22 luglio 2008

La Musica e le Vele

Pensa a Phleba (15)
Davanti a suoi occhi solo il nero del fiume e il rosso del deserto e Phleba si sedette sulla sabbia rossa osservando la melma scorrere e perdersi oltre. Ricordò di quando ragazzo si sedeva sulle sponde del fiume che scorreva poche centinaia di metri da casa a pescare con suo padre e suo fratello. E prima ancora con il padre di suo padre in una tradizione che si ripeteva immobile da generazioni. Phleba non l’avrebbe tramandata, con lui si sarebbe persa traccia di un rito che si ripeteva identico da secoli, affidato dal padre al figlio. Lui sarebbe stato l’ultimo portatore di un sapere che con lui sarebbe svanito per sempre.
Con Phleba sarebbe morta la sua famiglia e con essa il ricordo di tutte le persone che ne avevano fatto parte, esiliando il loro nome nei territori oscuri dell’oblio.
Phleba immaginò di essere ancora seduto con suo padre sulla roccia bassa che si estendeva verso il fiume gravido di pesci. Con un gesto imitò il lancio della lenza e nel ricordo vide il galleggiante rudimentale ondeggiare inclinato nell’acqua sino a che, con uno strappo, un pesce abboccava e tirava. Spingeva verso la libertà, verso la vita. L’amo sempre più profondo nelle carni. Phleba ricordò la voce del padre che lo tranquillizzava con il suo tono basso, cavernoso e gli indicava come riavvolgere la lenza. Rivide per un momento suo padre, allora era già quasi completamente metallizzato e poche erano le aree del suo corpo ancora biologiche. Phleba invece era un ragazzino ancora fatto di carne e osservava estasiato il corpo lucente del padre riflettere brunito la luce del sole. In lontananza un gasometro s’innalzava al cielo e sembrava tributare omaggi a creature superiori.
Phleba tornò in sé, nella mente il ricordo del padre piano si spense e si trovò di nuovo in mezzo al deserto sulla riva del fiume nero che scorreva verso il mare a ovest.
Decise di incamminarsi lungo la riva seguendo la direzione della corrente, adeguò il suo passo alla velocità del fiume e si preparò a seguirlo sino al mare. Il mare. Non sapeva quanto avrebbe dovuto camminare ma questo non gli importava molto, la sua preparazione monacale e il suo stesso essere creatura post-umana gli permettevano di immergersi nel pianeta desolato senza limiti, penetrandolo sino ai suoi recessi più profondi, senza alcun confine. Phleba attivò il risparmio energetico della sua tuta e questa smise di archiviare e registrare dati e si tenne in modalità stand-by. Per la prima volta da quando era iniziato il suo viaggio esplorativo Phleba disattivava le funzioni primarie della tuta protettiva, ora era solo una guaina, un involucro senza coscienza. Phleba sentiva che intorno a lui non c’era pericolo, lì solo il fiume che scorreva e il rosso del deserto ovunque.
Osservò il rivo scivolare fiacco nel suo letto, lo vide trascinarsi come un vecchio, un infermo. Phleba percepì l’assoluta indifferenza, l’aristocratica noncuranza, lo sfregio del mondo. Il Fiume non era lì per dar la vita. Supponente distacco e infinita solitudine, il Fiume esisteva per se stesso. Niente dipendeva dal suo scorrere, né per vivere, né per morire.
Così come Phleba il Fiume penetrava nel cuore del mondo desolato senza alcuna possibilità di spiegare l’assurdo vicino. Il Fiume non faceva altro che scorrere, insensatamente.
Phleba era stanco ma non si fermò e continuò a camminare a fianco del fiume. Il mare restava aldilà di una inesistente collina.
Fu pochi chilometri più in là che Phleba vide le chiatte e udì il suono di trombe.
