25 marzo 2009

Intermezzo II

Rami di Verdi Lame (23)
INTERMEZZO II
Il libro. La mano sanguinava, rosso ovunque.
Il sapore ferroso del sangue si mischiava con gli odori di spezie del porto e il dolciastro del lago si confondeva con il sapore sapido della morte. Oltre la riva, sfuocate sul lago si vedevano piccole vele sfiorare la superficie sporca dell’orizzonte e scivolare via in una perenne staticità eterna. Voci e grida si inseguivano nello spiazzo intorno allo sbarco delle navi. Uomini e donne e bambini, una calca indistinta di corpi accaldati e sporchi. Bancarelle e mercanzie accatastate in un mercato improvvisato che attraeva le genti delle aree abitate vicine e persino un po’ oltre.
Il Popolo della Foresta non aveva nessuna forma regolamentata di economia e tutto funzionava attraverso scambi e baratti di varia natura, perlopiù casuali incroci di esigenze diverse. Cibo per abiti, abiti per attività di qualunque natura, il costo era deciso semplicemente dal bisogno di quel momento. Non esisteva il guadagno solo la quotidiana soddisfazione di richieste e necessita di base. L’avidità non era mai stata neppure pensata.
Il pianeta della foresta era generoso con il suo popolo: spazi e terre per chiunque li volesse, cibo in abbondanza anche se privo di variazioni, una dieta ripetitiva e noiosa. Ogni altra cosa era un bisogno superfluo. Un lusso inutile.
Il porto era il luogo in cui di solito gli scambi si concentravano, nessuno lo aveva mai stabilito ma era ormai prassi comune accalcarsi lì per cercare quanto serviva tanto che in alcuni giorni vi si riuniva così tanta gente da rendere impossibile ogni forma di baratto e tutto sfociava in urla e confusione. Ogni abbozzo di pseudocommercio falliva miseramente.
Il sole quella mattina era sorto pallido.
Una leggera brezza spirava portando il sapore salmastro delle acque lacustri e spazzando via l’inconfondibile odore di muschio e alberi che gli abitanti della foresta si portavano addosso come un marchio. Il profumo dell’appartenenza.
C’era confusione, il solito sottile chiacchiericcio urlato di ogni mercato della galassia ma c’era dell’altro, sembrava che intorno aleggiasse qualcosa di diverso. Un silenzio denso pareva nascondersi sotto la superficie del vocio e ogni tanto emergeva improvviso, muto. Non era raro quella mattina vedere persone fissarsi come in attesa che qualcosa capitasse. Vi era nell’aria un’aspettativa di sventura, la sensazione di un disastro.
Inizialmente nessuno si accorse del vecchio. Giaceva in un angolo, quasi nascosto da una massiccia costruzione di legni scuri. Un semplice deposito utilizzato per stoccare piccole quantità di merci varie. Un luogo comune nel panorama del mercato tanto che nessuno vi prestava più attenzione. Era lì. Sepolto dall’ombra nera del rozzo deposito.
Vecchio, i capelli bianchi lunghi e disordinati gli cadevano sulla fronte e sugli occhi spalancati. Immobili e fissi sul nulla. Gli abiti erano sporchi di foresta, macchiati di verde e marrone in una naturale ripetizione mimetica dello sfondo abituale del pianeta. Era magro. Il viso scavato, segnato da una barba spessa e grigia. La bocca aperta a disegnare uno strano ghigno. Sembrava sorridere. Un sorriso deforme che veniva dal regno dei morti.
Dapprima furono dei bambini a vederlo. Lo presero a calci pensando fosse un vecchio addormentato, ci giocarono un po’ fino a che uno di loro non suggerì che forse era morto. Chiamarono i genitori con l’entusiasmo dei bambini di fronte alle novità.

- Un morto! Un morto!

