a questo breve resoconto. Vorremmo che fosse il lettore, con le sue specifiche peculiarità, le sue valutazioni, il suo vissuto a dire ciò che questo scritto vuol dire. Badate bene! Non ciò che il narratore voleva intendere (di lui, consentitemi, non curatevi e dimenticatelo presto) ma ciò che l’insieme, più o meno caotico, delle parole, delle frasi e dei periodi che state leggendo significano. Non è il narratore il depositario del Senso (la maiuscola è voluta) di queste macchie d’inchiostro sulla carta ma è il singolo lettore che ne coglie un significato (uno fra gli infiniti possibili) plasmando una sorta di personale amalgama fra sé stesso e il contenuto. Il modo di cogliere ciò che è scritto, il modo di farlo proprio, di categorizzarlo, di masticarlo, di digerirlo è un’operazione che compete al solo lettore e di cui il narratore (bontà sua) non c’entra nulla. Ipotizziamo che questa cronaca, una volta completata, verrà letta da tre o quattro persone (ammettiamo una certa immodestia in questa stima), è facile ora immaginare che ogni lettore, approcciandosi al teso con tutto sé stesso ne coglierà, ne creerà, ne farà emergere un significato suo proprio che sarà differente, forse completamente differente, da quello di un altro lettore. Potemmo anche proseguire su questa via, se è vero che il senso nasce dalla fusione (una sorta di impasto ben amalgamato) fra il fruitore e le parole del testo, allora potremmo ipotizzare un passo ulteriore. Se un senso emerge (ed emerge sempre) questo andrà ad inserirsi nella riflessione della persona che l’ha colto. E inserendosi in essa non potrà che apportare delle modifiche alla persona stessa che risulterà arricchita, o impoverita, da ciò che ha letto. Questo tanto da farci dire che una volta letta questa cronaca il lettore non sarà più la stessa persona. Ma sarà stato modificato (in meglio o in peggio io non lo ipotizzo) da queste parole che impresse sulla carta. Se, allora, sarà una persona nuova e, insanamente, deciderà di tornare a rileggere questa strana cronaca innesterà il medesimo meccanismo di fusione creatrice: tutto sè stesso e il testo mescolati insieme. Ma il lettore sarà qualcuno di diverso, di nuovo, di accresciuto rispetto alla prima lettura e allora ciò che ne risulterà sarà un significato ancora nuovo, differente dal precedente. Un ulteriore significato che ancora una volta si inserirà nella riflessione del lettore modificandolo, cambiandolo. Credo che ha questo punto sia facile immaginare che se il fruitore dovesse, ancora più insanamente, ritornare a queste pagine per la terza volta il meccanismo sarebbe il medesimo. Nuova lettura, nuovo significato, nuova persona e così via. Ad ogni lettura un senso nuovo. Ad ogni lettura una persona nuova. E il narratore in tutto questo non c’entra nulla. Resta a guardare, sperando che le sue parole, in qualunque modo verranno lette e interpretate, non creeranno cattive persone.
Dopo aver chiarito quanto poco conti chi passa le sue giornate ad osservare ciò che gli accade intorno per trovare spunti con cui occupare il resto del suo tempo con una penna in mano, imbrattandosi le mani di inchiostro, possiamo procedere nel raccontare altri particolari del cammino che portarono il signor Jacopus B. alla sua fantasmagorica scoperta.
Vi sono alcuni altri aspetti della vita del signor Jacopus B. che meritano di essere riportati in questa cronaca e vorremmo chiedere l’attenzione del lettore ancora per un po’.
Per comprendere meglio la natura della scoperta del nostro protagonista credo che sarà doveroso compiere un breve viaggio, una breve trasferta e giungere al suo appartamento, sbirciando fra le sue cose e i suoi averi per osservare quelle famose ricerche di cui il signor Jacopus B. accennava con la sua collega.
In punta di piedi dovremmo salire le scale del vecchio condominio per non disturbare gi altri inquilini e, silenziosamente, entreremmo nelle piccole stanze che compongono la casa del nostro protagonista.
Non sarà necessario soffermarci sulle dimensioni ridotte o sulla semplicità dell’appartamento, ognuno vive secondo le proprie possibilità economiche e sui propri bisogni: un uomo solo, riservato e modesto, non necessita certo di una reggia o di una villa.
