21 luglio 2008

Il Fiume

Pensa a Phleba (14)
Il Fiume scorreva lento. La corrente melmosa avanzava come colla, bava strisciante. Intorno il rumore sommesso di un gorgoglio invadente, melliflua carezza che violava i timpani, penetrandoli. Phleba trattenne un gesto, le mani già all’altezza dalle orecchie per serrarle, per difenderle dal soffuso fragore limaccioso. Regolò veloce i servosensori del canale uditivo e rese il mondo intorno a lui silenzioso, un silenzio assoluto, innaturale, bianca sordità.
La sua ultima tappa fluiva appiccicosa pochi metri più in là. Il Fiume.
Phleba non conosceva le ragioni per cui il Priore Tiresia gli aveva imposto quei passaggi obbligati: la Città, le Montagne ed ora il Fiume. Forse non v’era una ragione precisa, solo una scelta casuale sulla mappa deforme del pianeta desolato per definire l’ennesimo tentativo vano di esplorazione, di indagine. Quante altre tappe avrebbe potuto raggiungere Phleba? Luoghi di una non-ricerca confinata nell’inesistenza, territori mai neppure pensati e per ciò neppure reali. Esistevano solo i luoghi percorsi. Ogni altra cosa era poco più che fumosa potenzialità che mai si sarebbe elevata alla dignità dell’atto. Ricordò Phleba per un momento i molti nomi tracciati sulla carta planetaria del mondo, mappa tracciata in decenni di ricerche che nulla raccontava del pianeta. La Foresta, il Lago di Pietre, il Teatro, la Depressione, nomi che a Phleba ricordavano solo vecchie foto sbiadite scattate da qualche satellite ormai dimesso. Il suo pianeta folle era lì, viscido di fronte a lui, straripante ricordi di luoghi visti e camminati.
Fece un passo Phleba e il Fiume gli si fece incontro, più vicino, maliziosamente prossimo.
Desiderio di acqua e Phleba fece un altro passo e il Fiume non indietreggiò mostrandosi impudico in tutto il suo orrore. Petrolio e catrame, il Fiume trasuda pece nera. Nero, il Fiume è nero e denso, carammeloso. Liquami biliosi scivolano lungo il greto rotto e un vento attraversa la terra bruna, senza che nessuno ascolti la sua lamentazione.
Il rivo putrido attraversa la terra bruna e serpeggia lungo deserti infuocati e rossi senza che nulla possa deviarne il corso verso un mare che resta invisibile, sempre nascosto da un oltre lontano.
Phleba si fece prossimo, sull’orlo della riva osservò il riverbero nero e spugnoso che procedeva pigro. Immobile fissò il Fiume ma non pianse. Non aveva lacrime da sprecare, nessun liquido da tributare al sermone del fuoco e il suo viso restò asciutto, vergato di rughe profonde e sentieri di sudore raffermo.
Allungò la mano e toccò la massa untuosa, mosse le dita per saggiare la densità, ne fece scorrere un filo tra il pollice e l’indice, represse un conato di disgusto e continuò a toccare il liquido immondo. I ricettori della tuta e degli impianti metallici lavoravano a pieno regime, i dati registrati e velocemente stoccati nei mitocondri alterati del suo supporto bio-storage, prima catalogazione secondo categorie predefinite e imposte chimicamente ad ogni mitosi cellulare.
Il Fiume era basso e Phleba potè quasi sfiorarne il fondo, toccare la superficie. Con le dita rastrellò un po’ della sostanza che vi era adagiata e la estrasse dalla melma viscida. Foglie, piccole foglie putride e in decomposizione. Foglie flosce che Phleba osservava chiedendosi da quali alberi potessero provenire, si guardò intorno ma solo deserto rosso e fiume nero. Nuvole fosche s’addensavano in lontananza ma nessuno attendeva la pioggia che mai sarebbe caduta.
Nessun bagliore di lampo nel cielo viola.
Fu lo squittio a destarlo dai pensieri in cui si era smarrito, ultimi labili rifugi contro la desolazione della terra. Alle sue spalle una folata di vento, gelida, improvvisa e un sordo rumore di ossa scrocchiate sotto passi fugaci che sembrava fuggissero via. Non avrebbe dovuto udire nulla nel silenzio indotto dei ricettori uditivi ma lo sentiva, chiaro, poco più in là. Lo squittio. Phleba non si voltò, aspettò immobile fissando un punto imprecisato del Fiume, lo sguardo nell’invisibile del nero melmoso, i ricettori uditivi tesi ad ascoltare il rumore impossibile. Lo squittio. E il topo strisciò via, il ventre molle schiacciato contro la terra bruna e polverosa e le gambe veloci a calpestare frammenti d’ossa essiccati al sole. Phleba lo vide con la cosa dell’occhio e restò ad osservarlo mentre scendeva la bassa riva del fiume e nel putridume nero s’immergeva sino a sparire nel nero. Affogato. Così com’era comparso il ratto svanì e il pianeta tornò nel silenzio alterato della postumanità di Phleba. Nessuno squittio ora.
Il Fiume continuava a scivolare untuoso come se nulla fosse accaduto, indifferente a se stesso come ad ogni altra creatura vivente. Il suo cammino verso il mare proseguiva e solo lo strisciare perenne lungo il letto disfatto pareva essere importante. Nient’altro.
Là dove il ratto era comparso Phleba notò le piccole ossa sbiancate dal vento e dalla sabbia. Schegge di scheletri senza forma, irriconoscibili brandelli di inesistenti creature che forse secoli addietro avevano popolato quella parte del pianeta folle. Phleba immaginò per un momento prospere civiltà fluviali sorgere sul rivo melmoso e nero e trarre da esso abbondanza e ricchezza. Lungo il fiume sognò di edifici possenti, alti sino ad oscurare i mille soli nel cielo, templi eretti a celebrare divinità eterne. Vide folle osannare re e regine semidivini, eserciti immortali sconfiggere nemici cruenti e colonne di schiavi sacrificati per placare ire e invidie. Lesse poemi mai scritti raccontare di inferni e resurrezioni, smembramenti e supremi giudizi. Erano lì, di fronte a lui, quasi che davvero su quel fiume limaccioso un tempo vi fosse stata una qualche antica civiltà millenaria.
Solo deserto. Deserto, ora intorno a Phleba solo sabbia e terra sterile. Neppure nella sua mente restò traccia del ricordo e i mille nomi delle divinità mai venerate scomparvero di nuovo nell’oblio.
Phleba strinse nella mano un frammento d’osso, lo serrò nel pugno con violenza sino a sbriciolarlo in una polvere sottile, bianca, sottile. Aprì il palmo della mano e la soffiò via, lasciando che si depositasse lontana, trasportata dal vento gelido che da nessuna parte pareva provenire. Phleba pensò così che la terra sterile del pianeta desolato poteva essere solo fecondata da semi di ossa, embrioni di morte.

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1 Comments:

Blogger Logos said...

Questa sera ho scritto l'ultima parola di questo lungo racconto.
Nei prossimi giorni posterò le ultime parti e Phleba concluderà il suo viaggio.
Logos.

12:06 AM  

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