01 giugno 2008

Gli Dei Nascosti

Pensa a Phleba (8)
Restò seduto e fra le dita fece scorrere manciate di sabbia, le sentiva sul palmo della mano nonostante la protezione della tuta, ne sentiva il calore, la leggera ruvidezza. Phleba osservò le piccole montagne di sabbia che si formavano dove faceva cadere il rivolo di sabbia dal suo pugno. Si divertì a farne una qui, una là, e poi ancora una qui. Non pensava ad altro se non a quel gioco che si era inventato, come un bambino sembrava non curarsi di nulla, solo del suo nuovo passatempo. Ancora piccole montagne, ovunque piccole montagne e il tempo scorreva, nessun tramonto si profilava all’orizzonte e l’ombra della roccia rossa restava immobile, perfetta circonferenza ideale.
Poi venne l’urlo. E dopo l’urlo migliaia di altre urla. E grida disperate. E digrignate, sbavante, colante follia di latrati vocianti.
Urla. E ancora urla. Ovunque intorno alla roccia rossa urla.
Phleba si levò improvviso, tra le dita ancora una manciata di sabbia calda, scosso, sorpreso. Si guardò intorno ma non v’era nulla. Attivò i neurosensori esterni ma non registrarono nulla. In quel deserto vi era solo lui. Lui e la roccia rossa. Chi urlava?
Aprì le mani. Si guardò le palme sporche della polvere rossa del deserto. E vide.
Vide il terrore, vide la fine stessa dell’esistenza.
Vide il terrore.
Vide il terrore.
Phleba impazzì. Per un lungo momento la coscienza di Phleba implose e poi esplose in miliardi di frantumi incoscienti. Niente, nessuno poteva sopportare il solo pensiero di ciò che Phleba stava osservando sul palmo delle mani, tra i granelli di sabbia e la polvere rossa.
Phleba morì.
Perché solo la morte istantanea avrebbe potuto salvarlo.
La tuta registrò lo sbalzo endocrino, livelli oltre la soglia della normalità, la normalità stessa frantumata in esondazioni di adrenalina e intrugli ormonici che il cervello biologico di Phleba stava secernendo senza controllo. La tuta protettiva non capiva, alla tuta non importavano le ragioni dello sbalzo, la tuta esisteva solo per proteggere Phleba, quel preciso e vivente DNA. E l’unico modo per difendere Phleba era ucciderlo, interrompere artificialmente le sue neurofunzioni principali, stoppare la sua attività celebrale superficiale e indurlo ad una morte apparente. All’oblio.
Non fu complesso per la tuta stimolare i centri nervosi di Phleba, un singolo, prolungato impulso artificiale e le ghiandole sintetiche impiantate in prossimità dell’ipotalamo cominciarono a spremersi secernendo un liquido di colore nerastro, una bile cerebrale. Neuro inibitori clonati dal veleno di qualche serpente sperduto su un remoto pianeta periferico. L’effetto fu immediato.
Phleba si accasciò sul terreno rosso del deserto nell’ombra grigia e innaturale della roccia rossa, morente. L’attimo prima di decedere Phleba osservò per un ultima, folle, volta il palmo della mano e urlò. Urlo demente fra altre, infinite urla dementi che continuavano ad ammorbare il silenzio di quell’abominevole mondo.
Phleba vide. Il terrore.
Vide migliaia di divinità morire sul palmo della sua mano, dei nascosti dentro granelli di sabbia rossastra urlare la loro disperata agonia, creatori di mondi e di universi giacere ed imputridire in cumuli di sabbia, accatastati in una divina fossa comune senza nomi, senza religioni e senza venerazioni. Dei morti, divinità uccise da un’ombra perfetta e dal gioco infantile di un uomo solo.

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1 Comments:

Blogger Logos said...

Questo passo di "Pensa a Phleba" deve molto a Nicolò da Cusa (detto anche Nicolò Cusano), vescovo di Bressanone (Brixen) verso la fine del '400 e autore del libello "Deus Absconditus".
Logos

6:47 PM  

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