01 gennaio 2008

Ermetica Ermeneutica

LA POETICA CONNETTIVISTA E YVES BONNEFOY
Vedo Douve supina.
Alla sommità dello spazio carnale
L’odo brusire.
Scarabei neri affrettano le mandibole
Attraverso questa distesa
In cui le mani di Douve si espandono,
ossa spolpate delle carni
trasmutandosi in tela grigia
che il ragno solenne
rischiara.

Yves Bonnefoy
(“Movimento ed Immobilità di Douve” – Yves Bonnefoy – Giulio Einaudi Editore)
Fra le molte caratteristiche peculiari del Connettivismo ve n’è una che spicca in modo manifesto e che si configura come elemento essenziale di tutta la filosofia che soggiace nelle pieghe del movimento. Ci stiamo riferendo ovviamente alla velocità; a ciò che si declina nella spinta ad andare Oltre, nell’incessante e continua ricerca di ciò che il domani riserva, senza incertezze, sino alla pretesa del Connettivismo di essere de facto artefice (e dunque non solo osservatore) di ciò sarà l’alba del giorno dopo.
Tale elemento costituisce uno degli essenziali punti di forza della riflessione, della visione del mondo connettivista, il rifiuto quasi urlato ad ogni forma di conservatorismo verso una coraggiosa e spregiudicata auto-innovazione che non teme di abbandonare le vette raggiunte per spingersi sempre aldilà, Oltre.
L’Oltre, nelle sue differenti accezioni tipiche di un movimento solo apparentemente coeso e omogeneo (scientifiche, narrative, poetiche, filosofiche) resta il Graal inarrivabile a cui è paradossalmente sufficiente tendere per averlo di fatto conquistato, una possessione nella non-conquista.
Una corsa verso il futuro di cui si sentono i battiti di un cuore accelerato (termine non certo casuale) e il rumore dei piedi sull’asfalto piovoso dipinto del riflesso di violacei neon metropolitani. Una corsa consapevole dell’infinità della strada da percorrere e dell’eternità del tempo che l’avvolge, ma è proprio questa consapevolezza della impossibilità del raggiungimento, presente in ogni produzione (narrativa, poetica, saggistica) del Connettivismo che rivela come il Movimento stesso abbia preso sulle proprie giovani spalle il peso della finitudine dell’uomo e che, a partire da questo suo limite essenziale ed ontologico, abbia costruito la strada verso l’Oltre, verso le misteriose e differenti forme di post-umanismo.
Nella situazione limite della presa di coscienza dell’impossibilità del ottenimento dell’aldilà ricercato e bramato, il Connettivismo mostra come un aldilà esista e che solo nel tendervi incessantemente lo si realizza perpetuamente.
Il Connettivismo è dunque un treno che continuamente corre lungo argentei binari, senza soste intermedie, senza stazioni di cambio, un supernova express che sfreccia verso l’Oltre.