Vorremmo, invece, invitare il lettore a far scorrere lo sguardo sulle mensole e sull’ampio tavolo al centro dell’appartamento per osservare i fogli e i libri lì appoggiati. Approfitteremmo per questa nostra visita dell’assenza del nostro protagonista, impegnato nelle prove di una tragedia di un drammaturgo norvegese, che dovrebbe protrarsi ancora per alcune ore. Potremmo compiere questa nostra visita allora con tutta la calma necessaria, soffermandoci sui particolari importanti che queste disordinate stanze offrono.
Scorrendo la camera principale si potrà notare al centro un grande tavolo rotondo sormontato da una montagna di libri e da un’infinità di carte pasticciate. Volendo potremmo concentrare la nostra attenzione sui titoli dei libri accatastati alla bell’e meglio a formare una specie di piramide, apparentemente molto instabile. Dubito, tuttavia, che anche il lettore più acculturato, divoratore di libri e topo di biblioteca potrebbe riconoscere qualche titolo o qualche autore. Per esempio, prendiamo quel volume piccolo che sembra pendere in precario equilibrio dalla pila di libri, sfilandolo con attenzione senza far cadere tutto il resto, potremmo osservare che è una raccolta di poesie di un poeta sconosciuto e anche il titolo ci direbbe ben poco: “Anacronismi”, tuttavia aprendolo e sfogliandolo lo vedremmo sottolineato, appuntato, annotato dalla calligrafia minuta e scarsamente comprensibile del signor Jacopus B., tanto da farci supporre che si tratti di un testo importante per la sua ricerca. Un testo da noi però ignorato. O ancora se osservassimo meglio il libro che giace aperto nell’unico spazio libero del tavolo e, che già da qui vediamo martoriato da scritte e strani simboli, scopriremmo che si tratta di un trattatelo di filosofia scritto da un autore dal nome tedesco o austriaco il cui titolo non lascia presagire una facile lettura: “Sulla non conformità della natura umana ovvero il solipsismo gnoseologico”. Qualche dubbio sulla natura e sugli esiti della ricerca credo che cominci ad attraversare la mente del nostro paziente lettore, tuttavia non affretti i tempi, se già ora nutre delle perplessità, queste saranno rafforzate dai vari fogli sparsi presenti sul tavolo, per terra, sulle mensole e persino nel bagno del piccolo appartamento.
Prendiamone uno a caso e cerchiamo di scorgervi qualcosa di intelliggibile. Ancora la fitta scrittura del nostro protagonista, pressoché indecifrabile, troviamo solo una frase, ripetuta due volte e scritta in stampatello che ci consente una seppur minima interpretazione: E’ PROSSIMA – E’ PROSSIMA, e poi ancora frasi fitte, quasi una sopra l’altra, numeri e simboli, strani intrecci di linee, arabeschi di schemi, scheletri di reticoli esplicativi. Nulla che abbia un qualche senso condivisibile, come se la ricerca del signor Jacopus B. fosse personalissima, in qualche modo unica e non trasmissibile, come se dalla stesse fonti ai primi risultati, alle analisi compiute il percorso fosse proprio, assolutamente specifico di quella persona che lo affronta, come se questa ricerca non fosse commutabile ad altri ma si realizzasse in modalità e strade esclusivamente esplorate dal ricercatore stesso.
Il signor Jacopus B. per chissà quale strana ragione, sta compiendo la sua ricerca seguendo questo schema ma uno qualunque di voi lettori avrebbe certamente seguito vie differenti che avrebbero, di certo, prodotto risultati altrettanto vaneggianti, folli ed incomprensibili.
