31 marzo 2009

Cacofonia bassa che trasmutava in un rantolo

Rami di Verdi Lame (26)
Il monaco udì le esplosioni. Tonfi sordi perfettamente sovrapposti. Una cacofonia bassa che trasmutava in un lungo, profondo, rantolo. Bombe. Lo stavano stanando. Sentiva dietro di sé l’eco dei passi marziali dell’esercito di Jabash. Era ancora lontano ma lo sentiva. Forse lo immaginava soltanto ma il rumore degli scarponi sulla terra devastata dai bombardamenti e dagli abbatti-albero era lì, vivo, sincero, nella sua mente. Vide l’esercito come un’emanazione folle della sete di potere di Jabash. Il cane dell’Impero.
Continuò a correre.
Il respiro veloce, affannato. Il corpo allenato alle più dolorose fatiche da anni di noviziato. Sentiva la fatica ma la ignorava. I suoi istruttori avevano plasmato la sua resistenza rendendola assoluta. Ogni suo muscolo urlava invaso dagli acidi della stanchezza ma lui correva, veloce, sempre più veloce, ignorando ogni grido, se non il suo. Alto nel cielo.
La fede. La certezza incrollabile, assoluta, divina di servire il Priore Tiresia, di venerarlo in ogni azione, di glorificarlo in ogni sofferenza, in elevarlo all’Oltre in ogni lacrima versata dell’assurdo sforzo. Era solo questo a spingerlo avanti, un passo dopo l’altro. Un gamba oltre l’altra nell’eterna venerazione del Priore e dell’Ordine. Il monaco credeva. E la fede lo ripagava. Non era mai stato solo umano. Era l’incarnazione vivente, sofferente, urlante, sbavante, della fede, della religione, del Priore e dell’Ordine. La verità assoluta che era destinata ad estendersi ovunque. Gloria al trionfo del Priore. Gloria alla distruzione dell’Impero.
La donna gli era dietro. Si voltò e la vide, leggiadra fra i tronchi, quasi danzasse, quasi volasse sopra l’erba pallida e il muschio nella penombra della foresta. Incrociò i suoi occhi e vi lesse stupore, meraviglia e paura. Il monaco intuì che anche la donna aveva capito che la loro corsa non aveva via di scampo. Erano entrambi condannati a finire nel luogo in cui Jabash, lo Sterminatore, lo Sciacallo, aveva deciso che tutto finisse. Il palcoscenico su cui si sarebbe recitato l’ultimo atto. Il monaco sorrise, un ghigno si disegnò sul volto. Una smorfia rigata dai rivoli di sudore scuro che gli colavano sul volto. Fiumi di sale e sangue. Il monaco accelerò la corsa e gli parve di udire il rantolo affaticato della donna della foresta. Neppure lei poteva capire. Si stavano avvicinando. Mancava ormai poco.
Conosceva la direzione. Non era il caso a guidarlo. Non era Jabash ad intrappolarlo. A costringerlo nella gabbia come un vile topo. Strinse a se con un gesto inconsapevole lo zaino al cui interno era riposto il libro. Il libro. Lì vi erano tutte le risposte. L’aveva letto un’infinità di volte e ogni volta si sorprendeva delle parole che vi erano vergate nella scrittura minuta e fitta del vecchio xenologo. Rivide davanti a sé la pagina, la piccola mappa tracciata con un tratto incerto, titubante. Il percorso nella foresta, impossibile da svelare per le rivelazioni satellitari, la coltre di foglie era impenetrabile ad ogni scan. Un tappeto verde e nodoso che si stendeva sul pianeta coprendolo e nascondendolo. Celando il suo segreto.
Ma a terra la traccia era chiara. Il monaco la vedeva di fronte a sé, gli sembrava che quasi risplendesse luminosa come una scia di luce. La riconosceva. Era la stessa che lo xenologo aveva tracciato sulla mappa del libro. Esisteva davvero.
Il monaco non ne aveva mai dubitato.
Ricordò gli occhi morti e spenti di Tiresia, il Priore, l’Ultimo Cieco. Sentì la sua voce profonda. Lontana. Le poche parole che disse. Non le avrebbe mai dimenticate.

- Abbi fede.

E il monaco aveva avuto fede e ora stava correndo seguendo l’invisibile sentiero tracciato dallo xenologo. Una folle corsa per giungere nel luogo in cui tutto si sarebbe concluso. Pensò a Jabash e ancora un ghigno gli si formò sul volto. Percepiva quasi la soddisfazione dell’imperiale, del cane dell’Imperatore. Lo vedeva gioire della vittoria. Pascersi nell’aver ancora una volta abbaiato ai piedi immondi dell’Imperatore. Si sbagliava. Quanto si sbagliava. Non era Jabash a condurre questo gioco, Jabash si illudeva di essere il predatore ma si sarebbe ben presto accorto di essere solo una preda, indifesa. Burattino di un gioco più grande con cui non aveva nulla a che spartire. Se non la sconfitta. Se non la morte.
Il monaco continuò a correre nel fitto sottobosco. E rise. Rise come mai prima aveva fatto.

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