Se quanto tracciato nelle righe precedenti è ormai una riflessione consueta che già altrove e da penne più illustri è stata vergata, la rubrica che con queste pagine vogliamo inaugurare ha un obiettivo differente, concreto, un’aspettativa d’analisi ambiziosa, quasi sfacciata. Il tentativo che si strutturerà iterazione dopo iterazione sarà di soffermarci a descrivere la corsa del Connettivismo correndo con esso, ci arrabatteremo per isolare l’attimo e di fatto costringerlo a mostrarsi. Obbligheremo il Movimento stesso a una virtuale sosta in cui osservarsi nella corsa e nella destinazione.
Si vorrà fare nelle pagine che seguono e che seguiranno un’ermeneutica del presente, una storiografia del contemporaneo, un’analisi statica della dinamica. Un’operazione paradossale come ben avrà intuito il lettore; non si può infatti dare interpretazione di un testo non ancora scritto, o non si può pretendere il distacco dell’analisi storica nell’oggi dei fatti accaduti.
Per chi preferisce le metafore di natura scientifica si potrebbe dire che nella pagine che seguono tenteremo di osservare un movimento restando sullo stesso piano di riferimento dell’oggetto di cui vogliamo descrivere la corsa. Seduti su uno dei molti sedili del Supernova Express connettivista tenteremo di fare un’ermeneutica che sarà, per le ovvie ragioni ricordate, un’ermetica ermeneutica.
Scardineremo famosi principi fisici d’indeterminazione attraverso un percorso di paradossalità e di assurdità che pian piano svelerà la natura stessa del Connettivismo legandolo indissolubilmente (e molto più di quanto è stato fatto sinora) al sostrato culturale, narrativo, letterario contemporaneo.
Si prepari allora il lettore ad una riflessione sul senso stretto del Connettivismo, sulla via che sta percorrendo e sui risultati che sta raccogliendo senza che tuttavia il Connettivismo abbia ancora in sé definito un senso, identificato la strada percorsa ed ottenuto i risultati auspicati.
La nostra ermetica ermeneutica costituirà il primo, delirante, tentativo di proiettare il lettore in un ipotetico futuro e mostrare quale sarà la riflessione esegetica compiuta dai critici di domani sul Connettivismo che per allora sarà solo ricordo. Questo è il modo di fare ermeneutica del Connettivismo e sul Connettivismo. Questa è ermetica ermeneutica.
Le ragioni che stanno alla base di questa nostra intenzione sono molteplici e complesse, si potrebbe citare un personale desiderio di comprensione e di consapevolezza sul Movimento oppure l’esigenza di una risposta ad una domanda primigenia sul senso di ciò in cui siamo immersi. Lasciamo al lettore la preferenza sulle ragioni che costingono ad un folle tentativo ermeneutico, resta tuttavia forte in chi scrive la convinzione che più non si poteva ignorare la muta richiesta di introspezione proveniente dal Connettivismo stesso, ora che esso stesso è sulle soglie della fama e dell’uscita allo scoperto nella società culturale italiana.
Finalmente rivelato e mostrato l’intento manifesto di questa nuova rubrica, avendo anche avvisato il lettore del grado non indifferente di paradossalità che vi ritroverà, possiamo ora proseguire iniziando questa nostra operazione d’ermetica ermeneutica.
Il primo aspetto del Connettivismo su cui vorremmo compiere l’ardita operazione ermeneutica è la poetica, ovvero cercheremo di indagare il senso ed il significato che soggiace alla produzione in versi del Movimento, produzione ricca e piuttosto eterogenea.
Una prima considerazione necessaria e piuttosto ovvia appare subito palese. Il Connettivismo è, aldilà delle sue molteplici definizioni sempre insufficienti, soprattutto un movimento letterario che si innesta pienamente sul genere della fantascienza. Dalla sf il Connettivismo nasce, da essa trae le sue immagini più caratteristiche e definenti, la sua produzione narrativa è (a parte qualche caso particolare) rispondente pienamente ai topoi narrativi tipici di genere e il Connettivismo stesso non ha mai nascosto tale sua illustre ascendenza.
Ecco che allora si mostra palese una prima discrepanza tra le origini (biologiche potremmo dire) del Connettivismo e il suo stesso manifestarsi letterario, infatti la sf non ha mai considerato la poesia come forma espressiva propria, preferendole sempre ed in modo prepotente la prosa, la narrazione prosaica e puramente descrittiva
[1].
Il Connettivismo sin dalle sue prime, amorfe, apparizioni trova nell’elemento poetico una forma di espressione importante, riconoscendo alla versificazione un valore d’analisi del reale peculiare e tipico e soprattutto estremamente potente.
E’ necessario però non anticipare e proseguire con ordine. Le ragioni che spinsero i primi autori del Connettivismo ad avvicinarsi alla poesia sono da rintracciare in altri motivi rispetto alla presa di coscienza del potere “penetrativo” della parola poetica. Il Connettivismo, come spesso si è detto, ha molti padri e molte madri, a formare una sorta di nucleo familiare moderno (o post-moderno) da cui attingere una eterogenea ereditarietà memetica. Il Connettivismo nasce dal Futurismo, dal Simbolismo, dal Surrealismo, dal Crepuscolarismo e da altre correnti che in modo più o meno diretto sfociano nelle pagine di NeXT, accogliente estuario sul mare della contemporaneità.
Da tali illustri genitori il Connettivismo trae la sua accettazione della poesia come strumento narrativo plausibile a valido per narrare i temi che gli sono cari e peculiari, senza veder incoerenza tra la matrice scientifica della sf e gli stilemi sentimentali caratteristici del componimento poetico. Anzi, si potrebbe osservare come la poesia è stata per il primo Connettivismo un forte e palese strumento con cui differenziarsi da altri movimenti di genere sf precedentemente apparsi nel panorama letterario e mostrarsi come qualcosa di nuovo, di innovativo e di costitutivamente coraggioso. Il Connettivismo si pasceva dello scandalo creato nei benpensanti della sf di fronte ad una “poesia di fantascienza”. Uno sberleffo in faccia alle rigide tradizioni fantascientifiche che esiliavano la poesia a autori sentimentali e “antichi”.
A fianco di questa ragione che si potrebbe definire “politica” ve ne era un’altra più concettuale e profonda per cui il Connettivismo scelse come forma espressiva lecita anche la poesia, ovvero il desiderio di rispondere ad un’esigenza intimistica, riflessiva, crepuscolare che si era palesata sin da subito nelle intenzioni del Movimento
[2].
La poesia che è per sua per natura strumento espressivo di chi ha intenti riflessivi si prestava molto bene a rispondere all’esigenza connettivista di descrivere le emozioni suscitate dall’osservazione di un neon intermittente in una metropolitana deserta, di una fabbrica dismessa nelle brughiere nebbioso di infinite pianure, di silenzi misteriosi che legano antichi passati con futuri sognati, di una astronave che si staglia nell’attimo eterno di un buco nero. Erano queste e altre le immagini che ribollivano nelle menti dei primi connettivisti che li costrinsero a fare della poesia uno strumento narrativo e una peculiarità del movimento che andavano pian piano disegnando.
Come non rileggere allora in quest’ottica i primi componimenti apparsi sul numero zero o sull’iterazione uno di NeXT?
Scriveva X sul preistorico zero:

Fredda luminescenza
Sbiadita che di sera
Si stende sulla città
Assopita: cielo al neon
Che prelude stanco
A notti senza tempo
[3].

O ancora Zoon nella Iterazione uno:

Sono in prossimità della storia
Coordinate prossime a dove cammino
Solo spostate nel tempo.

Sono connesso agli eventi
Che accadono qui accanto
[4].

O il frammento di Pykmill:

Nuvole basse
Come bianche astronavi
Regine del cielo
[5].

Ritroviamo in questi brevi, e non certo esaustivi esempi, tutta l’intenzione stessa, la spinta costitutiva che ha portato alla nascita del Connettivismo e che doveva trovare sua espressione necessariamente nella forma poetica perché solo in essa ci si poteva librare sopra la fatticità della prosa scientifica e iper-tecnolgica che dominava (e domina) la fantascienza hard tipica della cultura anglosassone. La poesia rivelava una sensibilità nuova che soggiaceva, più o meno latente, nelle pagine di un movimento che voleva proporsi non solo come rinnovatore ma di fatto come nuova via per la fantascienza e per tutto il pensiero sf.
La poesia divenne così una delle forme espressive peculiari del Connettivismo presente costantemente nelle pagine di NeXT senza alcuna subordinazione alla prosa o alla saggistica.