Non credo vi sia molto altro da vedere nell’appartamento del nostro protagonista, ancora una rapida occhiata al disordine e alla mole di libri sparsi un po’ dovunque, ai fogli di appunti che giacciono, come colombe deturpate, sul pavimento impolverato, la cucina, scarna e apparentemente poco utilizzata, la camera da letto, copia in piccolo del caos del salotto ma qui, attento lettore, noteresti un particolare nuovo, differente, inaspettato. Nella confusione che sembra regnare incontrastata, beffarda di ogni tentativo di ordine e armonia, noteresti un piccolo angolo, là, raccolto in un angolo della scrivania. Lì sembra quasi che lo stesso disordine abbia paura ad avventurarsi e rimanga a debita distanza, come se si trattasse di una zona tabù o forse incontaminata. Al centro di quel piccolo spazio, non più largo di una cinquantina di centimetri di diametro, un portafoto, la foggia semplice, un delicato bordo color amaranto, forse di legno o di plastica che imita il legno e all’interno una fotografia. La fotografia, ingiallita, raffigura un paesaggio marino, un cielo ormai di uno sbiadito color seppia che si confonde con la tinta giallognola di una mare che, probabilmente, una volta era di un blu vivo e possente. Tra il cielo e il mare, in piedi su una piccola altura, una donna. Il volto sorridente, i lunghi capelli corvini mossi da un vento bizzoso e capriccioso, gli occhi allegri anche se quasi cancellati dal tempo che si è abbattuto impietoso sulla pellicola. La donna con una mano tenta di riportare all’ordine i capelli impazziti nel vento, e con l’altra lancia un cenno un saluto o forse qualcosa di più profondo, all’improvvisato fotografo.
Quel portafoto e la fotografia che custodisce sono l’unico, l’ultimo angolo di ordine ed armonia nel caos di tutto quell’appartamento e della ricerca del signor Jacopus B. Ma ora, vi prego, allontaniamoci, lasciamo che quel luogo resti cosa personale del nostro protagonista, lasciamo che quella specie di altare eretto a memoria e a celebrazione del dolore di un antico ricordo resti inviolato anche ai nostri occhi troppo curiosi. Non profaniamo oltre questo luogo.
Questa breve scorribanda nelle stanze dell’appartamento del signor Jacopus B. ci ha permesso di fornire alcune (e forse anche troppe) informazioni sulla sua ricerca, ne è emerso il carattere unico, specifico, assolutamente irriproducibile e ci ha mostrato come l’impegno che ad un certo punto il nostro protagonista mise in questa sua missione fu molto, tanto da costringerlo ad abbandonare l’ordine a cui un tempo era così legato e a dedicarsi anima e corpo nel carpire astrusi segreti celati chissà dove.
Sperava il signor Jacopus B. di poter giungere alla soluzione dell’enigma, l’enigma supremo, attraverso il ragionamento, la lettura e lo studio, svolgendo questa ricerca con la sua arte più alta, più importante: l’intelletto, come se si trattasse di un qualche problema logico o matematico che andava risolto. Dava l’impressione, il signor Jacopus B., di approcciarsi a questa ricerca in modo non dissimile da chi affronta un rebus o un qualunque altro gioco enigmistico che ogni settimana viene proposto dalla famosa rivista. Studio, metodo, impegno, costanza e il risultato arriva. Una sorta di ricetta per una torta, basta seguire fedelmente i passi indicati e l’esito non potrà che essere goloso e gustoso. Certo il signor Jacopus B. applicava una ricetta che si era, come visto, creato da solo, ne aveva scritto i passaggi e gli ingredienti; una ricetta ermetica, potremo dire, di cui solo era il solo a possedere la chiave di lettura, ma pur sempre un percorso a tappe definite, un cammino stabilito, come se già nel primo passo vi fosse la soluzione. Sembrava che il signor Jacopus B., in fondo in fondo, sapesse già quale era la soluzione che cercava, quale era la scoperta che doveva ancora compiere e avesse creato così un itinerario per arrivare sin là.