E il Popolo della Foresta scoprì che l’omicidio aleggiava sulle loro teste e che il tabù poteva essere infranto. Ma ad altri fu chiaro che il cielo stava venendo a reclamare la loro beata solitudine. La fine si era svelata.
Il vecchio sembrava essersi trascinato per chilometri prima di accasciarsi e morire. Le sue scarpe erano consumate e sul viso si leggeva la fatica della vita che scivola via. Lentamente.
Lo deposero su una tavolozza di legno cercando inutilmente di animarlo. Gli tolsero la casacca lacera e videro la ferita. Uno squarcio profondo e lungo sulla parte laterale del costato. Era morto dissanguato cercando di raggiungere il porto stringendo fra le dita, persino oltre la morte, un oggetto. Un libro. Mai ne avevano sfogliato e letto uno ma sapevano che quell’oggetto era un libro. Consumato e fitto di una scrittura minuta e indecifrabile.
Le unghie taglienti del vecchio avevano scavato la superficie della copertina di pelle leggera. Il polpastrelli conficcati così in profondità da lasciare solchi e gibboni. Vi era il senso di una vita e la ragione di una morte in quella presa.
Il popolo della foresta che era accorso numeroso a vedere il cadavere dell’uomo ucciso si chiedeva chi fosse. Non era uno di loro. Neppure la foresta con i suoi colori era riuscita a cancellare il pallore lontano di una pelle aliena. I tratti del viso era diversi. Nessuno sapeva spiegare come o per quale ragione ma erano differenti. Estranei.
Il vecchio non era un uomo della foresta.
Fu lasciato a giacere immobile sulle assi di legno per molto tempo fino a che non vennero dai villaggi vicini gli sciamani.
Il porto era deserto e avvolto dalla notte quando giunsero e si sedettero intorno al corpo del vecchio e presero una decisione.
Per gli sciamani non esisteva il tempo. Le giornate passavano identiche l’una all’altra ma non vi era ripetizione, non un unico giorno che si rincorreva identico e assillante. Il tempo era una distesa che si svolgeva meravigliosa di fronte a loro. Il tempo aveva senso di per sé, nel suo banale scorrere. Non si dava qualità all’eternità che passava.
Sedettero per lunghe frazioni di ciclo. Il Popolo della Foresta in disparte, sul limitar del bosco in attesa di una loro sentenza. Intanto lo sciabordio placido del lago continuava indifferente.
La sentenza venne. I saggi si alzarono sulle loro gambe malferme e stanche. Uno di loro parlò. Non avevano discusso. Non avevano neppure parlato. Avevano lasciato che il silenzio li penetrasse e li conducesse alla decisione.

- Che sia bruciato. L’uomo straniero non è mai esistito. Così pure la sua morte.

Poche parole. Parole di paura. I saggi sapevano. I saggi avevano capito. Il loro mondo era giunto alla fine. La Foresta sarebbe stata distrutta e tutto il suo popolo perseguitato e ucciso.
Le porte segrete del cielo si erano aperte e quel vecchio che giaceva di fronte a loro era un emissario delle stelle e di tutti gli altri loro popoli. Ucciso probabilmente da altri emissari. Uomini che non conoscevano il tabù della morte.
Mentre lo sfrigolio del fuoco ardeva il corpo scheletrico del vecchio gli anziani alzarono una preghiera, un triste lamento che salì a spirale verso il cielo accompagnato dalle volute di fumo acre che si sprigionano dalla pira.
Nessuno nel cielo avrebbe ascoltato quella preghiera.
Il libro che il vecchio stringeva tra le dita non fu arso. Venne affidato al più saggio fra gli sciamani affinché lo custodisse segreto. Silenzioso monito al Popolo delle Foreste. Nessuno doveva conoscerne l’esistenza. Sarebbe stato tramandato da sciamano a sciamano fino a che qualcuno non sarebbe venuto a reclamarlo. Ma allora sarebbe stato già troppo tardi.

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