Sino a questo punto però ancora nulla si è detto dell’indagine ermeneutica che abbiamo dichiarato di voler compiere, tace ancora l’esegetico strumento di indagine del senso profondo (latente?) che si annida nel nucleo stesso del Movimento. Si è, sinora, fatto piuttosto del facile giornalismo nel descrivere, cronologizzando, eventi e considerazioni piuttosto note a chi è stato assiduo frequentatore del Movimento. Lo scopo di questa rubrica però ci impone di andare oltre (l’Oltre che rappresenta sempre il confine di ogni intento connettivista) e di abbandonare le boriose riflessioni da quotidiano per addentrarci nell’indagine interpretativa che ci siamo prefissati di portare avanti.
Ritorna in questa nostra intenzione la stessa spinta del Connettivismo che incessante non si ferma, non si placa delle mete raggiunte e guarda sempre, famelico, aldilà.
Per poter trasformare queste nostre riflessioni da banale giornalismo a bizzarra ermeneutica è necessario compiere quel passo assurdo di cui abbiamo sopra accennato. Dovremo ora svelare attraverso quale artificio razionale tenteremo di fare storiografia del contemporaneo e ermeneutica del presente, mostrando il movimento da dentro il Movimento.
In questo passaggio si radica tutto il valore esegetico delle pagine che stiamo vergando e di quelle che vergheremo nelle Iterazioni successive, un’operazione che lascerà i più interdetti, storditi e sorpresi ma ci consentirà di svelare il valore originario, profondo, misterioso della poesia connettivista.
Il senso e il significato che, nascosto, emerge dalla produzione in versi del Movimento e che rivela, agli occhi di chi si pone ad osservare, quale valore abbia il componimento poetico per il Connettivismo. Vedremo come la poesia non sia solo strumento per il dire emozionale e sentimentale delle descrizioni struggenti di luci soffuse o si astronavi perse nell’immensità siderale del nero. La poesia connettivista ha in sé un potere, un valore gnoseologico
[6] costitutivo e peculiare che disgeleremo. La poesia connettivista come rifiuto o superamento di ogni intento puramente estetico e come emersione di un potere conoscitivo e penetrativo del reale che le è proprio e unico, irripetibile e mai duplicabile nelle altre forme d’espressione (prosa e saggistica) che sono tipici del Movimento.
La poesia connettivista, vedremo nelle pagine che seguiranno, si struttura come un pozzo
[7] che penetra la realtà nel profondo sino ad arrivare a sfiorare e divellere la sottile membrana che separa il qui dall’aldilà, l’illusorio dal reale, il sustruito[8] dal Mondo della Vita[9].
Lo svelamento di questo misterioso e recondito potere che si nasconde in ogni verso connettivista sarà il fine della nostra ermetica ermeneutica.

Eccoci ora giunti al nodo gordiano di tutta questa riflessione, la chiave di volta che sorregge la complessa architettura ad arco, fallisse questo nostro procedere riflessivo cadrebbe miseramente quanto riportato nella pagine scritte e in quelle che seguiranno. Non abbiamo però strumenti per giudicare la correttezza dell’operazione che compiremo, non vi sono metri di paragone e di giudizio; invitiamo il lettore semplicemente ad accettare il paradosso e il surreale insito in questa operazione.
Avrà molte occasioni in futuro di esprimere un giudizio che ora invitiamo semplicemente a sospendere, si compia dunque e finalmente l’epochè fenomenologia
[10].
Per poter rivelare il valore proprio della poetica connettivista, il potere che latente (oscuro forse anche a suoi autori) s’insinua in ogni verso ritmico, e perciò svelare il senso ultimo della produzione poetica del Movimento analizzeremo e studieremo nel dettaglio la produzione poetica di un autore che con il Connettivismo non ha nulla a che fare, poeta di altra nazione, di altre origini culturali, lontano anni luce da ogni influenza e lettura fantascientifica; insomma un poeta non connettivista.
Ecco svelata l’assurdità e la paradossalità che però ci permette di guardare con distacco ciò in cui siamo immersi, di registrare la velocità del Supernova Express seduti comodi suoi sfreccianti sedili. Stiamo creando un liquido di contrasto che ci permetterà di osservare ciò che altrimenti sarebbe stato velato e oscuro. L’impossibilità di osservare da dentro ciò che accade all’interno del Movimento ci ha di fatto costretto a compiere un assurdo passaggio che ci ha poso al di fuori dandoci i presupposti conoscitivi, esegetici necessari a compiere l’ermeneutica di cui vogliamo dire. Un espediente, un meccanismo razionale, un’operazione logica o forse un utilitaristico utilizzo dell’altrui poesia, poco importa al momento, a noi preme poter osservare ciò che altrimenti resterebbe velato.
Vedremo al termine di queste pagine come questa operazione sarà meno ardita di quello che ora di certo appare e la sua antinomia si ammanterà di lampante chiarezza e consueta evidenza.
Prenderemo dunque in prestito la produzione di un poeta contemporaneo, l’analizzeremo a fondo, ne sveleremo il senso profondo (grazie alla lettura dei componimenti stessi e di alcuni importanti saggi) e una volta che questo senso sarà emerso ci accorgeremo che esso è l’identico che soggiace in profondità al Connettivismo. E qui lo scandalo! Leggere un poeta non connettivista e scoprire che il senso che soggiace al suo poetare è il medesimo di quello connettivista, senza che vi siano manifesti rimandi, palesi richiami o sfacciati plagi. Un invisibile filo unisce il poeta di cui diremo al connettivismo e viceversa, unificandoli e compenetrandoli.
Far dire ad altri ciò che è peculiare (ed unico) del Connettivismo, questa la nostra ermetica ermeneutica.
Noteremo poi, in conclusione, che nell’emergere del senso dalle profondità in cui alberga esso si “attuerà” in modi ovviamente differenti e che naturalmente non sarà possibile sovrapporre il poeta che leggeremo con i poeti connettivisti tout court. Differente la produzione manifesta del verso, delle parole, del versificare ma identico e medesimo il senso profondo e il potere che da esso deriva; una filiazione leggermente differente da un genoma (meme?) identico.
Non ci resta che rivelare il nome del poeta che si è prestato, volente o nolente, a questa nostra operazione: Yves Bonnefoy.

