31 marzo 2009

Intermezzo III

INTERMEZZO III
Il suo viaggio stava per aver fine. Non ne era sicuro ma tutto ciò a cui aveva dedicato la sua vita e i suoi studi era là. Oltre quella fila di alberi fitti. Sembravano un muro. Una barriera. Un limite da cui si intravedeva l’oltre che andava cercando da così tanto tempo. Vi aveva dedicato tutto. La sua cittadinanza. La sua famiglia. La donna che da ragazzo aveva amato. Persino la sua stessa reputazione di studioso e di accademico. Tutto per la ricerca che ora si stava per concludere. Là. Dietro quegli alberi. Pochi passi ancora.
Si sedette per terra. Non gli importava del fango e del terriccio, ormai erano settimane che viveva nella foresta e persino la sua pelle stava tingendosi del colore delle foglie, sottili, sinuose come lame. Verdi lame.
Indossava pesanti pantaloni di tela tenuti in vita da una corda arrotolata diverse volte. Una lunga casacca di tessuto grezzo e sopra di essa una leggera cotta verdastra. Era dimagrito molto. Le sue provviste era finite da tempo e si era cibato imitando malamente i rituali di caccia del popolo delle foresta. Ma proveniva da una diversa cultura, ricca, abituata ad un benessere dato per scontato. Gli esiti delle cacce erano stati deludenti e si era così accontentato dei pochi arbusti semicommestibili che crescevano sotto lo spesso tetto di foglie. Cibo sufficiente per tenerlo in vita e permettergli di continuare la sua ricerca.
Dalla sacca che portava a tracolla estrasse un pezzo di corteccia che cominciò a masticare. Aveva un sapore intenso, uno strano miscuglio di essenze per lui completamente nuove. Lo rilassava masticarne piccoli pezzi. Le ruminava lentamente per poi sputarle. Molte volte aveva combattuto così i morsi della fame.
Si guardò intorno. Il silenzio era interrotto di tanto in tanto dal flaccido gracchiare degli uccelli neri che bivaccavano sui tronchi più alti. Non gli prestò attenzione e estrasse il quaderno. Fissò le pagine vergate della sua grafia fitta e minuta. Il suo diario. Lì vi erano annotate tutte le sue riflessioni sulla ricerca che stava compiendo. Le prove che si facevano sempre più evidenti. I dubbi che lasciavano spazio a certezze. Le sue ipotesi che divenivano rigo dopo rigo teorie. Inconfutabili. Evidenti. Palesi. La verità sembrava dipingersi sulle pagine consumate e ingiallite.
Il diario conteneva però qualcosa di più importante della verità. La strada.
Aveva mappato il suo cammino con attenzione. Si era avvalso di punti di riferimento che sperava potessero rimanere stabili per lungo tempo. Alberi possenti e secolari dalle forme bizzarre e riconoscibili, i radi corsi d’acqua, rocce che spuntavano qua e là e che sembravano briciole lasciate di proposito da possenti giganti. Nel diario vi era la strada verso la prova definitiva. La strada per possedere la verità.
Cominciò a scrivere. La sua mano era ferma nonostante la fame perenne e la fatica. Senza fretta descrisse il percorso svolto nell’ultima giornata. Ricordava ogni dettaglio con precisione e fedelmente li riportò sul quaderno. Chiunque avesse letto le pagine incise della sua grafia fitta e minuta avrebbe potuto ripercorrere il suo cammino sino a quel punto. Sino alla soglia dell’oltre. Questo era il suo intento. Non scriveva per sé. Ogni volta pensava ad un ipotetico lettore. Un altro esploratore che avesse voluto un giorno ripercorrere le sue orme. La sua ricerca. Un futuro affannato ricercatore della medesima verità.
Scrisse per lungo tempo vincendo la frenesia di correre oltre quell’intrico di alberi.
Lentamente si alzò, sputò il pezzo di corteccia ormai insapore e restò fermo un attimo. Ripensò alla sua carriera di xenologo. Agli studi sulle civiltà dei pianeti ai margini dell’Impero. Rivisse i lunghi anni di pellegrinaggio tra i monasteri dell’Ordine per studiarne la storia e le tradizioni. Conosceva i riti, le leggende, aveva letto i testi sacri, gli scritti eretici. Aveva sgolato libri antichissimi abbandonati in biblioteche diroccate. In una di esse, su un pianeta coperto di un denso e torrido deserto di sabbia gialla, aveva passato lunghi cicli immerso nella lettura di testi rinsecchiti dal caldo. E lì aveva fatto la scoperta. Era nascosta fra le pieghe di forme arcaiche e rituali. Sepolta in parole ormai sconosciute e recitate senza alcuna riflessione. Abbandonata in scaffali polverosi e dimenticati.
Lì vi era una verità che ribaltava la storia dell’universo così come era stata conosciuta sino ad allora. Si rivide giovane studioso abbandonare tutto. Gettare al vento una promettente carriera nelle accademie dell’Impero. Risentì per l’ennesima volta gli sberleffi dei colleghi attempati. Gli insulti. Lasciò tutto e si avventurò da solo nella ricerca. Di fronte a sé solo speranza. O forse un miraggio.
Quanto tempo era passato? Non lo ricordava. Si guardò le mani e le vide rugose. Vecchie. Quando aveva cominciato era giovani, morbide e flessuose. Tanto tempo.
Fece un passo nella direzione degli alberi. Cosa avrebbe trovato, si chiese. La risposta che andava inseguendo da cicli e cicli, si ripeté per l’ennesima volta. E poi? E poi la sua vita sarebbe finita. Finito lo scopo della sua stessa esistenza. Sarebbe stato solo un vecchio con una montagna di ricordi e di recriminazioni. Rimpianti e rimorsi. Solo un vecchio. Nessuna altra ragione. Nessun senso. L’assurdo sarebbe precipitato e l’avrebbe avvolto. Impietoso.
Fece un altro passo. Aggiustò la sacca sulle spalle e chiuse gli occhi. Mormorò una preghiera tradizionale del popolo della foresta e s’incamminò.
Giunse agli alberi in pochi minuti. Erano fitti tanto da rendere quasi impossibile il passaggio. A fatica riuscì a destreggiarsi. Si intrecciò e si fuse con i tronchi. Con la foresta stessa. Un ultima, assoluta, piena comunione fra lui, che era straniero del pianeta, e gli alberi che quel mondo dominavano. Un matrimonio rituale. Un abbraccio. O forse semplicemente l’ultima, finale, approvazione.
Lo xenologo uscì oltre il muro verde e marrone e si trovò di fronte ad un piccolo spiazzo scarsamente illuminato dal pallido sole che non filtrava dalle foglie. In mezzo lo vide. Si rese conto che neppure lui aveva realmente mai creduto alla sua esistenza. Era stata la sua segreta e inconfessata illusione. Il castello di certezze su cui aveva costruito una vita in esilio. L’inganno a cui aveva voluto credere. Ma ora era lì, solido di fronte ai suoi occhi.
Piccolo e diroccato ma enorme nella sua evidenza. Era vero. Era reale. E lo xenologo si inginocchiò e pianse.
L’aveva trovato. Il tempio. Aveva trovato il tempio.

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