15 giugno 2008

Le Montagne

Pensa a Phleba (11)
La strada si snodava su per le montagne, montagne di roccia senz’acqua, roccia e nient’altro, lì non v’era acqua ma solo roccia, roccia e una strada polverosa che saliva verso le cime. Cime sempre troppo lontane. Phleba proseguiva lungo lo stretto sentiero sabbioso, intorno pareti di marmo, granitiche, possenti. Ovunque venature sottili a dipingere serpenti orripilanti accovacciati l’uno sull’altro, grovigli brulicanti di bisbigli e sibili. L’orrore si rinnovava ad ogni passo e intorno trionfava.
Le montagne erano una tappa obbligata del suo percorso sul pianeta desolato. Phleba ricordava quando la corteccia molle del suo encefalo aveva ricevuto l’impulso wetware del computer di bordo della nave su cui stava viaggiando. Era in orbita intorno alla stazione spaziale mercantile in attesa di concludere uno scambio di schiavi sub-umani, denaro sonante per le casse dell’Ordine. Improvvisa era arrivata la comunicazione. Non lo aveva creduto possibile. Quanto tempo era passato da quel segnale? Mesi, o forse una vita intera. Nel wet-file vi era dettagliatamente e minuziosamente descritta la sua nuova missione. La sua ultima missione. L’esplorazione del pianeta sbagliato, il cammino lì dove l’ontologia si accartocciava su se stessa formando grumi di assurdità concreta, viva, pulsante. Indagine di ciò che era per definizione inindagabile, razionalizzazione di un errore tanto profondo da raggiungere il fulcro stesso della realtà facendosene beffe.
Il cammino che il wet-file descriveva era semplice, il tono come sempre religiosamente formale. Tiresia, il Priore del monastero fortificato a cui Phleba obbediva, non aveva fatto trasparire nessuna emozione. Partenza prevista a sette cicli standard, esplorazione individuale, tappe obbligate: la Città, le Montagne e, infine, il Fiume, sopravvivenza dell’esploratore non prioritaria. Missione di recupero del corpo dell’esploratore e della tuta protettiva già pianificata. Importante: ogni dato raccolto veniva salvato sulla base bio-storage delle fibre della tuta, ogni informazione catalogata come riservata, la priorità era la salvaguardia della tuta e di tutto il materiale informativo raccolto dall’esploratore. Il Priore Tiresia si era preso pure la briga di salutarlo sbrigativamente. Null’altro era stato aggiunto.
Phleba si era chiesto tante volte perché proprio lui. Era stato un soldato e un monaco fedele all’Ordine per decenni, aveva servito in mille battaglie, aveva comandato plotoni militarizzati di incursione bellica, aveva gestito burocraticamente lo sterminio di stirpi sgradite all’Ordine, si era fatto carico di genocidi di razze aliene non compatibili con alcuna dottrina religiosa. Era sempre stato un buon soldato e un buon monaco. Aveva fatto profitto nelle sue attività di mercante e aveva versato nelle casse dell’Ordine sino all’ultimo guadagno, aveva viaggiato e sempre aveva riportato con sé schiave da donare alla lussuria dei suoi superiori. Aveva servito ed obbedito umilmente, perché allora lui?
Phleba sapeva che poco importavano le ragioni e le spiegazioni politiche, la ribellione non era possibile, il rifiuto semplicemente impensabile. L’assoggettamento, la sottomissione, la perdita stessa dell’identità individuale, la distruzione di ogni capacità di desiderio, queste le regole della vita monastica a cui era stato destinato.
Dopo sette cicli standard dal momento della ricezione cortecciale del wet-file Phleba era partito a bordo della nave. Il pilota l’aveva condotto sul pianeta guasto ed ora era lì, immerso nella desolazione insensata di montagne crudeli.
Phleba urlò. Un urlo senza significato, arcaica forma di ribellione, protesta insensata contro ogni cosa lo circondava. Il caldo massacrante che la tuta protettiva faticava a lenire con l’alterazione ormonale dei ricettori, la solitudine, l’assurdo strisciante che avvolgeva tutto e che pian piano si stava facendo strada dentro di lui, nella sua mente. Le voci, le mille voci che sembrava sentire dai recessi del suo cranio, grida e pianti, echi di un palazzo costruito per essere una prigione. In lontananza un tuono, un tonfo sordo che giungeva direttamente dall’orizzonte, un poco oltre le cime appuntite delle montagne. Phleba si volse in quella direzione cercando di scorgere qualcosa ma là solo luoghi pietrosi.
Scosse il capo e proseguì.
La tuta raccoglieva informazioni e Phleba la lasciava lavorare. Dati, affannosa ricerca di dati che potessero spiegare, analiticamente descrivere ciò che popolava quel deserto pianeta di ontologia deforme. Phleba non era nulla, lo sapeva bene. Baluardo a tempo di una realtà non contaminata. Doveva solo proseguire, camminare, andare oltre e consentire alla tuta di raccogliere informazioni, di immagazzinare, schedulare, stoccare; offrire materiale sufficiente a spiegare l’orrore che ogni cosa lì avvolgeva. Sorrise Phleba e pensò all’inutilità del suo compito, alla vanità di chi voleva dar ragione dell’irragionevole, alla tracotanza di dar senso all’errore di dio. Nessun dato avrebbe svelato il mistero di quel pianeta.
Intanto Phleba avanzava, lungo il cunicolo scavato da venti antichi dentro le stesse montagne, i piedi nella sabbia, polvere di montagne, e il sudore secco appiccicato al viso. Dentro di sé desiderio di acqua, l’odore dell’acqua, il rumore dell’acqua, lo scroscio di fontane, la carezza dell’acqua, l’uterino retaggio dello sprofondare nel mare e in esso perdersi, quasi affogare. Pregava Phleba e mormorava spastiche litanie: se non vi fosse solo roccia, ma anche acqua, una fonte, una pozza tra le rocce di questo maledetto pianeta, il suono dell’acqua e non solo tuoni lontani e echi di deliri. Immerso in una bocca montuosa di denti cariati senza neppure saliva per sputare, Phleba camminava, non poteva neppure fermarsi, sedersi, restare, giacere ma solo incedere, andare avanti e neppure le invocazioni di sbavanti desideri riuscivano a lenire la sua sofferenza e l’orrore restava a guardare.
E acqua non c’era.

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