Per poter comprendere la poetica di Yves Bonnefoy e trasformarla in un’operazione d’assurda ermeneutica nella poesia connettivista dovremo lentamente risalire il fiume della produzione del poeta francese tappa dopo tappa, e far sì che ogni sua opera poetica sia una spiaggia a cui approdare e da lì proseguire oltre, giungendo all’obiettivo che in Bonnefoy è chiaro sin dai primi versi del suo testo d’esordio: “Movimento e immobilità di Douve
[11]”.
Tenteremo di ripercorrere il complesso cammino compiuto dal poeta francese durante tutta la seconda metà del ventesimo secolo leggendo le sue poesie, le note critiche e alcuni importanti saggi che hanno permesso di far luce sulla sua, non sempre immediata, finalità poetica.
Finalità, si perché Yves Bonnefoy ha un’idea precisa e definita di quale debba essere lo scopo e il senso della poesia (e quindi non solo della propria poesia) e in tale direzione egli mira, coscientemente, ad arrivare attraverso un sentiero logico ben rintracciabile nelle sue principali opere.
Ives Bonnefoy è stato spesso accostato con maggiore facilità ad autori di testi filosofici che non a precedenti poeti sia francesi che stranieri, questo è senza dubbio corretto, sia per la formazione personale di Bonnefoy che lo rende avulso dalla tradizione poetica francese (così ricca in campo poetico) ma che lo avvicina prepotentemente a fonti di natura filosofica, tra cui (e lo vedremo molto bene nelle pagine che seguono) con tutto il pensiero fenomenologico di Edmund Husserl.
Resta sempre il dubbio di quanto questa ascendenza fenomenologica sia in Bonnefoy consapevole o sia semplicemente un’influenza memetica inconscia se non addirittura un giungere a medesime conclusioni riflessive passando per altre vie logiche (nel qual caso poetiche e non prettamente filosofiche). Scopo della presente analisi, ed più in generale di tutta la rubrica “Ermetica Ermeneutica”, sarà proprio quello di insinuare il sospetto che alcune ascendenze analitiche non siano così legittime come spesso creduto e vadano, al contrario, ricercate in una più ampia prospettica che attribuisce ai memi un ruolo maggiormente rilevante.
Prima di addentrarci nella lettura di Bonnefoy e, facendo ciò, mostrare de facto la stessa poetica connettivista, vorremmo tracciare gli ideali passi del nostro cammino, in una sorta di indice riassuntivo volto a facilitare il lettore poco aduso all’esegesi di testi di poesia.
Il cammino che seguiremo muove a partire dalla lettura delle quattro opere poetiche
[12] principali del poeta francese. Il testo da cui prenderemo il via è il già citato “Movimento e immobilità di Douve” edito nel 1953 che costituisce nella nostra trama la pars destruens della riflessione di Bonnefoy, ovvero il tentativo violento di distruzione di ogni forma di concettualizzazione, di uso normativo e falsificatorio della parola, il rifiuto della sua aberrante sottomissione a predefiniti schematismi che le impediscono di penetrare la realtà che resta, perciò, mascherata e nascosta da finti linguaggi, semplici costrutti ingannevoli dell’uomo. Una volta spazzato via il campo da ogni sustruzione linguistica si apre davanti a Bonnefoy il mondo, il mondo della vita in cui abbandonarsi ma si apre anche il problema di descrivere questo vero mondo utilizzando una parola nuova che sia in grado di giungere nel cuore del reale senza fare di sé stessa strumento d’inganno. Ecco allora la lettura di due testi fra loro lontani negli anni ma vicini nei propositi (che non a caso in Italia sono stati editi in un unico testo): “Ieri deserto regnante” e “Pietra scritta[13]”, il primo del 1958 e il secondo del 1965. Primi, timidi tentativi di dire il mondo della vita con una parola rinnovata, viva che segni la fine del deserto di senso che sino ad ieri regnava incontrastato.
Infine, l’ultima opera del poeta francese, edita in Italia solo da pochi mesi: “Le assi curve
[14]” del 2001, con cui il tentativo di cui dicevamo sopra si compie con un buon grado di pienezza.
Nelle pagine che seguono ci addentreremo nella lettura del testo di Bonnefoy per svelare il lirismo assolto, a tratti allucinatorio con cui il poeta francese prende per mano il lettore e lo guida verso un nuovo modo di vedere la realtà, di descrivere l’essere e (di conseguenza) di vivere il mondo della vita.
Senza indugi quindi muoviamo il passo e precipitiamo nelle pagine di Yves Bonnefoy.


Ti vedevo correre sulle terrazze,
Ti vedevo lottare contro il vento,
Ti sanguinava il freddo sulle labbra.

E t’ho vista spezzarti e gioire d’esser morta, oh, più bella
Della folgore, quando chiazza i vetri (già) bianchi del tuo sangue.


Così Bonnefoy presenta al lettore Douve. Non ha timore il poeta di utilizzare immagini forti, sanguinolente e drammatiche, vetri sporchi di sangue illuminati da folgori nel cielo. Ma chi è Douve, e quale è il messaggio che porta nel suo gioire di morte?
Douve
[15] è un luogo, Douve è una donna, Douve è una condizione mentale, Douve è uno strumento nella mani del poeta, Douve è ciò che il lettore vuole che Douve sia. Chi scrive la immagina con il volto di donna, il corpo androgino e lo sguardo nero che penetra oltre la superficie.
Dice bene Stefano Agosti nella sua introduzione all’edizione italiana del testo: “Douve è dunque una creatura investita della morte. Attraverso di lei e dentro lo spazio del mito che essa continuamente ricrea, si assiste alla promozione del reale a statuto conoscitivo. Ma si tratta d’uno statuto non codificato dall’intelletto.”
Ecco il punto, Douve è una negazione. Douve è un rifiuto, una consapevole messa tra parentesi di un modo di descrivere e di osservare il mondo e tale urlato “no” è possibile per il poeta solo nella presa di coscienza della morte, come ancoraggio prepotente verso una realtà non idealizzata, non costruita di fatti concettuali, ma una realtà viva e vivente. Douve è il recupero dell’elemento mortale della vicenda umana, è l’epopea del corpo che si trasforma e corrompe.
Dice lo stesso Bonnefoy nell’eccellente introduzione all’edizione italiana di “Ieri deserto regnante”: “Douve è stata per me una presa di coscienza della poesia nella specificità del suo atto, che mi parve essere quello di capire bene – non con il pensiero, ma in modo più immediato, nel più profondo dell’esperienza vissuta – che gli esseri e perfino le cose sono mera assenza, “morte” quando li affronta soltanto per mezzo dello strumento concettuale.”
Douve è dunque, nell’intenzione del poeta, una figura mitica che porta con sé, come ogni altra figura mitica, un’allegoria personale, un messaggio universale che si ripercuote incessantemente ad ogni sua lettura. Bonnefoy fa mitologia della riflessione filosofica ed esistenziale dando vita ad un personaggio che s’insinua nel sostrato memetico dell’uomo del ventesimo secolo e piano, subdolamente, ne va a scardinarne le certezze e le false convinzioni.

