15 luglio 2008

La Pianura

Pensa a Phleba (13)
Phleba non si mosse. Il pianeta desolato troppe volte l’aveva sorpreso, ingannato, umiliato e ora sapeva che non tutto ciò che appariva di fronte a suoi occhi era vero, concreto, reale. Lasciò che i bulbi oculari metallici registrassero quante più informazioni possibili delle piccole creature che si sporgevano dall’alto a guardarlo e a schernirlo, sarebbero poi stati gli scienziati dell’Ordine a tentare di dare una spiegazione a ciò che lui ora stava fissando.
I piccoli esseri dalle facce rosse erano accovacciati a pochi metri sopra di lui, protetti da un’insenatura naturale della roccia, una specie di ballatoio e da lì, indicandolo freneticamente, urlavano suoni indistinti, mormorii leggeri e stridore di denti. Phleba calcolò che non dovevano essere più alti di un metro, vestiti di strani abiti, una casacca allacciata da ruvide corde sopra una lunga veste color delle rocce. Si muovevano veloci, guizzando nello spazio angusto della sporgenza identici l’un con l’altro, Phleba non riuscì a capire quanti fossero. Cinque o cinquanta non avrebbe saputo dirlo.
Immobile nella spianata dentro le Montagne, alla sua sinistra la parete intarsiata di dementi bassorilievi e sopra di lui il vociare sommesso di creature dal volto rosso che lo additavano, lo osservavano, quasi che fosse una meraviglia, una meraviglia nascosta.
Ancora una volta Phleba lasciò che il tempo si fermasse, chiuse gli occhi e permise alla tuta protettiva e ai sensori metallici del suo corpo alterato di stoccare dati, informazioni, parametri quantitativi che sarebbero stati decifrati e utilizzati per analisi e statistiche predittive. Phleba sentiva però ancora sulla superficie del bulbo oculare metallico la sensazione, l’impatto sensoriale. Nonostante le palpebre fossero ormai abbassate la percezione era ancora lì, viva. Sentiva il colore delle facce delle creature, sentiva la forma dei loro piccoli arti, l’andatura ciondolante del loro incedere umanoide, come se l’occhio lo stesse ricordando. Riviveva ogni singolo attimo ed di ogni attimo ricordava l’emozione: lo spavento, la sorpresa, la curiosità, la desolazione. Elementi qualitativi che venivano tradotti dai sensori della tuta protettiva in numeriche ripetute, in scale di battiti cardiaci, in campionamenti di pressione sanguigna e in livelli normalizzati di ormoni adrenalinici nel sangue. Dati per cui Phleba era solo lo strumento di registrazione ed il piano di riferimento condiviso. Ma Phleba sentiva che il mondo che lo circondava non era solo riduzione quantitativa, vi era dell’altro che non riusciva a descrivere, qualcosa che restava aldilà di ogni dato e che lui riusciva solo ad intuire vagamente.
Phleba ricordò che non poteva restare confinato nello spiazzo per sempre, doveva avanzare, andare avanti, la sua missione doveva essere compiuta.
Fece un passo nella direzione del ballatoio e subito le piccole creature fuggirono via, spaventate. Phleba sentiva ancora il mormorio soffuso delle loro voci oltre la sporgenza. Erano lì, quasi ad invitarlo a proseguire, a seguirle, a vedere il luogo da cui esse provenivano. Cominciò ad arrampicarsi, lentamente, lasciandosi aiutare dagli arti metallici potenziati e dalla memoria indotta dell’allenamento religioso. Solo pochi metri separavano la spianata dalla sporgenza delle esseri dalle facce rosse, pochi metri di liscia e granitica superficie verticale. Phleba infilò le dita nella roccia creando appigli laddove appigli non ce n’erano, scavando la roccia e deturpando l’armonia innaturale della parete con i solchi delle sue mani, dei suoi piedi e del suo scalare, oltre ogni ostacolo. Nessun ostacolo al suo cammino.