Il Fiume si era allargato trasformandosi in una specie di lago ristagnante ed immobile. Phleba non riusciva neppure a vedere la sponda dal lato opposto, lontana e nascosta da una nebbia sulfurea che aleggiava sulla superficie viscosa del Fiume. Nel cielo le solite nuvole scure promettevano un’ingannevole pioggia che non sarebbe mai caduta.
Prima vide una macchia indistinta sul Fiume proprio nel punto in cui cominciava ad allargarsi e a farsi più lento. Mise la mano sulla fronte a proteggere gli occhi dalla luce ma ancora non colse nulla se non qualche indistinta massa galleggiare sul putridume del Fiume. Aumentò lo zoom dei bulbi oculari e li fissò a 100x e fu così che vide le chiatte. I barconi ondeggiavano e andavano alla deriva in attesa della marea ancora distante. Rosse vele a sottovento cadevano flaccide sui pesanti pennoni e le chiatte sciabordavano come tronchi dispersi nella corrente. Phleba osservò le basse imbarcazioni scivolare sensuali sulla melma nerastra ed udì in lontananza un suono di trombe che pareva rimbalzare e propagarsi nell’aria in ogni direzione. La musica pareva venire da ogni luogo.
Aumentò l’intensità dello zoom mentre le navi muovevano controcorrente verso di lui e osservò le plance legnose e deserte, i possenti timoni ruotare a vuoto senza controllo e le vele strappate pendere cadenti. Cercò Phleba di scorgere qualche creatura che potesse spiegare la presenza di quelle navi ma non scorse nulla. Tutto sembrava privo di vita. Le trombe nel frattempo continuavano a suonare, una musica alta, stridula, una ritmica incedente, una strana marcia che assomigliava al canto funebre di un esercito pronto per la battaglia. Phleba attivò la visuale a grandangolo dei suoi bulbi visivi per cogliere l’origine della suono ma nulla si agitava intorno a lui. Registrò la marcia musicale e la catalogò compressa come ogni altra informazione. Sapeva che un suono così ricco non poteva essere prodotto da un solo strumento, doveva esserci un intera orchestra di trombe nascosta da qualche parte nel deserto introno a lui. Allora Phleba si figurò nella mente colonne di musici ordinati avanzare serpeggianti nel deserto suonando litanie ripetitive e assillanti annunciando il proprio incedere. Musicisti bassi dalle lunghe braccia e dalla corte gambe che zampettavano sulla sabbia infuocata ripetendo incessantemente le medesime note. Alienazione della musica.
Il suono persisteva nell’aria facendosi più forte e più definito ma Phleba continuava a non veder niente, se non le chiatte che gli si avvicinavano sospinte dal vento gelido che da nessuna parte pareva provenire.
Phleba si fermò, non si mosse e lasciò che la corrente che stava accompagnando da ormai molti chilometri proseguisse oltre, indifferente a ciò che la circondava. La guardò fuggir via, e si chiese che ne sarebbe stato, come avrebbe continuato il cammino senza la sua silenziosa compagnia. Ma non poteva proseguire. Doveva fermarsi e tentare di dare una ragione alle chiatte e alla musica delle trombe nell’aria. Il suo compito era registrare, stoccare, preservare le informazioni. Ogni altra cosa era secondaria, inutile.
Le chiatte intanto si fecero prossime e in pochi attimi furono davanti alla sponda, nel punto esatto in cui Phleba si era fermato e attendeva di comprenderle. Le osservò con attenzione lasciando che i ricettori meccanici impiantati nelle sue strutture metalliche archiviassero ogni dato, avidi di informazioni.
Phleba contò circa ventidue zattere, identiche l’una all’altra, il pescaggio basso, la superficie di legno scuro deturpata dal liquame nero del Fiume, ampie parti divelte e scrostate e in plancia nessuna traccia che potesse far pensare ad un popolo di marinai alla deriva sul Fiume. La poppa di ogni nave era formata come una conchiglia dorata, rossa e lucida, unico elemento decorativo ad essere sopravvissuto al deturpamento del fiume limaccioso.