La poetica di Bonnefoy si apre, prima ancora di Douve, nella considerazione personale (e filosofica) del potere malefico e ricattatorio del “concetto”, ovvero della nozione astratta di un sentimento, di un evento, che seduce l’uomo perché si vanta di una illusoria eternità, immutabilità, perfezione.
La realtà viene, secondo Bonnefoy, falsificata dall’utilizzo di parole che sono frutto di una operazione di “concettualizzazione”, una idealizzazione per cui oggetti viventi e veri vengono ipostatizzati in concetti eterni, assoluti, sferici e perfetti nella loro lucente luminosità. Bonnefoy intuisce però che questi “concetti” nulla dicono del mondo in cui l’uomo è quotidianamente immerso, anzi, sono la principale fonte di un fittizio meccanismo di idealizzazione che porta alla creazione (platonicheggiante) di un altro-mondo, fatto di oggetti puri, avulsi dal tempo, dallo spazio, dalla mortalità stessa che permea ontologicamente ogni cosa. La parola si trasforma in un nefasto dispositivo di sustruzione attraverso cui costruire un soppalco concettuale ad uso e consumo di una visione de-umanizzata dell’essere nel mondo.
Uno dei massimi commentari di Bonnefoy, J. P. Richard, sottolinea molto bene che il concetto porta con sé un potere consolatorio perché ammutolisce gli urti dell’esistenza e gli stravolgimenti del caso creando un equilibrio armonioso, ma proprio questa calma armoniosa può essere offerta solo dall’astrazione che dimentica l’esperienza vissuta, che trascura che l’uomo è foglia d’edera maciullata, segnata dal tempo, dalla violenza. Il concetto di foglia è dunque il tradimento di quella foglia che l’erlebnis
[16] porta con sé.

Vedo douve supina. Nella città scarlatta dell’aria,
Dove i rami combattono sul suo viso,
Dove le radici s’insinuano dentro il suo corpo
Ella irradia una gioia stridente d’insetti,
Una musica orribile.

Al passo nero della terra, Douve sconvolta, esultante
Raggiunge la lampada contorta degli altipiani
[17].

Vedo Douve supina. In una stanza bianca,
Cerchiati di gesso gli occhi, vertiginosa la bozza
E le mani condannate all’erba lussureggiante
Che da ogni parte la invade.

S’apre la porta. Un’orchestra avanza.
E con gli occhi sfaccettati, toraci pelosi,
Teste fredde con becchi, con mandibole,
La inondano
[18].


Questo il panorama che si apre di fronti agli occhi atterriti del poeta, una mistificazione in cui l’uomo inconsapevole giace, un inganno costruito dalla parola concettualizzata, un’illusione voluta dall’uomo stesso per nascondersi la verità del mondo in cui ogni giorno respira, mascherandolo con una patina di eterna (ma apparente) perfezione.
Il poeta non può, per sua stessa natura, restare indifferente a questa finzione, il poeta (e Bonnefoy lo è di certo) è l’archetipo dell’uomo nuovo (del post-uomo?) che non ha paura di guardare con occhi non velati da lenti consolatorie e non teme d’immergersi nel non senso che potrà scoprire; ma per far questo è necessario compiere un’operazione negativa, una pars destruens di un percorso articolato che spazzi via ogni sustruzione ingannatoria e spalanchi ad un nuovo modo di vedere e descrivere (la cui somma è vivere) il mondo.
Bonnefoy attua la pars destruens del suo pensiero proprio in “Movimento ed immobilità di Douve”, rifiuto, negazione, “no” con cui abbattere le mistificazioni, svelare gli occhi cisposi dell’uomo e divellere finti veli.
Il poeta compie una tabula rasa per sbarazzarsi della “parole exterieure” della lingua quotidiana degradata e distante dall’erlebnis. Il poeta deve allora “riannodare il linguaggio con l’esistente
[19]” creando la possibilità di una parola viva che permetta al poeta di dire la vita.
Un abbattimento voluto dal poeta che ha lo scopo di creare il silenzio.
Si, il silenzio.
Il silenzio che la poesia instaura prima della creazione poetica garantisce l’autenticità delle parole che sorgeranno. Giungere al silenzio come condizione di possibilità di un linguaggio nuovo che dica finalmente il mondo della vita scevro da ogni concettualizzazione e mistificazione. E’ un trattenere il respiro prima dell’immersione, un lungo momento personale, individuale, l’attimo in cui il soggetto prende coscienza di sé stesso come essere vivente per poi gettarsi a capofitto nel mondo della vita, senza paura, senza finzioni.
Leggiamo quanto sapientemente Bonnefoy ci dice e riveliamo che la poesia è capacità di conoscenza più che mille discorsi:

Il Luogo della Salamandra

La salamandra sorpresa sta immobile
E finge la morte.
E’ il primo passo della coscienza nelle pietre,
Il mito più puro,
E’ un grande fuoco trapassato, è spirito.

Stava la salamandra a mezza altezza
Del muro, nella luminosità delle finestre.
Il suo sguardo era soltanto pietra,
ma vedevo il suo cuore pulsare perenne.


Oh mia complice e mio pensiero, allegoria
D’ogni purezza
Quanto amo chi racchiude così nel suo silenzio
La sola forza di letizia.

Quanto amo chi s’accorda agli astri per l’inerte
Massa di tutto il corpo,
quanto amo chi attende il suo momento di vittoria,
e trattiene il respiro e posa al suolo
[20].

Ecco svelato dunque lo scopo della poetica di “Movimento ed immobilità di Douve”, ecco rivelato chi è Douve e quale il suo compito nell’universo memetico dell’uomo
[21].

