29 giugno 2008

Frammenti di tempo essiccati

Pensa a Phleba (12)
Phleba continuò il cammino all’interno delle Montagne, si inerpicò lungo stretti sentieri, passatoie artificiali, esili viottoli a strapiombo su abissi che parevano senza fine. Il vento fendeva l’aria e scolpiva la roccia ritagliando sottili appigli a cui Phleba si aggrappava disperatamente per andare avanti, faticosamente.
Il bianco del granito non cambiava e le venature serpeggianti si facevano sempre più contorte, il delirio urlava intorno ai suoi stanchi passi; non v’era alcun sole nel cielo innaturale del pianeta ma la luce era accecante e Phleba sentiva il caldo torrido persino attraverso la tuta protettiva. Gocce di sudore gli colavano sul viso, le seguiva scendere lungo le guance e cadere sotto il mento dove venivano minuziosamente raccolte dalla tuta che provvedeva a riciclarle e rimetterle nell’organismo, depurate di sali inutili e delle scorie corporee. Phleba aveva sete, l’acqua era un desiderio vivo, costante, perenne, un dolore, una sofferenza riverberata in ogni cellula del suo corpo, coro stonato di disperazione.
Intorno agli stretti sentieri e alle gradinate scavate dal vento tagliente Phleba non vedeva nulla se non il bianco delle montagne e il rossiccio della sabbia che calpestava ad ogni passo. Solo roccia. Non c’era nulla se non roccia e polvere di pietre. Phleba continuava ad avanzare.
Dentro le viscere delle Montagne.
Giunse allo spiazzo dopo aver voltato uno stretto angolo, le mani aggrappate furiosamente ad uno spuntone di roccia aguzzo come una lama e gli stivali in un precario equilibrio su pezzi di pietra malamente intagliati da bizzosi agenti atmosferici. Phleba mise piede sulla spianata apertasi di fronte a lui e per un lungo momento restò immobile a godersi la stabilità della pietra, l’equilibrio concreto di una radura tagliata nelle montagne, il miracolo di una stabilità orizzontale contro l’effimero richiamo verticale dell’abisso.
Respirò a lungo, stanco, il fiato pesante, neppure il severo allenamento religioso a cui si sottoponeva da anni riusciva a lenire la fatica della scalata sulle montagne della follia. Neppure il potenziamento metallico del suo corpo e la post-umanità della sua tuta offrivano a Phleba una consolazione contro il dolore dei muscoli, lo stridore delle ossa, il sudore, il desiderio di acqua, il silenzio, la solitudine. L’insensatezza del cammino nel mondo alienato e insano rimaneva indifferente alla sua postumanità. Le parti metalliche, la tuta protettiva, ogni impianto neuroaddizionato dell’encefalo, ogni altro singolo artificio impiantatogli nel corpo non erano che vani strumenti, utensili inutili e inutilizzabili di fronte all’assurdo che trionfava sul pianeta desolato e che ovunque urlava il suo dominio.
Phleba era un semplice essere vivente, creatura solitaria di fronte al mistero e alla insensata agonia della ragione. Nudo nella sua unicità di fronte ad un’ontologia contaminata.
Osservò il luogo in cui era giunto, la piana era larga una decina di metri, racchiusa da pareti di granito alte alcuni metri, corruzione della perfezione rocciosa delle montagne, o forse una tregua. Fece un passo verso il centro della distesa e di fronte a sé notò qualcosa di insolito. Sulla parete a nord sembravano esserci incisi dei tratti, dei segni. Phleba aggrottò la fronte e regolò lo zoom dei bulbi oculari a 50x. Osservò le incisioni. Si guardò intorno cercando altre tracce del cesello ma non vide nulla, zoomò a 100x ma a parte la parete intagliata lo spiazzo non presentava altre stranezze, solo identiche pareti granitiche. Si avvicinò e sfiorò le incisioni. La tuta registrava furiosamente ogni dato. Miriadi di gigabite venivano archiviati sul sopporto bioware, mitocondri straripanti informazioni catalogate e settate.
Osservò. Sul muro di granito contemplò frammenti di tempo essiccati, forme attonite di irreali creature, paesaggi mai neppure fantasticati, invocazioni silenziose di bocche innaturali, deliri strascicati di disumana disperazione.
Minuziosi intarsi, bassorilievi chini verso il basso sporgevano dalla superficie della pietra, disordine di fogge incise nella roccia da artisti deliranti e folli. Phleba scrutò la parete ma non capì, non riuscì a dar neppur senso a ciò che i suoi bulbi registravano, tutto rimaneva semplice allucinazione, quasi che fosse frutto della sua mente sovraeccitata. Si chiese per un attimo se la parete che aveva di fronte fosse davvero reale o solo un ennesimo parto della sua mente contaminata ma non riuscì a darsi alcuna risposta. Poi giunse il mormorio. Un suono alto nell’aria, uno stormire di materna lamentazione e Phleba guardò in alto e comprese che non v’era solitudine nella Montagne.
Li vide. Rosse facce arcigne ghignavano e ringhiavano fissandolo dall’alto.

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