Ormai la nostra narrazione è andata avanti molto e qualche anticipazione possiamo lasciarla emergere, sicuri che il buon lettore a questo punto della cronaca qualche idea precisa se la sarà pur fatta. Il signor Jacopus B. si sbagliava. Forse non lo avrebbe ammesso, ma di certo tutto il meccanismo di studio, lettura, approfondimento messo in campo per giungere a conoscere il senso del mondo nasceva dalla profonda convinzione che da qualche parte, nascosto dietro le tende, sotto un cumulo di macerie diroccate, fra le pagine di qualche polveroso tomo un significato ci fosse. In cuor suo serbava questa grande, enorme, accecante speranza e, seguendola, si comportava come se quel senso esistesse davvero e lui, tutto sommato, lo avesse già intuito o l’avesse proprio lì, a portata di mano. Si comportava in quel modo, il signor Jacopus B. perché desiderava con tutto sé stesso che un senso ci fosse e, se doveva esistere, allora l’unico modo per scoprirlo era quello: studiare, applicarsi, seguire un metodo. Ma era una speranza, era una semplice illusione. Siamo certi (concedeteci questa certezza da narratore onnisciente) che nei momenti di lucidità, quando la mente non è impastoiata alle redini di una felicità sognata, sperata, desiderata ma quando si staglia libera nella sua tagliente disperazione, nella lucente freddezza della consapevolezza triste e solitaria, in quei momenti, siamo certi, il signor Jacopus B. sapeva che si sbagliava, ne era consapevole, sicuro. Ma nonostante questa luminosa evidenza preferiva continuare ad illudersi, ad ingannarsi, coscientemente vinto da una malafede che era una menzogna, una fandonia che però gli consentiva di continuare a vivere come se la felicità fosse possibile, come se là in fondo un senso lo attendesse, un senso che potesse attribuire alla sua vita, al mondo, alla realtà, al suo dolore, ai suoi fallimenti e finalmente convincersi che una ragione c’era per tutto. Il signor Jacopus B. si ingannava, lo faceva ogni giorno alzandosi dal letto e ogni sera coricandosi, sinchè, una mattina di una freddo novembre mentre era seduto sulle panche scomode di un tram che lo portava al teatro non riuscì più ad ingannarsi e aprì gli occhi a guardare il mondo, gli altri e anche sé stesso. E non si mentì.
Quella mattina fece la scoperta, non dovette far altro che smettere di illudersi, gettar via quell’orrenda lente colorata che aveva deciso di portare davanti agli occhi e aprirli al mondo. Gettare lo sguardo al mondo intenzionalmente. E fu così che vide, vide con chiarezza assoluta che il mondo, il reale, l’universo e tutto quanto, non aveva senso. Semplicemente, assurdo.
Ma cosa effettivamente vide quel giorno il signor Jacopus B.?
Questa è una domanda importante ma siamo certi che non fu così determinante il cosa vide, quanto piuttosto l’interpretazione che egli vi diede. Immaginiamo che se uno dei pochi lettori di questa vaneggiante cronaca dovesse (Dio non voglia!) un giorno lontano giungere alla medesima conclusione e scoprire allo stesso modo che il mondo è assurdo, lo farebbe non solo seguendo strade diverse da quelle percorse dal signor Jacopus B. ma alla fine vedrebbe cose differenti. La manifestazione con cui l’assurdo decide di mostrarsi agli occhi dell’uomo è eterogenea e semplicemente un pretesto. L’assurdo non ha forma, non ha contorni e colori e ciò che ce lo rivela è un semplice ambasciatore ma che poco porta con sé del regno da cui proviene.
Tuttavia, visto che stiamo raccontando di questa cronaca tanto vale andare sino in fondo e mostrare cosa videro gli occhi stralunati del signor Jacopus B.
Era seduto su quei sedili scomodi del tram, il lungo cappotto lo avvolgeva come una coperta e la sciarpa era arrotolata fin sopra al naso come estremo tentativo di combattere il freddo che sul mezzo pubblico sembrava persino più pungente che non per strada. Leggeva dei fogli dove aveva sottolineato le poche battute del nuovo personaggio che doveva interpretare, sarebbe stato un lavoro difficile: l’autore in questa particolare tragedia aveva riservato al quel figura solo tre battute, una per ogni atto, ma sapeva bene il signor Jacopus B. che erano proprio quelle tre battute, come una sorta di motto di spirito, a dare la chiave di lettura di tutta la rappresentazione. La cadenza, l’intonazione, l’espressione del volto dovevano essere allora perfetti, studiati nei minimi dettagli, nulla doveva essere lasciato al caso o all’improvvisazione.
Fu probabilmente un rumore, un suono inaspettato e fuori luogo a destare il signor Jacopus B. dalla lettura dei suoi appunti ed a costringerlo ad alzare gli occhi. Un gesto semplice, quotidiano, che ognuno compie infinite volte senza che questo gli cambi la vita. Al signor Jacopus B. però quella volta la vita cambiò davvero.
Pensò di essere ancora un po’ assonnato, poi credette di aver lasciato a casa gli occhiali e quindi di non vedere bene, poi, accortosi che erano placidamente posati sul suo naso, pensò fossero sporchi, poi temette di avere qualche malattia agli occhi, una cataratta fulminante o cose così, poi… capì.
