31 marzo 2009

Grida Popolo della Foresta messo a morte. Grida e grida forte

Rami di Verdi Lame (27)
Pensò che era folle. Solo un uomo folle poteva correre in quel modo. Veloce e sgraziato come nessuna creatura mai prima di lui. Era orrendo a vedersi. La fatica gli devastava il volto in rivoli di sudore e sangue che dipingevano una maschera orrenda. Un dio della morte sceso sul pianeta alla disperata ricerca di vittime a cui santificare l’eterna sua sete. Non ne avrebbe trovati. Tutti erano già morti.
La donna seguiva l’uomo vestito con la tunica nera. La foresta urlava. Dolore. Sentiva il dolore degli alberi abbattuti. La linfa verde che sanguinava a terra fecondando il muschio pallido. Nutrendo ossa ormai sbiancate. Nell’aria vi era una vibrazione. La foresta sembrava ribellarsi allo scempio dell’Impero che avanza distruggendo, abbattendo, bombardando. Jabash il maledetto. Niente pareva soddisfare la sua brama. Cane immondo, servo dell’Impero. Sputò per terra la donna. Sentì la rabbia montargli dentro. Una rabbia densa, viscida, che la invadeva, la penetrava, la violava. Una rabbia che la stuprava, così come era stato stuprato il suo popolo. Pacifico e innocente. Figlio del verde e del marrone degli alberi, odoroso di foglie e imperscrutabile come mille tronchi saldi sino alla profondità più lontane della terra.
Quanti villaggi cancellati. Quanti uccisi e deportati. Come non fossero mai neppure esistiti. Neppure il ricordo. Si chiese se lei fosse l’ultima della sua gente. Se tutti gli altri, uomini, donne e bambini fossero ormai polvere a solcare il cielo e come una nube scura ad oscurare il sole, indifferente ad ogni patire. Sole rosso, come un bioia qualunque che continua a girare in cerchio. Avido.
Lei era il suo popolo. Ciò che avrebbe ricordato, ciò che avrebbe raccontato sarebbe rimasto. Altrimenti tutto sarebbe accaduto inutilmente e il suo popolo dimenticato e lei martire sarebbe stata due volte. Uccisa infinite volte.
Pensò al suo popolo. E lo chiamò. Lo invocò a sé come altre migliaia di volte aveva fatto.

- Venite, disseccati, tritati, macinati, venite, disponetevi in cerchio, una ruota gigante intorno a me, un solo girotondo. Nonni, nonne, padri e madri con i bambini in grembo, ossa, venite a me dalla polvere, venite. Voglio vedervi tutti, guardarvi. Voglio sul mio popolo messo a morte posare lo sguardo zitto e ammutolito.

E la donna correva, come danzasse nella foresta, veloce inseguendo un uomo vestito di nero che portava la sua stessa rabbia, la sua furia e la vendetta che era solo dolore infinito senza alcuno sfogo. Neppure nelle lacrime.
Correva la donna, come danzasse, e cantava. Un canto melodioso e triste soffocato dalla fatica e dal respiro affannoso che nessuno poteva sentire, né capire. Nessuno più parlava la sua lingua e l’uomo davanti a lei era indifferente.
Cantava la donna, un canto parco troppo ornato per essere ricordato, ma lo ripeteva incessante, mormorandolo, gridandolo, sussurrandolo, urlandolo in un unico grido che si perdeva dentro la foresta. Nel buio. E lontano nei ricordi.

- Suono. Mi sono seduta per terra e ho suonato e cantato malinconica: oh, popolo mio. Milioni sono stati a sentire intorno a me, milioni messi a morte si sono messi in ascolto, milioni.

Sino a che il cantò non si tramuta in muto pianto.

- Gridate da ogni sabbia, da sotto ogni pietra, da tutte le polveri gridate e da tutte le fiamme e da ogni fumo. C’è il vostro sangue e sudore, c’è il midollo delle vostre ossa, c’è la vostra carne e vita. Gridate forte, in alto. Gridate. Grida Popolo della Foresta messo a morte. Grida e grida forte.

La donna continuò a danzare tra i tronchi bagnandoli di sudore e lacrime.

Questi versi sono tratti liberamente dal “Canto del popolo Yiddish messo a morte” di Itzak Katzenelson nella traduzione di Erri De Luca – Mondadori – 2009.

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