La parola. Il fine della poetica di Bonnefoy è la riscoperta della parola, di una parola in grado di dire, vivamente, la realtà; una parola che porta con sé un quasi magico potere penetrativo della realtà, un tunnel possente che scava la realtà stessa sino al suo cuore pulsante, a quel mondo della vita che si dà solo nell’esistere stesso dell’uomo come essere significante. Questa parola cercata da Bonnefoy non è altro che la poesia, la poesia silenziosa liberata dalle concettualizzazioni grazie all’operazione mortale compiuta da Douve e che ora ha in sé il potere di dire, di vedere. Abbiamo assistito alla “lotta della parola contro la lingua, delle frasi contro i concetti, del referente contro il significato, una lotta costitutiva delle opere di poesia ovunque sulla terra e in ogni epoca
[22]”.
La parola è finalmente libera di librarsi (lemma meraviglioso che mischia il volo con le pagine dei libri) al di sopra di ogni convenzione normativa precostituita, di ogni regola lessicale impaludante e condannante, sola s’innalza e giunge a svelare, in un movimento ricorsivo, incessante, ciclico ed eterno la realtà del mondo della vita, il mondo delle madri.
Parola che non è più confinata nel significante che l’esprime, nei suoni o nei tratti che la rappresentano, parola che si rigenera continuamente attribuendosi gli infiniti significati che le sono propri e che le permettono di essere al tempo stesso silenzio.
Parola che è finalmente non costretta dalle regole della lingua, dagli artifici retorici, dalle “proposizioni cristallizzate” di Wittgensteiniana memoria, parola che non è più martirizzata in normative storiche e contestuali ma che recupera il suo originario potere evocativo e mistico-magico. Parola che fa di se stessa incantesimo con cui creare, prima ancora di significare, il mondo.
La poesia mostra qui il suo paradosso, la contraddizione impossibile che le è propria: essa abbatte il linguaggio concettuale per mostrare attraverso il silenzio una parola nuova che sappia finalmente penetrare il mondo della vita, ma questa parola nuova è la poesia stessa, che si è, dunque, divinamente, autocreata in un percorso che ciclico ed interrotto. La poesia svela la falsità del concetto, apre le porte al silenzio da cui emerge la parola nuova che è poesia che a sua volta svela l’inganno, ripetutamente, senza soluzione di continuità, in un’eternità ripetuta.

Siamo finalmente giunti al punto in cui ogni cosa comincia ad ammantarsi di chiarezza, il progressivo disvelamento della poetica di Bonnefoy, delle sue finalità, dei suoi portentosi paradossi mostra anche al lettore più distratto che l’operazione assurda che abbiamo dichiarato di compiere con questa ermetica ermeneutica appare meno delirante e folle di quanto pareva inizialmente, si cominciano, infatti, ad intuire nel pensiero di Bonnefoy le strutture portanti della riflessione connettivista.
Ma non interrompiamo il fiume della riflessione e proseguiamo oltre.

A questo punto a Bonnefoy si para davanti il vero problema della sua poetica, se, infatti, era chiaro l’intento e la finalità “distruttiva” compiuta da “Movimento ed immobilità di Douve” arduo sembrava il passo successivo, la pars construens, ovvero la questione sulla possibilità reale di fare poesia con la parola viva senza che lo scriverla e il versificarla ne annulli la vitalità, la forza, il paradossale potere magico e creativo.
Insomma, tanti buoni propositi per nulla?
Lo stesso Bonnefoy è ben consapevole di questo pericolo come dimostrano queste sue parole: “Tale era la sfida che vedevo per il mio primo libro: conformare la mia pratica della poesia alla mia idea della poesia
[23]”.
Le opere successive a “Movimento e immobilità di Douve” sono per Bonnefoy il tentativo di rendere reale nella poesia il superamento del concetto, la scoperta della misteriosa sospensione del tempo, l’aderenza totale alla tortuosità del divenire. Bonnefoy lentamente mostra la pars construens del suo pensiero e la attua concretamente nelle sue poesie che sono manifestazione, epifania misticheggiante, dell’immersione assoluta nel reale, della realizzazione perfetta dell’esistenza dell’uomo. Poesia non più estetica ma etica. E’ la poesia del momento, inaspettato, sorprendente, improvviso, precipitoso, in cui l’essere si svela per ciò che è, nella sua totale ed assoluta pienezza. Tutta l’opera di Bonnefoy successiva a “Movimento ed immobilità di Douve” mostra la sua ricerca di occasioni improvvise e insperate, istanti che danno pienezza del tempo, frammenti che interrompono la durata, fuoriescono dalla continuità e dicono la totalità da cui provengono.
Ogni singola poesia di Bonnefoy è la descrizione fluente, irrisolta ed irriducibile di questi attimi che si fanno forse confusi, forse allucinatori, ma che mantengono in pieno il potere di parlare, di creare connessioni laddove apparentemente connessioni non ve ne sono, vedere legami nella realtà viva in cui l’uomo giace in questo esser-ci, vedere il tutto nel particolare e il particolare nel tutto, la perfezione nell’imperfezione.

L’imperfezione è la cima
[24]

E’ vero che occorreva distruggere e distruggere e distruggere
E’ vero che la salvezza era a quel prezzo.

Devastare il volto nudo che affiora nel marmo,
martellare ogni forma di bellezza.

Amare la perfezione in quanto soglia,
ma conosciuta negarla, dimenticarla morta,

L’imperfezione è la cima.


Lasciamo che sia allora lo stesso Bonnefoy a parlare, a descrivere l’attimo, a donare al lettore squarci di quella realtà che sta al di là di ogni velo di Maya, oltre l’illusoria consolazione del “concetto”, lasciamoci incantare dalle immagini che il poeta svela e ci proiettano magicamente nell’Oltre.

Il paese scoperto
[25]

La stella sulla soglia. Il vento, chiuso
Fra le immobili mani della morte.
Vento e parola furono lunga lotta,
Poi venne il silenzio nella calma del vento.
Il paese scoperto era di pietra grigia.
Lontano giaceva basso, il lampo di un non fiume.
Ma le piogge notturne sull’attonita terra
Destarono l’ardore che tu chiami tempo.

O ancora una poesia in cui il lirismo raggiunge apici d’incommensurabile bellezza:

Ora sei solo nonostante le stelle,
il centro ti è vicino e ti è lontano,
hai camminato, cammini, nulla cambia,
sempre la stessa notte senza fine.

E vedi, sei già separato da te stesso,
sempre lo stesso grido, e tu non l’odi,
sei tu colui che muore, tu che non hai più angoscia,
sei tu stesso smarrito, che non cerchi
[26]?

Potremmo proseguire a lungo, citando via via tutti i componimenti che formano “Ieri deserto regnante” ma sarebbe ridondante e piuttosto preferiamo invitare il lettore ad immergersi direttamente nel testo di Bonnefoy e considerare queste nostre parole solo come un invito, un suggerimento alla lettura e uno sprone all’Oltre.