Alzati gli occhi dal foglio il signor Jacopus B. vide il volto delle persone che lo circondavano e non vide nulla, una semplice lastra biancastra leggermente smussata a seguire la forma arrotondata del cranio, ma null’altro. Non vide i tratti che determinano la faccia di una persona: il naso, la bocca, gli zigomi e, soprattutto, gli occhi. Una parete levigata, liscia, indistinta. Era come se una sorta di livellatrice avesse levigato le facce delle persone, tramutandole in cose identiche, uguali l’una all’altra, senza distinzione e sena umanità. Vedeva i raggi del pallido sole invernale riflettersi su quella placca biancastra e lucida e i colori delle insegne della città ancora accese dipingere riflessi ora azzurrognoli, ora rossastri, come una tavolozza disordinata di un pittore privo di talento.
Delle maschere. Sembrava di essere presenti ad una comitiva che si recava ad una festa in maschera a tema, dove gli invitati dovevano indossare quella cosa sulla faccia per non essere riconoscibili. Ciò che il signor Jacopus B. vide furono degli esseri (ormai non riusciva più a chiamarli degli esseri umani) senza volto.
Il signor Jacopus B. osservava queste cose interagire fra di loro, come sé stessero parlando, annuendo a frasi che non pronunciavano (e come potevano? Non avevano la bocca!), gesticolando a discorsi muti.
Si guardò lentamente intorno, il tram come ogni mattina era affollato, pieno di pendolari che andavano al lavoro, cercò qualcuno, cercò un viso, non un volto riconosciuto ma semplicemente dei tratti somatici, un’espressione di umanità con cui riconoscersi. Niente, nessuno aveva più la faccia, tutti erano delle cose amorfe, senza caratteristiche, delle identiche copie uscite dagli ingranaggi di una stampatrice enorme. Superfici plastificate di una strana sostanza, manichini senza tratti ed espressioni, sculture ancora incomplete. Il signor Jacopus B. rimase per un lungo tratto come basito, a metà fra lo spaventato e il sorpreso, poi con un gesto disinvolto si tastò la faccia e scoprì, rassicurato, che lui aveva ancora il naso, le orecchie, gli occhi e tutto quanto il resto del suo volto.
Erano gli altri ad essere all’improvviso cambiati, tutti quanti e lui era rimasto uguale a sempre. Ma la cosa che lo stupiva (e un po’ lo faceva riflettere) era che sembrava che solo lui si fosse accorto di questo cambiamento, di questa mutazione improvvisa, per le altre persone la giornata sembrava proseguire normalmente, non facevano caso ai loro non-volti e neppure facevano caso a lui, che a quanto pareva, era diverso.
Cercò di attirare l’attenzione su di sé tossendo con forza, qualcuno si voltò dalla sua parte (nel senso che qualche ovale lucido e liscio si mosse, girandosi nella sua direzione) ma non accadde nulla, né gesti di panico inconsulto, né attacchi feroci contro il signor Jacopus B., ormai diventato una specie di alieno.
Ogni cosa sembrava procedere nella più perfetta normalità per gli altri, solo per il signor Jacopus B. ciò che gli stava intorno era completamente alterato, mutato. Ed ebbe la certezza che per lui tutto fosse cambiato per sempre.
Il signor Jacopus B. si chiese se quella specie di strano scherzo della natura fosse capitato solo sul suo tram (probabilità remota ma non impossibile) e allora si voltò e guardò fuori dal finestrino ad osservare le persone che si affrettavano sul marciapiede a lato del binario. Non si era illuso troppo, infatti, vide le persone trasformate in quelle strane cose passeggiare per strada, indifferenti e frettolose. Spedite nella direzione che probabilmente ogni mattina seguivano per i loro vari impegni, inconsapevoli del fatto che il loro viso non vi fosse più, fosse scomparso all’improvviso, sostituito da una lamina di una sostanza simile alla plastica, liscia e lucida. Nessuno sembrava rendersi conto che quella mattina non vi era più un essere umano ma delle semplice cose, dei cloni di un’identica mostruosità senza espressione, senza vita, degli automi che assurdamente imitavano il comportamento delle persone.