In poco meno di mezz’ora fu sulla sporgenza naturale, era deserta. Il ballatoio era largo pochi metri quadrati e, sul lato opposto dal punto in cui Phelba era salito, partiva uno stretto corridoio che si insinuava dentro le Montagne. Phleba osservò le tracce nella sabbia rossa che avvolgeva ogni anfratto delle Montagne e intuì il passaggio delle creature dal volto rosso: impronte di piccoli piedi che correvano a perdersi dentro lo stretto sentiero. Phleba contò le tracce e calcolò che le creature che l’avevano osservato poco prima erano circa una decina e si incamminò lungo il sentiero. Era così stretto che a malapena riusciva a passarci, dovette procedere per un lungo tratto di traverso, spalle a miro, scivolando faticosamente nel cunicolo scavato nella roccia. Non sentiva più le voci e i bisbigli delle creature ma aveva lasciato i servo-ricettori meccanici attivati al massimo, non voleva essere ancora colto di sorpresa.
Camminò per circa un’ora e poi all’improvviso l’angusto sentiero incavato nelle Montagne si interruppe e Phleba non credette ai suoi occhi.
Di fronte a lui, un solo passo oltre, si apriva una distesa infinita, una pianura sconfinata, limitata solo dall’orizzonte piatto che si intravedeva in fondo. Il pianeta ancora una volta mostrava la sua assurdità e Phleba non potè far altro accettarla.
Dentro le montagne, di fronte a lui, si apriva una pianura interminabile, terra screpolata ovunque, infinito dentro l’infinito.
In alto, sulla soglia che si apriva sulla Pianura, Phleba non fece altro che zoomare modificando il diaframma dei suoi bulbi oculari impiantati e inventariò ciò che gli si parava oltre. Sparpagliate sorgevano qua e là città, bassi edifici, case di fango scrostato, torri crollanti nell’aria viola che incombeva dal cielo.
Fece scorrere lo sguardo da un estremo all’altro del delirio piatto che sorgeva un passo più in là e vide, fra le città, orde incappucciate sciamare senza direzione, accompagnate dal sommesso mormorio e dal bisbiglio fastidioso delle creature dal volto rosso. Carovane di esseri dalla forma vagamente umanoide, coperti da una folta e morbida peluria, file di uomini in miniatura che si spostavano nella distesa infinita senza mai incontrarsi, forse persino inconsapevoli della presenza le une delle altre. Colonne di carri rudimentali trasportati da quadrupedi giganteschi lambivano la vasta distesa come serpenti sinuosi e proseguivano in un identico, eterno, percorso circolare alla ricerca di una destinazione, di un luogo in cui fermarsi e costruire un’altra delle città di fango che popolavano la pianura. Un’incessante ricerca di un luogo in cui fermarsi e costruire effimeri giacigli.
Phleba notò che v’erano anche relitti, carri devastati e distrutti e ossa sparse sulla sabbia rossiccia ed immaginò che non tutte le carovane riuscivano a trovare il luogo che stavano cercando e morivano così, sperdute e solitarie nella pianura.
Restò a lungo ad osservare le città e i serpenti snodarsi insensati nella Pianura che si apriva un passo oltre di lui ma quel passo Phleba non lo fece. Restò sulla soglia dello stretto sentiero scalfito nelle Montagne e non si unì alle carovane che cercavano un luogo per fermarsi, per costruire fangose città. Non voleva fermarsi Phleba, non poteva. Il suo compito era camminare ed osservare, catalogare, trasmettere; senza nessuna comprensione stoccare dati e informazioni numeriche dentro il bioware della tuta. Phleba era solo il veicolo di un futile tentativo di esplorazione dell’assurdo, vivo dentro il cuore stesso di un’ontologia deformata. Nessuno avrebbe mai chiesto a Phleba un resoconto, un rapporto, una sua personale opinione su ciò che stava osservando, sui luoghi che stava incontrando e sull’insensato che ovunque trionfava. Phleba ne era felice, non avrebbe saputo cosa dire e soprattutto non avrebbe mai potuto spiegare il fatto che cominciava a comprendere l’orrore che lo circondava, l’assurdità del pianeta e la deformazione dell’ontologia. Phleba vedeva il mistero.

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1 Comments:

Anonymous Anonimo said...

mbè, ti sò piaciute le Commedie?

forte sto blog Alex, l'ho trovato mò...!

un salutone

12:56 PM  

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