16 marzo 2009

Lei era la figlia della foresta

Rami di Verdi Lame (17)
La cacciatrice aveva seguito le orme dell’uomo sceso dal cubo-merci. Impronte che sembravano urlare nel silenzio della sua sordità. Rami divelti, fogli calpestate, arbusti strappati. Simboli che erano come una scia luminosa nella notte più buia. Segni grossolani nell’ordine immutabile della foresta.
La donna correva veloce.
Da sempre viveva nella foresta. La foresta era la sua dimora. Conosceva il rispetto che era necessario tributarle. La foresta era docile con chi non le faceva violenza. La foresta era un’amante affettuosa che si dava a chiunque meritasse il suo amore.
L’eretica era l’ancella della foresta, la sua compagna, la figlia, la sacerdotessa, l’incarnazione.
La donna era la foresta stessa.
Seguiva le tracce dell’uomo che andavano rapide lungo una direzione ben precisa, senza esitazioni, senza dubbio, spedite per quanto potesse essere veloce il cammino di un estraneo.
La donna non udiva più nulla, il sangue le si era rappreso completamente sulle guance ma lei non l’aveva lavato via, sarebbe diventata la sua maschera, il suo nuovo, orrendo volto. Il ghigno sanguinario di colei che portava la morte. La morte che non poteva ascoltare le invocazioni alla pietà.
Tutt’intorno albeggiava e le cime degli alberi più alti si rischiaravano nella tenue luce bianca del grande sole che spuntava oltre l’orizzonte. L’uomo aveva avuto un buon vantaggio ma ormai era certa fosse lì vicino, poco più avanti, ancora non lo vedeva, nascosto dai tronchi, ma quasi ne sentiva l’odore, l’immondo fetore alieno. Il puzzo canceroso.
L’eretica si chiese se l’essere sceso dal cubo fosse consapevole di dove stava andando. Se avesse una meta precisa. Perché l’uomo correva in quella direzione?
Perché proprio là? Là. Là era un villaggio del suo popolo.
Un piccolo centro poco popoloso abbandonato frazioni di cicli prima. Uomini, donne e bambini all’improvviso partiti per andare più lontano. Migrare per continuare a migrare. No, pensò la donna. Non era un migrare verso luoghi nuovi, più belli, più ricchi. Era una fuga. Fuggire per continuare a scappare dalle torri, dall’Impero, dai soldati. Dalla morte.
Era già stata in quel villaggio. Ricordava la piccola casa di preghiera dello sciamano. Il terreno sacro su cui poggiava il tappeto colorato. Il richiamo degli dei della natura. Del cielo e della terra. Del giorno e della notte.
Il tappeto inviolato che si era bagnato dalle lacrime dell’eretica, dal suo pianto caldo e salato di rabbia e dolore.
Continuò a correre, sempre più veloce. Volava l’eretica tra le fronde.
Il villaggio spuntò oltre i tronchi più grossi. Prima casupole rade e sparpagliate in giro. Poi il centro, capanne quasi ammassate le une alle altre. Come in un abbraccio caldo ed affettuoso di intere famiglie.
L’eretica non perse le tracce dell’uomo dalla tunica nera. Lesse i suoi ridicoli tentativi di nascondersi all’ombra dei tronchi e delle capanne. Era lì. Lo sentiva. Lo percepiva.
Silenziosa si arrampicò su una pianta dalle fronde basse. Invisibile si muoveva con un’agilità che sarebbe sembrata inumana a molti popoli di pianeti lontani. Ma lei era la figlia della foresta.
Dall’alto lasciò vagare lo sguardo su tutto il villaggio e gli odori vennero a lei come tanti emissari.
Dapprima non lo vide e pensò di essersi sbagliata. Poi capì perché non lo trovava.
Non fosse stata sorda avrebbe sentito il mormorio soffuso del monaco ma le sue orecchie erano ormai inutili. Escrescenze sul viso.
L’eretica vide l’uomo che stava inseguendo prostrato nella capanna dello sciamano. Lo vide seduto, le gambe incrociate. Osservò le labbra dell’uomo muoversi lentamente come se stessero recitando. Studiò il libro decorato che stringeva fra le dita lunghe e affusolate. Non
aveva mai visto un libro ma sapeva a cosa serviva. Era un contenitore di voci. Di mille voci diverse.
Tornò a guardare il monaco. Il volto emaciato, innaturalmente magro, affaticato. La peluria sul viso, rada, sporca del fango della foresta.
Riconobbe l’emozione che si celava dietro l’espressione degli occhi chiari dell’uomo. Tristezza. Infinita tristezze e un’immensa rabbia. Odio furente.
Il monaco leggeva dalla pagine del libro, parole che lei non poteva ascoltare né tanto meno capire, parole di una lingua sconosciuta e distante anni luce dal suo semplice idioma di ogni giorno. Ma la cacciatrice comprendeva il senso della nenia, intuiva il significato profondo della preghiera dell’uomo dalla tunica scura. Il significato segreto, nascosto. Vero.
La donna vide se stessa. L’identica furia cieca nata dalla disperazione, dall’odio. Dalla rabbia.
E capì che la creatura che sedeva blasfema nel luogo più sacro del villaggio abbandonato non era un suo nemico.
L’uomo era colui che stava aspettando.
Colui che aveva invocato per lunghi cicli nelle notti più buie e nei giorni più tristi.
Era l’uomo che avrebbe distrutto il dominio dell’Impero sul suo mondo. La furia.
L’uomo era la vendetta.
L’eretica chiuse gli occhi e pianse.

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