Il signor Jacopus B., ancora un po’ stordito, decise di comportarsi come se nulla fosse: mettendo in campo tutte le sue doti da attore e utilizzando l’arte drammatica che ben conosceva, si alzò dal sedile e, facendo bene attenzione a non toccare quelle cose in piedi sul tram, si diresse verso l’uscita. Non appena le porte si aprirono, con un passo forse un po’ più troppo veloce del solito, scese e si guardò intorno. Mancavano ancora un paio di chilometri al teatro e decise di percorrerli a piedi per osservare meglio ciò che stava capitando.
Ad un osservatore esterno sarebbe apparso quantomeno singolare questo signore che passeggiava per i marciapiedi della città, imbacuccato in un impermeabile fuori moda da almeno dieci anni, mascherato da una sciarpa avvolta fin sopra il naso, continuando a fissare la gente che incrociava ed ogni volta scuotendo il capo, con gli occhi sempre più tristi e disperati.
Mancavano circa cinquecento metri al teatro quando questo signore piuttosto bizzarro (che noi sappiamo essere il signor Jacopus B.) si fermò di colpo, come folgorato da un pensiero, da una preoccupazione o da un’idea geniale. Rimase qualche secondo immobile in mezzo al marciapiedi tanto che gli strani esseri senza volto che percorrevano la stessa strada dovettero schivarlo e molti si girarono a “guardare” quel tizio fermo in mezzo al marciapiedi. Poi, quasi di scatto, il signor Jacopus B. estrasse dalla tasca posteriore dei pantaloni un portafoglio, nero e piuttosto consumato, lo aprì con gesti frenetici e ne estrasse un piccolo foglio, lo guardò, rimase a fissarlo e poi lo lasciò cadere a terra. In quel momento qualcosa, anche un osservatore disattento se ne sarebbe accorto, era cambiato dentro il signor Jacopus B., come se una cosa si fosse rotta dentro di lui, come se una parte di sé fosse all’improvviso morta.
Il signor Jacopus B. alzò gli occhi, guardò nella direzione del teatro e poi si voltò e tornò indietro, proseguendo il suo cammino dalla parte opposta. Aveva fatto solo pochi passi nella nuova direzione che un colpo d vento improvviso e gelido lo costrinse a rannicchiarsi ancora di più nella sciarpa e nel cappotto e così non vide il piccolo foglio volar via spinto dalla folata inaspettata.
Osserviamo per qualche attimo il foglio, guardiamolo danzare seguendo le traiettorie casuali del vento, salire e scendere come mosso da una mano invisibile ma estremamente aggraziata, superare quel gruppo di esseri senza volto laggiù, proseguire veloce in un continuo sali e scendi, al limite di una tensione fra il cadere per terra e lo sparire nel cielo.
Dedichiamogli ancora un poco di attenzione: eccolo, finalmente, si posa; poco lontano sulla panchina a piedi di quello stano campanile che sembra quasi pendere da un lato, dando la sensazione di instabilità e di precarietà. Avviciniamoci e raccogliamo il foglio, sarà importante per capire lo stano atteggiamento del signor Jacopus B. e del suo repentino cambio di strada. Raccogliamolo dalla panchina su cui è placidamente poggiato; si tratta di una fotografia sgualcita e opaca. La fotografia di una persona in primo piano; ne riconosciamo i capelli corvini e lunghi ma solo da questo particolare riusciamo ad intuire che si tratta della stessa donna raffigurata nella fotografia dell’appartamento del signor Jacopus B., infatti, ogni altro tratto è sparito, non consumato dal tempo però. Anche il volto raffigurato nella fotografia ha subito lo stesso terribile destino di tutte le atre persone del mondo, il viso, quel volto che il signor Jacopus B. deve aver così a lungo contemplato, sognato e amato è svanito, sostituito dall’identica, orrenda, mostruosa lastra di plastica senza tratti, senza espressione, senza nulla di umano.
