27 maggio 2008

La Roccia Rossa

Pensa a Phleba (7)
La roccia rossa spuntò all’orizzonte mentre Phleba stava sonnecchiando. Gli arti inferiori artificiali avanzavano nel deserto senza il controllo cosciente dei gangli nervosi e del cervelletto. Un centro di controllo del movimento, tubero di nanotecnologici collegamenti, consentiva alle gambe di avanzare meccanicamente, passo dopo passo. I sensori esterni della tuta offrivano una sufficiente protezione contro eventuali imprevisti o inaspettate minacce.
Phleba aveva chiuso gli occhi e si lasciava cullare dal ritmo lento della camminata, si abbandonò ad un sonno leggero e senza sogni. Quasi si illuse di non essere stato abbandonato sul mondo e si lasciò semplicemente trasportare.
Fu il bulbo destro ad accorgersi della roccia rossa che spuntava verso l’orizzonte. Senza svegliare Phleba autoregolò lo zoom a 100x e scattò qualche fotografia che salvò sul proprio supporto di memoria, avrebbe richiamato le immagini all’eventuale comando di Phleba. Intanto gli arti continuavano ad avanzare e la direzione che avevano preso nel caotico nulla del deserto era quella che portava dritta dritta alla roccia rossa là in fondo.
A due chilometri in linea d’aria dalla roccia rossa Phleba si scosse. Tutti i servosensori erano in fibrillazione, led invisibili si accendevano e spegnevano, passaggi neuronali accompagnati da impulsi al silicio vorticavano nel talamo, una strisciante sensazione di percolo gli correva lungo la schiena. Stava succedendo qualcosa.
Richiamò a sé le immagini registrate dal bulbo oculare nell’ultima mezz’ora e vide la roccia rossa. Niente di strano in apparenza. Una semplice cumulo che spuntava dal deserto. Osservò in presa diretta l’ammasso roccioso intensificando lo zoom a 250x ma a parte la superficie gibbosa della pietra non vide nulla. Amplificò i sensori della tuta protettiva alla ricerca di tracce di organismi viventi, battiti cardiaci, calore corporeo, odore feromonico, linguaggi semicodificabili ma non trovò nulla. Nel raggio di miglia non vi era traccia di alcuna creatura viva, tutto era morto. Tutto tranne se stesso pensò Phleba.
E allora perché i servoricettori sembravano impazziti? Cosa stavano rilevando? Perché non riusciva ad interagire con essi?
Phleba si fece cauto. Zigzagando si avvicinò alla roccia rossa, i ricettori esterni attivati alla massima sensibilità. Continuava a non captare nulla ma non si fidava. Qualcosa doveva nascondersi intorno alla roccia rossa. Ma cosa?
Il cumulo ora incombeva su di lui, alto una decina di metri, la forma a ricordare una struttura piramidale, frastagliata, confusa. Di soppiatto si guardò in giro, niente, ancora nulla. Silenzio, desolazione, deserto. Null’altro. Solo la roccia rossa.
Si avvicinò sino quasi a sfiorarne la superficie, allungò la mano ma non toccò la parete ruvida. Immobile lasciò che il tempo si fermasse, lentamente cercò di rimanere ancorato al singolo momento di un presente dilatato, tentò di comprendere il senso stesso della roccia rossa. Nessun significato. La roccia rossa restava muta e in quel deserto in cui era immerso non vi era altro suono che il trillo fastidioso dei led degli allarmi della tuta. Dov’era il pericolo?
Phleba si sedette, era stanco. Stanco di quel mondo, stanco del deserto che lo circondava, stanco della roccia rossa senza senso che aveva di fronte, stanco di sé stesso.
Sprofondò nella sabbia rossastra, la tuta protettiva regolò la percezione della temperatura nelle zone di contatto con il suolo bollente e Phleba non si rese neppure conto di quanto scottasse il terreno sotto di lui.
Le gambe piegate, la schiena poggiata alla roccia rossa Phleba alzò la mano destra e la mise davanti agli occhi a mò di visiera, guardò ovunque ma non vide nulla. Il mare viola dei lillà era ormai lontano chilometri e ovunque era sabbia e rocce infuocate dal sole invisibile che dominava l’orizzonte.
Qualcosa però continuava a sembrargli sbagliato, non erano solo i led impazziti a trasmettergli una vacua percezione di pericolo, c’era altro. Una sensazione che veniva da dentro, dal suo profondo. Un disagio, una senso di stranezza, di inganno. Di falsità. Phleba si grattò il capo e i pochi capelli radi protetti dalla tuta e dal berretto dell’ordine monastico. Soffocò un’imprecazione e fece per alzarsi quando se ne accorse. Di fronte a lui qualcosa di sbagliato. L’ombra. Phleba era immerso in un ombra densa, scura, un grigio cupo, una pennellata triste sul manto rosso del deserto. Si alzò di scatto e corse intorno alla roccia rossa. L’intera base aveva un perimetro non più grande di una ventina di metri e Phleba non ci mise molto a compierlo tutto. Ecco l’inganno.
L’aveva avuto davanti a sé per tutto il tempo ma non se ne era accorto, cercava altro, cercava un oggetto, un essere vivente, cercava una minaccia vera, concreta. Un’ipostasi contro cui lottare, il suo personale mulino a vento, non poteva aspettarsi quello. Lo scempio, l’ennesimo eccidio di ogni regola, postulati infranti, assiomi insultati, naturalità immonda.
L’ombra avvolgeva la roccia come un anello, un perfetto cerchio, che si estendeva oltre la base della roccia rossa per pochi metri, una circonferenza geometricamente impeccabile, come una dipinto di qualche antico maestro o una computazione videografica precisa. Sostruzione ideale di un pensiero puramente matematico.
Phleba era immerso nell’ombra grigia della roccia rossa e guardò il cielo alla ricerca di un sole a perpendicolo che potesse spiegare, che potesse far supporre una vaga, illusoria ma razionale, risposta. Nessun sole. La luca sembrava venire da ogni punto del cielo, irradiata da una miriade di infinitesimali invisibili soli. Non vi era nessuna empirica consolazione.
Phleba si accasciò a terra. Stremato. L’abominio innaturale che lo circondava gli toglieva le forze, lo spossava, la sua mente non era abituata a ciò che stava affrontando; solo caos, caoticità, irrealtà. Lì davanti ai suoi occhi. Sempiterna impossibilità. Pensò alla sua ombra, all’ombra che al mattino lo seguiva e alla sera lo precedeva, quasi venendogli incontro. Pensò alla sua forma che tante volte aveva sbadatamente osservato dipinta per terra e sorrise. La sua ombra, cangiante, pesante e leggera, chiara e scura, sottomessa ai capricci del tempo, delle nuvole nel cielo, della forza del sole, la sua imperfetta ombra era la prova, urlata, manifesta, vera, vera, vera, che lui era una creatura normale, ontologicamente sana, reale. E non un abominio. E non l’abominio che intorno trionfava

Etichette:

1 Comments:

Anonymous Anonimo said...

molto intiresno, grazie

5:41 AM  

Posta un commento

<< Home


adopt your own virtual pet!