16 febbraio 2009

Un orrendo e nauseante identico pasto.

Rami di Verdi Lame (14)
Jabash entrò nel cubo-merci vincendo il ribrezzo e lo schifo.
I suoi uomini avevano imballato il meccanismo di trasporto merci della gilda e lo avevano trasportato nell’hangar deposito della torre K-43.
Un enorme capannone di metallo chiaro, color panna. Un semplice prefabbricato costruito dai droni da lavoro in poco meno che una giornata. L’intera struttura era composta da un polimero metallizzato scoperto da alcuni ricercatori di un pianeta centrale. La scoperta era valsa l’assimilazione del pianetucolo all’Impero e lo sterminio della razza locale. Scienziati compresi. Come una schiuma il polimero si lasciava modellare in forme e fattezze molteplici. Un semplice processo di solidificazione chimica permetteva poi la stabilizzazione della sagoma. Altamente tossico il polimero metallico poteva essere maneggiato solo da droni da lavoro o al massimo da schiavi ormai inutili.
Il color panna con cui si presentava lì era frutto della combinazione con qualche elemento dell’atmosfera del pianeta della foresta. Forse un batterio locale.
L’hangar era immacolato. Era stato sgombrato e igienizzato il più in fretta possibile all’ordine del comandante. Nessun elemento locale doveva alterare l’analisi del cubo-merci.
Jabash conosceva già il contenuto dell’oggetto. Aveva letto il puntuale e preciso rapporto del sergente che per primo era entrato nel cubo. Le parole con cui aveva descritto ciò che vi aveva visto erano fredde e militari ma Jabash sapeva leggere fra le righe. E vi aveva letto tutto l’orrore e lo schifo, la totale incredulità del tenente. Non lo biasimava. Come era possibile anche solo pensare che un uomo avesse potuto vivere lì dentro per otto cicli standard? Seduto fra i suoi stessi escrementi, cibandosi solo di un composto semiorganico che colava dalla pareti del cubo. Come poteva non impazzire un uomo nel buio e nel silenzio di una solitudine intersistemica lunga otto cicli? Perché non lo avevano messo in sospensione criostatica? Che insano e folle motivo si nascondeva nel fare viaggiare un uomo lì dentro?
Jabash desiderò poter alterare i suoi ricettori olfattivi come di certo aveva fatto il tenente metallizzato entrato nel cubo-merci per primo. Ma Jabash non poteva impedire al suo naso di sentore l’odore che ristagnava intorno al cubo, il fetore che emanava dalla parete spalancata. Lì, oltre la soglia del cubo-merci Jabash sapeva di trovare l’immondo.
Fece un passo ed entrò.
All’interno del cubo era stati posizionati dei faretti; la loro luce bianca si rifletteva sulle pareti interni rimbalzando da un angolo all’altro. Jabash socchiuse gli occhi. Nella luce artificiale si guardò intorno. L’interno del cubo-merci era piccolo, più piccolo di quanto si sarebbe detto osservandolo da fuori; le pareti erano, infatti, molto spesse e rubavano spazio prezioso. Il cubo-merci era però pressoché vuoto. Solo sulla parete di fronte al lato aperto era messa una specie di poltrona. Un sedile ritagliato ergonomicamente sulle forme del passeggero. Dai lati spuntavano delle corde, legacci di una sostanza metallica e fibrosa, probabilmente le cinture che avevano ancorato il monaco lungo il viaggio. Dalla parete dietro la poltrona un semplice tubo raccoglieva i liquami densi che vi colavano e li lasciava fluire sino ad una cannuccia posta più o meno all’altezza della testiera del sedile. Jabash immaginò il monaco suggere il mefitico liquido. Un orrendo e nauseante identico pasto lungo otto cicli.
Nel cubo-merci non v’era null’altro. Vuoto. Uno spreco enorme di spazio. Nei viaggi intersistemici la cosa più preziosa era lo spazio di stoccaggio merci. Ogni angusto anfratto doveva essere riempito di merci per bilanciare il costo stratosferico di un viaggio. Far viaggiare fra sistemi un cubo-merci quasi completamente vuoto era folle. L’intera economia di molti mondi non sarebbe stata in grado di compensare le spese di un viaggio di una nave intersistemica.
Cosa aveva spinto l’Ordine a far viaggiare il monaco dentro un cubo-merci lasciando così però tanto spazio vuoto? Jabash si avvicinò al sedile. Sapeva che il cubo-merci era stato pulito dai suoi uomini. Il pavimento era ora intonso e lui poteva camminare osservando il nero della superficie riflettere le luci dei fari ma sapeva che fino a poche frazioni di ciclo prima lì era pieno di escrementi solidi e liquidi lasciati dal monaco durante il viaggio. Nel cubo-merci non c’era nessun sistema di riciclaggio, che senso avrebbe avuto per un oggetto creato per fungere da semplice magazzino mobile. Gli scarti biologici del monaco erano stati la sua unica compagnia per gli otto cicli, ammassandosi uno sull’altro.
Jabash trattenne un conato di vomito e vinse il desiderio di uscire da quel luogo immondo. Vide ciò che cercava a destra del sedile. Uno scomparto chiuso e infossato nella parete nera. Per un momento sperò che l’oggetto fosse ancora lì dentro ma sapeva che non lo avrebbe trovato. Si avvicinò e vide sulla parete, un poco sopra al pavimento, un piccolo bottone. Lo premette e subito un piccolo sportello si aprì rivelando una nicchia incassata e poco profonda. Vuota.
Il monaco l’aveva portato con sé. Era libero sul pianeta e aveva le istruzioni. Jabash soffocò un’imprecazione. Doveva trovarlo.
Richiuse il piccolo vano e uscì dal cubo-merci. Alcuni suoi uomini erano fermi ad aspettarlo. Immobili ed impettiti. Fieri nel loro essere meccanizzati.
Jabash li guardò e come sempre li invidiò. Si ricolse al tenente.

- Il monaco ha con sé l’oggetto.
- Lo stiamo cercando.
- No. Non dovete cercarlo. Dovete trovarlo!
- Stiamo perlustrando il quadrante intorno al luogo del ritrovamento.
- Risultati?
- La foresta è fitta…
- Ho detto: risultati?
- Nessuno, sinora. Signore.
- Voglio un rendezvous sullo stato della ricerca tra 1\20000 cicli standard.
- Affermativo.
- Tenente…
- Si?
- Dobbiamo trovarlo.
- Lo troveremo, signore.

Per la prima volta in vita sua Jabash ebbe paura. Paura di fallire. Paure delle conseguenze del suo fallimento. Paura dell’uomo a cui doveva tutto. Paura dell’Imperatore.

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