Persino quel volto che rappresentava per il signor Jacopus B. il luogo di una felicità perduta ma possibile, una sorta di prova che la felicità fosse realmente possibile, esistesse davvero e che in quei tratti, vi fosse la dimostrazione certa del fatto che un uomo potesse essere, almeno una volta nella sua vita, felice, ebbene, persino quel volto era svanito. E con essa anche la possibilità di credere che la felicità fosse possibile per l’uomo. Neppure nel ricordo il signor Jacopus B. era stato in grado di mantenere quel viso, quella donna, anche lei si era trasformata in quella specie di anormalità senza umanità, persino lei ora era diversa. Era rimasto solo. Solo nel presente e solo nel passato. Il signor Jacopus B. era l’unico. L’unico essere umano sulla terra ad essere ed ad essere stato tale.
Si rese finalmente conto, il nostro signor Jacopus B. dell’assurdità di vivere in un mondo popolato da esseri diversi, alieni, che si comportavano secondo schemi imitati l’un con l’altro ma senza un briciolo di umanità, manichini programmati a compiere reiterate azioni senza comprensione e consapevolezza di sé e degli altri. Avrebbe potuto, forse, sopportare tutto questo se almeno quel volto fosse rimasto tale, se almeno in quella donna, persa nel suo lontano passato, avesse potuto ritrovare i tratti e i segni di una somiglianza a sé, di una medesima natura umana. Ma anche lei si era tramutata in una creatura diversa, lontana da lui e da ciò che egli considerava umano; neppure quella donna, con cui aveva per l’unica volta in vita sua sperimentato la felicità, era ora simile a lui. Non era più un porto caldo e sicuro a cui tornare con la memoria e l’immaginazione, annullando il tempo e la logica di un passato che non torna, ma ora era semplicemente uno degli infiniti esseri senza volto che dominavano il mondo. Il signor Jacopus B. era escluso a questo mondo, all’oscuro delle regole che lo determinano ed emarginato dalla sua unicità.
Così, quella fredda mattina di novembre di qualche anno fa, il signor Jacopus B. scoprì che il mondo era assurdo, che non vi era senso all’esistenza e che ogni cosa era immotivata. L’aveva sempre sospettato, forse, l’aveva sempre saputo ma solo quel mattino gli fu chiaro che la sua strenue faticosa, disperata, ricerca di senso da attribuire a ciò che gli stava intorno era vana. Non vi era nulla da ricercare perché non vi era nulla da trovare. Nessun senso da attribuire ad un mondo che era semplicemente assurdo.
La nostra narrazione potrebbe chiudersi qui ma per amore di completezza vogliamo riportare ancora alcune informazioni su ciò che accadde dopo.
Il signor Jacopus B. sparì. Di lui non si seppe più nulla, quella mattina non si presentò al teatro e non lo fece mai più. I colleghi denunciarono la scomparsa alla polizia che effettuò delle rapide ricerche. Venne scandagliato il fiume che attraversa la città pensando ad un tragico gesto definitivo e venne diramato un ordinanza di ricerca alle polizie estere che però non diede alcun risultato.
Per alcun mesi dalla sua scomparsa capitava di vedere appesi sui lampioni della città dei manifesti con la fotografia sorridente del signor Jacopus B. e un’accorata richiesta di auto nel ritrovarlo, il numero da chiamare era quello del teatro. Ma nessuno chiamò. Col tempo tutti si dimenticarono di quell’attore che impersonava ruoli minori sul palcoscenico; venne preso un sostituto che poi fu assunto a tempo indeterminato dalla compagnia. L’appartamento del signor Jacopus B. restò vuoto a lungo, sino a che un lontano parente non ne pretese il possesso e lo vendette ad una coppia d giovani sposini.
L’ultima che continuò a sperare che il signor Jacopus B. una mattina entrasse dal portone del teatro e, con quella sua voce gentile e calda, augurasse a tutti il buon giorno fu la sua vecchia collega L. Poi lei cambiò teatro riuscendo ad ottenere un impiego per ruoli importanti e ben remunerati e finalmente riuscì a sposarsi. Così anche lei si dimenticò di quel suo strano collega che ad una certo punto era sparito nel nulla.
Nulla rimase a testimoniare la presenza al mondo del signor Jacopus B. e gli uomini e le donne continuarono a vivere normalmente, come se neppure quell’uomo fosse esistito, interagendo tra di loro, scambiandosi affetto e odio, nascendo, crescendo e morendo. Esseri che vivevano le loro vite inconsapevoli del fatto di non avere più un volto e di essere diventati delle cose senza umanità, irriconoscibili l’uno con l’altro.

Logos
21/08/2006

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