La musica delle trombe si fece ancora più forte e Phleba riconobbe, nascoste nei ritmi ripetitivi e catatonici, alcune tracce dei canti del suo pianeta d’origine. Armonie che spesso mormorava tra i denti e che gli ricordavano le terre che aveva amato, i luoghi che sentiva propri, gli spazi verdi che chiamava casa. Una sorda rabbia gli montò dentro, come potevano le melodie del suo pianeta essere lì, in quel luogo desolato e assurdo, in quel mondo guasto e sbagliato? Come osava l’immonda ontologia di quelle lande appropriarsi anche della sua tradizione, della sua storia, della musica che aveva conservato dentro di sé in uno spazio protetto, segreto luogo interno che lo ancorava alle sue origini, alla sua cultura?
Prestò nuova attenzione alla musica ma questa volta non udì nulla che gli ricordava casa. Si era forse sbagliato? O era stato un attimo improvviso subito cancellato dalla mente del suonatore? E dove erano i suonatori? Perché non riusciva a vederli?
Phleba si portò le mani sulla faccia e quasi si graffiò il volto. Cosa stava succedendo?
Intanto le chiatte proseguivano oltre e docili risalivano la corrente del fiume superando Phleba e perdendosi oltre. Si voltò a guardarle e le vide scivolar via accompagnate dal solito suono di trombe che già si spegneva all’orizzonte.
Restò come sempre solo. Immobile. Incapace di darsi una ragione a ciò che lo circondava. Sembrava quasi che i fatti di quel mondo desolato lo cercassero, lo bramassero ma solo per sfiorarlo delicati e poi, improvvisamente, così come venivano, scomparivano oltre, lasciandolo nell’incertezza e nel dubbio. E nella solita, malata, solitudine.
Phleba restò immobile ad osservare le chiatte e le loro vele rosse sparire dietro l’ansa che voltava a sinistra. La musica di trombe divenne un’eco vaga in lontananza sino a sfocare nel consueto, delirante, silenzio che avvolgeva il pianeta. Neppure il Fiume sembrava più emettere il suo malefico gorgoglio viscido. Restò solo Phleba. Lui ed il suo respiro affannoso.
Chinò il capo e comprese il mondo.
Tutto ciò sino a quel momento gli era sembrato insensato, desolato e malignamente assurdo prese forma, si distese come un manto caldo e divenne luminoso, limpido. I tasselli di un mosaico ritorto si accostarono l’uno all’altro e il disegno nascosto comparve, rivelandosi nella sua meraviglia nascosta. Phleba vide la superficie delle cose su cui stava camminando.
Phleba non si stupì, la verità era stata tante volte di fronte ai suoi occhi artificiali e metallici ma mai, prima di allora, l’aveva scorta. Si chiese se fosse proprio il potenziamento post-umano a cui era stato sottoposto negli anni ad essere la causa della sua miopia. Phleba si pensò nella sua post-umanità, creatura semi-metallica, freddi tessuti impiantati, perfetti, incorruttibili e indifferenti persino al tempo. Lui sarebbe morto ma le parti installate nel suo corpo alterato avrebbero continuato ad esistere sino a sfiorare l’eternità stessa. Cose morte di fronte alla fine del tempo. Phleba vide se stesso e si scoprì, come forse mai prima di allora, identico ad ogni altro essere post-umano sparso nella galassia, neppure il suo essere solo e solitario nelle pieghe del mondo desolato gli pareva più un appiglio solido su cui costruire un’unicità oligarchica e altezzosa. Phleba era la comunità degli esseri post-umani, era il loro rappresentate di fronte ad un inesistente giudice che altro non era che il proprio osservarsi, il riflesso in uno specchio non più opaco. Phleba non si giudicò, ma semplicemente si osservò.
E vide.

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