Dicevamo nell’iniziare la lunga disamina sulla poetica di Bonnefoy che “Ieri deserto regnante” edito nel 1958 si poteva ben accostare ad un’opera successiva del poeta francese, ovvero “Pietra scritta”, infatti, in questi due testi vi sono i primi tentativi, forse ancora solo abbozzati, di dire con la parola nuova, con il logos vivo emerso dall’abbattimento della concettualizzazione.
“Pietra scritta” è dunque una tappa a cui approdare per poter andare ancora oltre, per poter fare della poesia lo strumento conoscitivo per eccellenza del reale, reale inteso ovviamente come il mondo della vita libero da falsificazioni.
Leggiamo alcune poesie di “Pietra scritta” ed osserviamo come progressivamente la parola di Bonnefoy si faccia più carica di quel potere penetrativo di cui dicevamo, di come abbandoni ogni intenti espressionista e descrittivo e di come giunga, attraverso la sua completa liberazione dal significante, all’Oltre in cui l’uomo giace.

Una pietra

Due anni, o tre
Mi sentii sufficiente. Astri,
fiumi, foreste non mi uguagliavano.
Si sfaldava la luna sulle mie vesti grigie.
I miei occhi cerchiati
Illuminavano i mari sotto volte d’ombra,
e i miei capelli erano vasti più che il mondo
dai vinti sguardi, e grida che non mi giungevano.


Urlano bestie notturne, è la mia strada,
si sbarrano usci neri
[27].

Senza ulteriori commenti si intuisce, come una musica che viene da lontano che le parole di Bonnefoy dicono altro, creano immagini polimorfe, sfaccettate, sfocate che lasciano intravedere un Oltre non spiegabile con la mente o con la logica ma solo intuibile come limite, come annuncio della finitidune dell’uomo che il mondo rivela.
E come non lasciarsi sedurre dall’immagine della barca che giunge alla riva e cade di “L’albero, il lume”? Quel cadere non è un fallimento ma è il precipitare nelle profondità multiformi del mondo della vita:

L’albero, il lume
[28]

L’albero invecchia nell’albero, è l’estate.
L’uccello varca il canto dell’uccello ed evade.
Il rosso delle vesti illumina e sperde lontano,
in cielo, i carreggi del dolore antico.

Oh fragile paese,
come la fiamma di un lume recato,
prossimo il sonno nelle linfa del mondo,
semplice il pulsare dell’anima condivisa.

Ami anche tu l’istante in cui il lume chiaro
Scolora sognando nel giorno.
Lo sai, è l’oscuro del tuo cuore a guarire,
la barca raggiunge la riva, e cade.


E chiudiamo gli occhi al suono degli uccelli che parlano tra loro nella luce della sera e sembrano dirci un brusio lontano:

La luce della sera
[29]

Sera,
Uccelli che parlano tra loro, indefiniti,
che si mordono, luce.
La mano si è mossa sul fianco deserto.

Noi siamo immobili da tanto tempo.
Parliamo a voce bassa.
E il tempo intorno come colore a chiazze.



La nostra lettura di Bonnefoy si sta concludendo, abbiamo descritto il suo lento percorso nella parola e sulla parola, ed in essa abbiamo intravisto l’Oltre di un reale de-mistificato, abbiamo intuito, epifanica rivelazione, il mondo della vita in cui l’uomo è immerso, libero da sustruzioni, idealizzazioni e, soprattutto, illusioni consolatorie
[30]. Chi legge queste nostre pagine avrà probabilmente intuito quanta affinità memetica vi sia tra la riflessione fenomenologica di Bonnefoy e il sostrato filosofico su cui poggia tutto il Connettivismo, sarà senza dubbio più chiaro che lo scandaloso intento dichiarato ad incipit di questa nostra “Ermetica ermeneutica” sia prossimo al suo raggiungimento e di come, maliziosamente, si sia fatta storiografia del contemporaneo, esegesi del presente.
Non ci resta che accennare all’ultima opera di Bonnefoy, edita in Francia nel 2001 e giunta in Italia (sfortunatamente senza nessun apparato critico a margine) nell’agosto del 2007 per la collana “Lo Specchio” della Mondadori.
Ne “Le assi curve” il percorso di Bonnefoy raggiunge il suo pieno, luminoso, traguardo in un testo poetico che a differenza di “Ieri deserto regnante” e “Pietra scritta” è senza dubbio di più facile lettura, senza tuttavia perdere un briciolo del potere gnoseologico della parola che ancora rappresenta il senso stesso della poesia per Bonnefoy.
Vi è ne “Le assi curve” un sentimento nuovo, non presente nelle precedenti produzioni del poeta francese, una sensazione di felicità, di diffusa gioia, lontana è l’angoscia di “Douve”, lontani i pericoli della “concettualizzazione”, qui v’è solo il piacere di dire e di lasciare la parola libera di conoscere, senza freni, senza briglie, senza controllo.
Vi è nelle pagine la consapevolezza della “bellezza” che è (keatsiana memoria) sempre e solo “Verità”.

Sognare: che la bellezza
sia verità, la stessa
evidenza, un bambino
che avanza, stupito, sotto una pergola.

Si drizza e, felice
Di tanta luce,
tende la mano per cogliere
il rosso grappolo.

Bonnefoy, sulla soglia della vecchiaia torna bambino e si stupisce ancora una volta della tanta luce che abbaglia il mondo oltre le illusioni, che rischiara l’Oltre.

Concludiamo allora questa nostra lunga disamina con la citazione di un brano tratto dalla seconda poesia della sezione “L’inganno delle parole” presente nella raccolta “Le assi curve”; qui Bonnefoy fa la sua personale dichiarazione d’amore alla poesia, il suo urlo orgoglioso contro chi non comprende, chi gretto non capisce, è l’invocazione amorosa ed ammirata al potere che nascosto giace nella parola della poesia:

“Oh, Poesia
non posso impedirmi di chiamarti
con il tuo nome che non si ama più tra quelli che errano
oggi tra le rovine delle parole,

(…)

Lo faccio, confidando che la memoria,
insegnando le sue parole semplici a quelli che cercano
di fare essere il senso malgrado l’enigma,
farà decifrare loro, sulle sue grandi pagine,
il tuo nome uno e molteplice, in cui arderanno
in silenzio, un fuoco chiaro,
i sarmenti dei loro dubbi e delle loro paure.
[31]


L’ermetica ermeneutica è ora svelata, manifesta e ciò che appariva delirante e folle sorge ora agli occhi del lettore evidente, chiaro e lampante: Bonnefoy parla a coloro che “cercano di fare essere il senso malgrado l’enigma”, Bonnefoy parla ai Connettivisti.

