24 luglio 2008

Morte per Acqua

Pensa a Phleba (16)
Vide la tracotanza di credersi esseri superiori, di pensare a sé come bio-macchine perfette, potenziate e perciò libere finalmente della tara costitutiva di essere imputridenti creature umane. Vide la miopia, sino alla più bianca cecità; nessun livello di ingrandimento, nessuna regolazione ad alte x dei bulbi oculari meccanizzati avrebbe permesso di sapere, di intuire anche solo vagamente il significato opaco dietro le cose, il senso nascosto di ogni singolo atto compiuto o solo osservato. Erano proprio i bulbi oculari metallici ad impedire a Phleba e a chiunque altro di vedere realmente. Gli apparati visivi post-umani nella loro onnipotenza strumentale e funzionale condannavano l’uomo ad una offuscamento fatto di dettagli minuziosi, precisi, infinitesimali ma senza alcuna possibilità di svelare e di comprendere.
Phleba si figurò un telo, meravigliosamente ricamato e colorato, vide incise con un’abilità sorprendente storie e narrazioni affascinanti, avventure trepidanti, vite e vite di incessante euforia. I bulbi metallici gli permettevano di osservare l’ordito, la trama ricamata nel tessuto, ammirarne le cronache sapientemente tratteggiate. Phleba comprese quanto era facile perdersi e lasciarsi consolare dalla vastità del telo, dai suoi mille e più intrecci, era davvero facile cadere nella seduzione e credere nella verità del telo e delle sue favole. Phleba pensò a quante volte aveva lasciato che il velo fosse sufficiente, a tutte le volte che non aveva cercato di guardarvi oltre. Di prendere il tessuto finemente intarsiato e strapparlo, violentemente, fenderlo e ferirlo, devastarlo affinché smetta di ingannare e riveli ciò che affannosamente tenta di celare. La verità. La fine di ogni consolazione. La conclusione di ogni inganno post-umano.
Strumenti, solo inutili strumenti. Artifici, marchingegni, macchine e surrogati biologici, ogni cosa era ora per Phleba un vano accidente che non lo allontanava neppure di un passo dalla sua sostanza di essere umano. Aveva camminato per chilometri e chilometri nel mondo dove l’ontologia stessa di ribella a se stessa per scoprirsi immobile, desolatamente rinchiuso in una costruzione illusoria di alterigia e di prepotente altezzosità. Ora era di fronte a se e si vedeva essere umano. Imperfetto e condannato alla circostante assurdità.
Phleba si spogliò della tuta protettiva.
Ripensò a quando poco prima l’aveva disattivata andando contro a tutte le indicazioni, agli ordini, ai dogmi che il Priore Tiresia gli aveva imposto. Ogni singolo momento del suo passato, della sua formazione di monaco dell’Ordine, del suo appartenere alla civiltà e al pianeta della sua famiglia urlava dentro di lui, sbraitava folle contro la ribellione di un gesto.
Si svestì lentamente, con cura, attento a non rovinare la tuta che l’aveva accompagnato per anni fedele nel suo compito divinizzante. Grazie ad essa Phleba era stato dio e ora, senza mestizia, se ne liberava.
La sfilò completamente e la adagiò delicatamente su un sasso bianco che spuntava lì vicino, quasi che l’unica funzione di quella pietra fosse di far da tomba alla tuta protettiva di Phleba.
Phleba restò con i semplici abiti dell’Ordine e per la prima volta da quanto era atterrato sul pianeta desolato sentì sul viso il vero, molle, fastidioso tocco del vento che da nessuna parte pareva provenire.
Phleba si voltò verso il fiume. Lo vide scorrere a pochi metri da lui. Nero, melma putrida gorgogliante su se stessa. Viscido liquame zampillante da mille cloache. Phleba ne fu attratto.
Lì vi era il senso che stava cercando. Perso tra le onde dense del Fiume nero vi era il segreto che aveva intuito, la forma che si nascondeva dietro il velo finemente intarsiato, oltre l’inganno. Aldilà della sua consolazione post-umana, degli inutili strumenti che l’avevano elevato ad essere dio. Un dio imperfetto, un dio facente, un demiurgo inconsapevole, un folle costruttore incapace di spiegare e comprendere l’assurdo del suo agire.
Disattivò ogni apparato extra-biologico e divenne cieco, muto, sordo, incapace di muoversi, di sentire alcunché al tatto e persino il fetore del Fiume svanì. Non era nulla senza i suoi impianti metallici. Non era più una creatura vivente. Era cosa morta.
Phleba fu colto dal panico. Riattivò immediatamente i sistemi metallici di sopravvivenza: sensi, locomozione, sistema immunitario e pochi altri. Lascio depotenziati tutti gli altri apparati non prettamente vitali. Nulla oltre ai supporti primari di sopravvivenza era attivo. Senza neppure volerlo stava Phleba stava tentando di regredire da creatura post-umana ad essere umano, compiendo un passo indietro nel cammino evolutivo che l’aveva portato ad essere quasi una divinità.
Tornò a guardare il Fiume e se ne sentì sempre più attratto. Era certo, lì, in mezzo al liquido nero e scivoloso si nascondeva ciò che andava cercando. Il senso era immerso nel fetido del Fiume.
Aveva compreso il mondo, ora sapeva cosa doveva fare.
Si mosse e, fissando un punto preciso nella melma che scorreva indifferente, si immerse nel liquame e continuò a camminare mentre lentamente la melma saliva intorno a lui. Prima le gambe, poi il tronco, il busto intero, il collo e Phleba si trovò immerso nelle acque nere completamente.
Solo la testa bianca spuntava.
Non disse nulla.
E fece un altro passo, poi un secondo ed infine un terzo, mentre un tuono all’orizzonte di una tempesta sembrava brontolare un ripetuto DA.
Phleba non face altri passi.
Fu sommerso dalle acque limacciose si abbandonò ad esse e dimenticò ogni cosa, il grido dei gabbiani, le onde del mare che mai avrebbe raggiunto, il profitto e la perdita del suo essere monaco dell’Ordine.
Una corrente sottomarina lo prese, dolcemente lo cullò a sé spolpandogli le ossa in bisbigli; nel vortice, su è giù dalla linea della superficie Phleba risalì tutti gli stati dell’evoluzione sino all’origine.
Sino al nulla.
Fu così che Phleba morì.
La tuta protettiva, docilmente adagiata sul masso bianco, non smise di registrare e vide indifferente Phleba immergersi nel Fiume liquoroso di melma scura e in esso sparire in un distratto gorgoglio.
Sulla Terra Desolata non rimase nulla, nessuna traccia di Phleba se non il led intermittente della tuta che annunciava ai satelliti geo-stazionari la sua posizione e qualche vaga impronta nella sabbia che già andava svanendo.

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2 Comments:

Anonymous Anonimo said...

sempre gentile, eccessivamente buono... grazie carissimo, grazie :) a presto, spero davvero a presto

10:10 AM  
Blogger Carmine Mangone said...

Grazie di cuore per i complimenti sul blog di zoon.


Phleba muore? Sono forse arrivato tardi?

www.maldoror67.splinder.com

11:22 AM  

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