08 giugno 2008

La Città

Pensa a Phleba (9)
La Città si profilava all’orizzonte oltre un boschetto di alberi rinsecchiti e piegati su se stessi, rami sterili e accartocciati, tronchi svuotati da un vento maligno e nessuna foglia a ricordare la vita che lì non era mai stata.
Costruita sul fianco di una collina sembrava pendere da un lato, in bilico sull’orlo di un impensato baratro. Qualche casa bassa, vicoli di strade labrintiche, un campanile, altre torri o cime indefinite di monumenti dedicati a nessuno. Pareva posata lì dall’alto, quasi perfettamente calata dalle dita di un architetto onnipotente, demiurgo di schizofrenica creatività. Una leggera nebbia l’avvolgeva, come un manto cesellato, un mosaico di tessere opache, finemente accostate l’una all’atra, cesello maniacale di gradazioni di grigio. La Città era irreale, ennesima prova di un’ontologia depurata di ogni logicità quotidiana, parto surreale di un poeta delirante.
Phleba si fermò. Osservò oltre le cime degli alberi secchi della radura e rimase a contemplare oltre. La Città era stata uno dei primi centri urbani fotografati dai satelliti; erano passati ormai cent’anni dalle prime rilevazioni satellitari. Un ammasso indistinto di edifici accatastati l’uno sull’altro, metastasi in espansione geometrica. Phleba ricordava perfettamente la prima fotografia scattata, ritraeva poche case, costruzioni basse, semplici, i tetti rossi a spiovente, i muri di mattoni rossastri, una superficie di poche centinaia di metri quadrati. Bastò già la seconda fotografia a capire che anche la Città era manifestazione dell’immonda assurdità del pianeta. Le case erano aumentate, laddove prima vi erano piazze e parchi, comparivano ora edifici, grandi, imponenti, prepotenti, opprimenti. La proliferazione non si era più fermata, le case continuavano a sorgere, a crescere, a conquistare ogni singolo, minuto spazio vitale. Nessun abitante visibile, le costruzioni apparivano quasi sorgere da sole, come sbocciassero dal terreno, venefici funghi in un prato contaminato.
Solo le mura parevano essere il limite estremo dell’espansione, come se oltre quel confine la Città non potesse andare; confinata malignamente in poche centinaia di metri quadrati. La proliferazione era continuata, casa dopo casa, casa su casa, edifici che schiacciavano altri edifici e che a loro volta venivano calpestati da altre costruzioni. La dodecafonica ridda di un formicolante delirio di vita, desiderio di una insperata autoaffermazione; fame, feroce brama di autoconservazione.
La Città era una pustola che si nutriva di se stessa senza poter neppure spurgare il proprio fetido marciume. Phleba represse un brivido di disgusto e si incamminò verso la Città, il passo sempre più lento.
Erano passate diverse ore dalla sua morte, dal momento in cui la tuta di protezione l’aveva indotto ad uno stato di coma semi-controllato. Non ricordava molto di ciò che era successo, delle ragioni che avevano costretto la tuta ad un intervento così massiccio. Gli sembrava di ricordare un urlo, o forse migliaia di urla ma era più una sensazione, un groviglio nelle viscere. Phleba aveva la strana sensazione di essere stato per un lungo momento sul bordo stesso dell’universo, equilibrista goffo ad osservare l’abisso che si spalancava e lo invocava. Non avrebbe mai più potuto ricordare che cosa era realmente successo all’ombra della roccia rossa, durante il coma la tuta era l’aveva imbottito di composti organici modificati il cui unico scopo era stato colpire le sue sinapsi e cancellare, distruggere ogni possibile traccia memnonica di quanto accaduto. Gangli devastati, connessioni neuronali divelte, sinapsi bruciate da reticoli amminoacidi mutati, Phleba aveva perso il tempo stesso oltre che i ricordi, come non fosse mai esistito. Nessuna esperienza, nessun insegnamento. Solo la memoria organica della tuta tratteneva il dettaglio di ogni singolo secondo antecedente al coma, la tuta lo conservava dentro di sé, racchiuso nel nucleo cellulare di mitocondri di stoccaggio. L’informazione esisteva ma nessun mai ne avrebbe avuto accesso.
Prima che potesse rendersene conto, Phleba giunse all’ingresso della Città. Un sentiero polveroso e biancastro l’aveva portato al di sotto delle mura, le osservò da vicino. Alte, possenti, nere. Pietre scavate grossolanamente da una montagna che forse non esisteva più, granito lucido, massi disordinati accatastati gli uni sugli altri a formare una muraglia gibbosa, protuberanze caotiche. Di fronte a Phleba una grande porta, uno squarcio nella continuità delle mura, un foro i cui contorni sembravano intagliati minuziosamente nella roccia, arabeggiante ingresso al delirio.
Le mura si estendevano a vista d’occhio per centinaia di metri, Phleba non riuscì a capire se erano state costruite per impedire a qualcuno di entrare nella Città o per scongiurare che qualcosa ne fuoriuscisse. Erano anni che gli scienziati e i religiosi del suo ordine si interrogavano su cosa potesse contenere la Città, o su chi ne fossero gli abitanti. Nel decenni di osservazione satellitare non si era mai trovata la seppur minima traccia vitale, nessun uomo, niente di vivo, neppure un topo. Deserta, come il resto del pianeta anche la Città sembrava essere disabitata. Senza pensare a nulla Phleba attraversò la porta araba ed entrò nella Città.

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