02 maggio 2008

La Vestizione

Pensa a Phleba (3)
Le note ristagnavano dense nella sala della vestizione. Phleba aveva gli occhi chiusi e lasciò che i canti antichi delle pianure delle sue terre gli scorressero addosso, lo toccassero, lo accarezzassero. Mantra solidi di mistiche tradizioni.
Si osservò riflesso nel grande specchio che decorava la sala. Nudo fece scorrere gli occhi sulle cicatrici di altre battaglie e sulle giunture di contatto fra la sua parte biologica e quella metallica, ne ammirò la perfezione. Contemplò il suo essere organismo semi metallizzato; le gambe, le bracca, alcune parti del torace erano state sostitute, la carne dimenticata e il metallo splendente, assoluto. Eterno.
Ripensò a riti, alle cerimonie che avevano attraversato la sua infanzia, religioso e sociale cammino verso la metallizzazione; riconosciuta e condivisa autobiografia nei dettami della memoria collettiva di massa. Riti di passaggio verso la totale appartenenza alla sua specie, alla sua gente. Certificazione dell’identificazione.
Nella metallizzazione progressiva del suo corpo, nella perdita delle sue radici biologiche, nel trionfo del metallo entrava nella comunità e veniva accettato, riconosciuto. Smetteva l’insopportabile solitudine della carne.
Phleba si chiese dove fosse la comunità ora, e quasi la invocò. Ma nessuno sarebbe venuto a salvarlo. Scacciò dalla mente quei pensieri e si concentrò su sé stesso, su ciò che doveva fare. E iniziò la vestizione.
Con un gesto attento, lirico nella sua tragicità estrasse dal piccolo cassetto incavato nella paratia della nave un fagotto. Lentamente lo srotolò e lasciò che la tuta di protezione cominciasse a respirare. E cominciasse a riconoscerlo.
Fu un attimo. La bianca superficie di stoffa parve scuotersi. Un leggero tremolio. Indistinto, come un alito di un vento che da nessuna parte pareva provenire. Tra le dita di Phleba la tuta presa vita. Si estese, si deformò, si contorse in un spasmo che ricordava più una morte che una nascita. Phleba restò immobile, le gambe muscolose, artificiali, salde e leggermente divaricate, le braccia distese a sorreggere la tuta e tra le labbra un motivo, una canto sussurrato, vago, così flebile da restare silenzioso ma troppo ornato per essere ricordato. Forse una preghiera.
La tuta di protezione si scosse in un ultimo, straziante rantolo e si disfece. Il tessuto trasmutò. Si fece un liquido oleoso, viscido di amniotica memoria e, con un gorgoglio disumano, si avvinghiò alle braccia di Phleba e senza indugi, senza esitazioni s’appiccò al corpo semi metallico dell’uomo. Prima le braccia, il tronco, le gambe, i piedi, il collo, la nuca e, con un ultimo soffocante slancio, la testa, il viso, gli occhi, le narici. La bocca. L’urlo di dolore di Phleba, la percezione della morte restò impressa sul liquido che andava solidificandosi. Un’istantanea scultura, un fotogramma tridimensionale sul volto deformato dalla paura, maschera violenta di statica agonia.
La tuta si compattò e aderì perfettamente al corpo di Phleba, seconda pelle di una seconda vita enormemente potenziata, evoluzione subitanea a stati ulteriori nella catena verso la deificazione. La tuta era Phleba e Phleba era la tuta, fusi erano una nuova creatura. Perfetta e pressoché immortale.
Ma per un lungo momento Phleba pensò di morire.
Ogni volta pensava di morire.
La tuta ricordava Phleba; il suo stesso codice genetico, ogni singola fibra del DNA era impressa nanotecnologicamente nella trama del tessuto. Ogni millimetro dell’ordito era una accurata riproduzione del menoma di Phleba. La tuta lo sapeva. La tuta non l’avrebbe mai dimenticato. La tuta era la compagna eterna di Phleba. La sua condanna infinita.
Ogni volta che la indossava Phleba temeva di morire.
Temeva che la tuta lo rifiutasse, forse per una segreta e inconfessata colpa, forse per una follia improvvisa e malvagia. L’attimo. L’istante tra il momento in cui la tuta lo possedeva e quando iniziava a respirare per lui, in quel lungo secondo di silenzio tra le pareti solide del tessuto bianco cristallizzato, Phleba moriva. E ogni volta rinasceva. Risurrezione reiterata in una meccanicistica assenza di dubbi. Nuova vita, vecchia morte e ancora vita.
La morte gli restava addosso. Come un ricordo troppo vivido che non riusciva a dimenticare.

- Capitano Phleba, cinque minuti al go-live.
- Sono pronto pilota. Sto scendendo.
- Al suo placet apro.
- Ricevuto. Al mio placet.
- Resto on-line, Capitano. Buona fortuna.
- Grazie pilota.

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