11 giugno 2008

La Sepoltura dei Morti

Pensa a Phleba (10)
Conosceva la topografia della Città, la conosceva come si può conoscere la mappa di una Città che cresce continuamente, che prolifera di abitazioni sorte dal nulla e che scompaiono distrutte da altri edifici poche ore dopo.
Phelba era sulla strada principale della Città, una stradina stretta, larga poco più di un metro e intorno a lui case, costruzioni, palazzi, torri, mostruosi edifici che salivano ricurvi fino al cielo piegandosi sotto il loro stesso peso. La luce del sole quasi non riusciva a filtrare fino al suolo e tutto restava avvolto in un grigio cupo, come l’alba di un inverno cupo. Phleba avanzava esitante, i servo-sensori della tuta erano attivati ma non rivelavano nulla, inutile strumento della sua post-umanità in un mondo che nulla aveva di umano.
Camminò a lungo, la nebbia sembrava farsi più grigia, più densa e i contorni dei palazzi intorno si facevano indistinti, vaghi, come se fossero indecisi fra l’esistenza e la non esistenza, in perenne dubbio di fronte ad un uomo che avanzava.
Fu così che giunse al ponte e vide la folla. La folla dei Morti.
Phleba non riuscì a credere che la Morte tanti ne avesse presi, disfatti. Sospiri brevi, radi e la moltitudine continuava a camminare lungo il ponte scendendo dal centro della Città. Ognuno fissava gli occhi davanti, immobili sui propri piedi che andavano avanti, passo dopo passo, ripetutamente, incessantemente. Il Ponte era un unico serpente di cadaveri che lentamente, ciondolando, fluiva giù dalla collina, là in alto, dove c’era il cuore della Città.
Un campanile all’improvviso si mise a suonare, Phleba immobile contò i rintocchi, nove. E l’ultima ora fu suonata con un suono esanime, pesante, cimiteriale.
Phleba restò a margine della strada e senza riuscire a dire una parola osservò la folla passare e andare oltre, la vedeva perdersi, fiumana umana, dietro un angolo poco più in là, defluire lenta, indifferente a tutto. Esseri dalle sembianze umane mormoranti, metro dopo metro.
Nessuno fece caso a lui, neppure lo videro, e Phleba se ne restava al limitare, le braccia a penzoloni lungo il corpo, ad osservare e a chiedersi chi fossero, da dove venivano e perché non erano mai stati rilevati dal satellite. Gli sembrava impossibile, la folla formava una colonna lunga decine di chilometri, non poteva non essere stata vista dalle nanotelecamere dei satelliti geostazionari. Chi erano quelle creature?
Phleba interrogò i sensori esterni che risposeso ciò che lui già sapeva, erano cadaveri. Corpi di esseri umani che avanzavano, come non sapessero di essere defunti. E tutto intorno regnava l’assurdo.
Tentò con un braccio di afferrarne uno ma quello neppure si voltò e continuò a camminare, scivolando oltre. Provò ad urlare qualcosa, a richiamare la loro attenzione ma nessuno gli fece caso e Phleba restò solo, immobile sul ciglio della strada.
La folla era un mondo a parte, separato; Phleba capì che poteva solo osservarlo, poteva forse solo continuare a desiderare la condivisione di una comune esistenza, di un identico inebetito avanzare, di un perdersi in una comunità sorretta da illusioni venerate. Ma tutto questo non sarebbe stato altro che un sogno, una insana fantasia irrealizzabile. Phleba sapeva di essere solo un osservatore, una sorta di eremita e, dalla sua altura, silenzioso e solitario costretto ad osservare i cadaveri passare, eternamente sull’orlo dell’incertezza fra l’andare e il rimanere.
Phleba guardava i volti, tratti sconosciuti di essere umani, a volte ne intuiva l’origine, cercava di immaginare quale fosse il loro pianeta di provenienza, o quanto meno da quale sistema solare provenivano. Non era così difficile, Phleba aveva viaggiato molto e ormai sapeva riconoscere le caratteristiche di quasi tutte le razze umane sparse per la galassia. A volte erano macroscopiche differenze, altre volte solo sfumature della pelle o delle forma del naso, l’altezza, piuttosto che la corporatura. Minimi particolari testimoni di nascite lontane anni luce. Cacofoniche forme per raccontare un codice genetico pressoché identico.
Si ricordò delle guerre che aveva combattuto, delle trincee che aveva difeso, di ogni singolo colpo sparato dalle armi che aveva sin lì impugnato. Monaco, guerriero, mercante, Phleba si chiese che cosa fosse in quel momento. Esploratore? Condannato? Colpevole? Redento? O forse era solo un vagabondo dentro l’assurdo di un mondo che non comprendeva. Sorretto da un’ontologia deforme e deviata, lontana. Phleba pensò a sé come ad un confronto. La sua presenza su quel pianeta dove ogni cosa era guasta, desolata, era l’evidenza della deformazione, la normalità ontologica di Phleba urlava l’assurdo che in ogni luogo albergava. Non vi poteva essere comprensione alcuna fra Phleba e quella landa desolata. Irriducibilità assoluta. Phleba osservò la folla che continuava a fluire, esseri completamente diversi che parevano identici nel loro defluire oltre l’angolo là in fondo. Indistinguibili l’uno con l’altro. E Phleba pensò che su quel ponte, ai margini di una strada stretta, l’unica creatura diversa, estranea, aliena era lui.
Chinò il capo e smise di guardare.
Alzò gli occhi e vide Stetson. Era tra la folla che fluiva. Pochi metri indietro, stava scendendo trascinando il passo, lentamente come facevano gli altri cadaveri. Lo riconobbe subito. Stetson, il guardiamarina Stetson. Erano stati commilitoni, avevano prestato servizio su così tante navi che Phleba non se ne ricorda neppure più. Battaglie, guerre, invasioni, assedi, Stetson era stato un buon soldato e Phleba l’aveva spesso voluto nelle sue truppe scelte per le missioni più difficili. Stetson che era morto su un pianetucolo insignificante difendendo un’inutile postazione militare dai predoni locali, una banda di straccioni armati di armi a percussione. Erano passati venti, o forse venticinque anni, ed ora Stetson era lì, nella folla su quel pianeta assurdo. Cadavere che scendeva lungo un ponte in una Città di metastasi.
Era di fronte a lui, camminava fissando i piedi consumati, Phleba allungò un braccio, come per volerlo chiamare, un filo di voce.

- Stetson.
E Stetson si voltò e riconobbe Phleba. Lo fissò e con occhi spenti parlò.

- Phleba! Sei tu? Tu che eri con me sulle navi, a Mylae? Ti ricordi? E quel cadavere che l’anno scorso hai seminato in giardino ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno? O il gelo improvviso ha danneggiato l’aiuola? Oh… mi raccomando… tieni il cane lontano se no con le sue unghie lo dissotterrerà!

E Stetson fu trascinato via, le sue parole si persero nella folla che incessante defluiva via. Phleba non lo rincorse. Restò ancora immobile, osservando il vecchio amico perdersi dietro l’angolo. Stetson aveva smesso di guardarlo, continuava a borbottare fissando davanti a sé, camminando, passo dopo passo.
Phleba si voltò, prese un’altra direzione e si affrettò ad uscire dalla Città. La Città che era disabitata.

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