Bonnefoy parla come un poeta connettivista.

Bonnefoy è, senza scandali, un autore connettivista.


(Un ringraziamento a Lorena Zaccagnino il cui saggio, “Yves Bonnefoy, un poeta fenomenologo” è stato fonte di costante ispirazione e di influenza diretta per la stesura di queste pagine)




Logos
01\01\2008




Biografia e bibliografia essenziale di Yves Bonnefoy


Yves Bonnefoy (Tours, 1923), professore emerito di Studi comparati della funzione poetica al Collège de France di Parigi, è poeta, prosatore, traduttore e saggista fra i maggiori del Secondo Novecento. Ha tradotto Shakespeare, Donne, Keats, Yeats, Petrarca, Leopardi ed è autore di studi fondamentali sulla poetica e l’arte compresa fra il primo Rinascimento e l’epoca contemporanea. Massimo poeta francese vivente ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali. Le sue opere principali sono apparse presso alcuni dei maggiori editori italiani. Il suo volume Tutte le poesie è in preparazione, a cura di Fabio Scotto, nei Meridiani Mondadori. Bibliografia Sintetica: L’Improbabile, Sellerio, 1982. L’impossibile e la libertà. Saggio su Rimbaud, Marietti, 1988. Lo sguardo per iscritto. Saggi sull’arte del Novecento, Le Lettere, 2000. Trattato del pianista, Archinto, 2000. Seguendo un fuoco. Poesie scelte 1953-2001, Crocetti, 2003. Osservazioni sullo sguardo, Donzelli, 2003. Il disordine. Frammenti, San Marco dei Giustiniani, 2004. L’Entroterra, Donzelli, 2004. Ieri deserto regnante seguito da Pietra scritta, Guanda, 2005. La civiltà delle immagini. Pittori e poeti d’Italia, Donzelli, 2005. La comunità dei traduttori, Sellerio, 2005. Terre intraviste. Poesie 1953-2006, Edizioni del Leone, 2006. Goya, le pitture nere, Donzelli, 2006. Le assi curve, Mondadori 2007







[1] Molte sono le ragioni e i perché che soggiacciono a questa scelta della SF, ma senza dubbio la principale è l’origine tecnica-scientifica del genere che mal si accorda con una forma espressiva evocativa e anti-descrittiva come la poesia.
[2] La prima versione del Manifesto Connettivista è a questo proposito rivelatrice.
[3] Sunset Boulevard di Giovanni De Matteo, NeXT numero zero.
[4] Connected di Sandro Battisti, NeXT Iterazione uno.
[5] Nuvole Basse, di Marco Milano, NeXT Iterazione uno.
[6] Ovvero di indagine originaria del reale.
[7] Non possiamo qui non citare uno dei testi fondamentali di Haruki Murakami: “L’Uccello che girava le viti del mondo” in cui il pozzo riveste proprio questa funzione di abbandono del reale illusorio e di passaggio di comunicazione con un aldilà ulteriore e rivelatore di sensi altrimenti nascosti.
[8] Termine mutuato nel significato che ne dà Edmond Husserl nella “Crisi delle Scienze Europee e la Fenomenologia Trascendentale”
[9] O anche il “Mondo delle Madri” di Gothiana memoria.
[10] Ancora Edmond Husserl, “Crisi delle Scienze Europee e la Fenomenologia Trascendentale”
[11] “Movimento e immobilità di Douve” – Yves Bonnefoy – Giulio Einaudi Editore
[12] Bonnefoy è autore anche di saggi, testi in prosa e opere teatrali ma che qui non verranno prese in considerazione.
[13] “Ieri deserto regnane seguito da Pietra scritta” – Yves Bonnefoy – Guanda Editore
[14] “Le assi curve” – Yves Bonnefoy – Mondadori Editore
[15] Termine francese introducile che indica: acqua morta, acqua melmosa ma che Bonnefoy usa come nome proprio riferentesi ad una presunta e sconosciuta “altra”.
[16] Esperienza vissuta.
[17] “Movimento e immobilità di Douve” – pag. 47
[18] Ibidem, pag. 51.
[19] Lorena Zaccagnino, “Yves Bonnefoy, un poeta fenomelogo” – Fonte Internet
[20] Ibidem , pag. 163
[21] E la presente esegesi è la prova del successo dell’operazione di Douve.
[22] Introduzione all’edizione italiana di “Ieri deserto regnate” – Yves Bonnefoy (il passo rivela la piena conoscenza della filosofia di De Saussure da parte di Bonnefoy).
[23] Introduzione a “Ieri deserto regnate” – Yves Bonnefoy – pag. 9
[24] “Ieri Deserto Regnante” – pag. 73
[25] Ibidem, pag. 135
[26] Ibidem , pag. 35
[27] “Pietra scritta”, pag. 199
[28] Ibidem, pag. 227.
[29] Ibidem , pag. 239.
[30] Come sarebbe facile qui accostare la riflessione esistenziale di Albert Camus.
[31] “Le assi curve”, pag. 131

4 Comments:

Blogger Logos said...

Ecco l'incipit di una riflessione appena conclusa sulla poetica connettvista, e l'inaugurazione ufficiale della mia personale "ermetica ermenueutica".
Logos

6:01 PM  
Anonymous Anonimo said...

sarà una gran cosa. soddisfatto di avertela chiesta.

6:50 PM  
Blogger Logos said...

Grazie Zoon, ora la lascio un attimo riposare, la rivedo e te la mando.
Buon anno ancora.
Noi SIAMO tutto.
Logos

8:08 PM  
Anonymous Anonimo said...

M'inchino alla tua prosa filosofica, mon ami...
La trovo affascinante e scorrevole. Molto chiara anche per chi, come me, con il Connettivismo ha un approccio soltanto "post"umano.
:-)

Ti abbraccio forte.
A presto!

L.

8:02 PM  

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