20 novembre 2008

Foresta. Foresta ovunque.

Rami di Verdi Lame (7)
Il pianeta era dominato da un unico ecosistema, identico, ripetuto, assillante nella sua staticità. Foresta. Foresta ovunque. Le alte conifere coprivano tutta la superficie del mondo con le loro foglie verdi sottili, taglienti. Il manto d’alberi si estendeva imperturbabile in ogni luogo. Solo alcune rade cime montuose ne erano prive. Fredde, deserte. Sterili.
Il clima immutabile frutto dell’orbita perfettamente circolare del pianeta intorno al grande sole bianco aveva favorito lo svilupparsi di un ambiente monotono, ideale per la preservazione di poche specie che si erano perfettamente adattate alle condizioni climatiche perenni del pianeta.
Scarsa era la biodiversità, poche forme di vita prosperavano all’ombra delle alte conifere. Qualche arbusto, il muschio limaccioso, radi fiori colorati e sgargianti e poche altre piccole piante in grado di prosperare con le briciole di luce che filtravano dal tetto di foglie degli alberi.
Anche la fauna era limitata. Nessuna competizione aveva permesso la differenziazione e persino l’evoluzione procedeva lenta, quasi statica. Roditori, un nugolo di insetti ronzanti alla ricerca disperata del polline dei radi fiori multicolori e gli uccelli neri. Creature grasse e pigre, cacciatori senza avversari in un mondo popolato di prede. I grandi rapaci non avevano nemici se non la loro stessa supremazia, il proprio lassismo.
Un pianeta come tanti altri disperso nel fondo di uno dei bracci della galassia. Un mondo inutile, senza alcun valore per i giochi politici ed economici in atto in quella parte di universo. Periferico, povero di risorse, pressoché disabitato, perso oltre gli ultimi pianeti avamposto dell’Impero non figurava neppure su molte mappe interstellari.
Per secoli era stato lasciato a se stesso nella totale indifferenza dei politici e dei militari, libero di prosperare o di devastarsi.
Nei secoli di isolamento sul pianeta era sorta una civiltà autoctona. L’origine di questa genia era si era smarrita nelle mille voci differenti della tradizione orale con cui si tramandavano i fatti e le leggende, senza distinzione.
Alcuni miti raccontavano dei primi uomini, creature pallide scese dal cielo in sella a enormi uccelli splendenti, altri anticipavano l’origine degli uomini in una figura semi-divinizzata, un primo essere nato dal ventre del primo albero della foresta. Uomo e pianta indistinti, nati nello stesso iniziale momento.
Quale che fosse la loro origine, autoctona o migratoria, il popolo delle foreste si era ben adattato all’ecosistema del pianeta e in esso aveva prosperato. Si erano sviluppati convenzioni, rituali, tradizioni e narrazioni che poche altre volte erano state riscontrate dagli xenologi. Il popolo della foresta era privo di ogni forma di religione se non una primitiva versione di un animismo mischiato e confuso con una vaga credenza panteistica. Nessuna regola sociale era riuscita a assurgere a regola divina, a precetto religioso e la convivenza fra le genti del popolo della foresta, fra le sue diverse tribù era regolata da un semplice codice morale fatto di onore e rispetto.
Su tutti i precetti, però, dominava un tabù così radicato negli abitanti del pianeta da sembrare un dettame biologico, una codifica genetica impiantata piuttosto che una convenzione sociale indotta. Il divieto alla morte indotta. Gli uomini e le donne della foresta non potevano uccidere. Nessuna creatura vivente poteva essere privata della vita. L’uccisione, ancorché accidentale, di un qualsiasi essere vivente gettava nella follia e nel delirio gli abitanti della foresta e solo complessi riti di purificazione permettevano la riabilitazione.
Il popolo della foreste aveva così sviluppato una dieta priva di carne e composta di bacche e di una farina ricavata dal tronco delle conifere. Una dieta monotona ma ricca da un punto di vista nutrizionale.
Gli abitanti del pianeta vivevano su palafitte costruite sui tronchi più bassi degli alberi. Si trattava di casupole semplici e rozze fatte di fango, foglie e legname vario. La tecnologia era pressoché assente, solo radi oggetti di uso comune passavano di mano in mano tra gli uomini. Ogni forma di possesso era impensabile ed insensata in un mondo senza alcuna varietà.
La gilda dei mercanti conosceva il popolo delle foreste e il pianeta disperso. Alcuni mercanti facevano rari scambi barattando tonnellate di legname con oggetti tecnologici desueti e così obsoleti da sembrare primitivi: radiotrasmittenti, localizzatori di voce e movimento, spogli kit medici e pochi altri ancora.
L’isolamento di quel pianeta era stato di fatto assoluto. Assoluto sino a che, un giorno, una nave dell’impero non ne aveva penetrato l’atmosfera. E dopo la prima la seconda, e dopo ancora la terza. Un intero stormo di navi da trasporto e militari avevano stazionato per mesi nei cieli azzurri sopra le conifere. A terra i droni da lavoro eseguivano la loro programmazione e le torri crescevano. Alte, infinitamente più elevate della più alta conifera, sorgevano bianche e lucenti. Gioielli nel riflesso della luce bianca del sole.
Del popolo della foresta presto si andò smarrita ogni traccia. Cacciati dalle proprie terre, perseguitati, uccisi. Sterminati. L’ennesimo silenzioso genocidio sulla strada della colonizzazione delle periferie della galassia.
Il mondo inutile era stato conquistato senza guerre, senza morti per l’Impero. La rete neurale interconnessa a tutti i cittadini dei domini dell’Imperatore era stata attivata. Molti si chiedevano le ragioni di quella dispendiosa colonizzazione. Ridicoli erano i vantaggi ed enormi le spese per la sopravvivenza su quel mondo boscoso.
Molti pensavano che fosse stato un errore. Nessuno lo diceva. L’Imperatore non sbagliava. Non poteva sbagliare. Solo l’imperatore conoscenza le ragioni di quella scelta. L’imperatore e il comandante Jabash. E un vecchio xenologo di cui nessuno conosceva il nome.

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