23 marzo 2009

L’odio nascosto nell’urlo

Rami di Verdi Lame (21)
Jabash fissava l’immagine che occupava tutta la parete della sala di osservazione. Poggiato sulla superficie metallica della stanza, verso ovest, lo schermo non era altro che una sottile patina. Un complesso sistema di organismi unicellulari foto-riflettenti in grado di emanare deboli bagliori colorati che venivano attivati da impulsi elettrochimici attraverso un diffusore wet-file. Un meccanismo piuttosto semplice usato nelle situazioni di emergenza per ricevere immagini in bidimensione, considerato dalle elite dell’Impero uno strumento obsoleto e scomodo era stato messo fuori commercio e i pochi pezzi rimasti nei magazzini venduti sottocosto alle colonie più esterne.
La stanza era vuota. Jabash aveva preteso che tutti i tecnici uscissero. Voleva restare solo. Il satellite geostazionario 4.D aveva individuato l’obiettivo. La mappatura orbitale che le migliaia di veicoli stavano completando aveva finalmente dato i suoi frutti.
L’avevano trovato.
Il monaco.
Si era spostato veloce dentro la foresta, nessuno immaginava che avesse potuto percorrere un tratto così esteso. Era ormai lontano dal luogo in cui era stato rinvenuto il cubo-merci.
Jabash immaginò che avesse corso senza interruzioni, senza soste. Lo ammirò. Un uomo costretto ad otto cicli standard di isolamento dentro un immonda solitudine attraverso intesi sistemi planetarie era ora capace di non pensare ad altro che a correre, veloce, implacabile verso il suo obiettivo. Ma quale il suo obiettivo?
Jabash sapeva che i monaci avrebbero dato mille delle loro vite per il trionfo del loro culto. La fede nel loro Priore era assoluta, incondizionata. Servi fedeli della brama di potere di Tiresia, il Cieco, il Veggente.
Vedeva il monaco sul grande schermo. Era lì in piedi, di fronte a lui. Le coordinate ben precise illuminate nell’angolo a destra. Lo osservò. Era magro. Scheletro di un uomo che continua a camminare. Nient’altro che volontà, pura, assoluta.
Era in un piccolo villaggio del Popolo della Foresta, qualche casupola abbandonata, la popolazione sparita. Probabilmente uccisa, pensò Jabash. Non provava nessuna compassione per le migliaia di morti che aveva causato; l’invasione imperiale su quel mondo di periferia era necessaria e i nativi erano solo piccoli e inutili ostacoli sulla strada della gloria dell’Imperatore.
Il monaco però non era solo.
Jabash ordinò allo schermo di aumentare lo zoom dell’obiettivo satellitare e immediatamente l’immagine si ingrandì.
Una donna stava in piedi di fronte al monaco. Una donna del Popolo della Foresta. Alta, sporca, dipinta di fango e terra. Jabash trattenne un moto di disgusto nel vederla. Provava ribrezzo per quelle creature selvagge. Degne solo di morire.
Le sue squadre erano già state allarmate e stavano raggiungendo le coordinate indicate dal satellite spia, poche frazioni di ciclo e sarebbero giunte sull’obiettivo. Jabash aveva preferito aspettare. Voleva prima vedere in faccia il monaco. Osservare il volto del suo nemico, conoscerlo, scolpirlo nella memoria, indelebile.
Il monaco fece un passo verso la donna. Perché il monaco perdeva tempo con una femmina del Popolo della Foresta. Quali erano i suoi piani?
Lei non si mosse, quasi che lo stesse aspettando. Sicura.
Jabash osservò, chiuso nella sala di osservazione della Torre 14, il monaco farsi vicino alla donna e ad un passo da lei parlarle.
Il satellite regolò in automatico lo zoom e si focalizzò sulle labbra del monaco leggendone il veloce labbiale e riconvertendolo in suono.
Una voce metallica e atona si diffuse per la stanza. Jabash ascoltò il monaco parlare.
La donna rispose qualcosa ma il sistema di traduzione del computer centrale non era stato aggiornato con l’idioma del Popolo della Foresta, era inutile conservare un linguaggio così primitivo. Ogni traccia del Popolo doveva scomparire.
La donna non parlò più. Cominciò una specie di danza, un lungo silenzioso racconto. Gesti, passi, smorfie, un linguaggio universale fatto di silenzi e di leggere movenze.
Jabash la osservò attentamente e un dubbio serpeggiò nella sua mente.
Era venuto a conoscenza di sporadiche azioni terroristiche contro alcune delle Torri nei quadranti periferici sotto il controllo dell’Impero. Poche cose, qualche Torre abbattuta e rade incursioni armate. I servizi di controllo del territorio sostenevano che si trattava di una banda di ribelli e che presto sarebbe stata catturata e giustiziata ma nessun risultato concreto era ancora stato raggiunto.
Erano azioni veloci, attacchi mirati con un solo obiettivo: distruggere le Torri e causare più morti possibili. Jabash aveva preferito non interferire e lasciare che fossero i servizi di presidio del territorio a sbrigarsela ma ora, vedendo quella donna muoversi raccontando una storia muta, intuì il perché dei continui insuccessi contro i terroristi.
Non era una banda organizzata. Era una donna. Sola.
Una donna carica di odio, di rabbia. Una creatura che portava avanti la sua vendetta personale. La folle azione di un singolo assalitore, imprevedibile, inaspettata, sfuggente.
Era un caso che il monaco fosse lì, nel villaggio abbandonato, a parlare con la femmina? Il monaco e la terrorista insieme.
Jabash riflettè.
Dalle parole del monaco sembrava che non la conoscesse. Che l’avesse incontrata per sbaglio. Una coincidenza? Aveva imparato a non credere alle coincidenze.
La donna finì di gesticolare mimando l’ennesima Torre abbattuta, avvolta dalle fiamme crepitanti fra le grida di morte e disperazione.
Vi fu un lungo silenzio e Jabash si chiese se il monaco avesse davvero capito cosa la donna gli stava raccontando.
Poi il monaco parlò e Jabash non ebbe bisogno del lettore labbiale per comprendere la parola che le labbra scarne e violacee dell’uomo pronunciarono. Era un nome. Il suo nome.
Jabash.
Jabash.
E vi fu l’urlo. L’urlo del disprezzo che brama vendetta, che chiede sangue. Sangue e morte a lavare lo scempio compiuto dall’Impero sul pianeta della Foresta.
Jabash non poteva ascoltare il grido demente della donna ma lo vide. Lo vide nello schermo e fu come se fosse stato urlato lì, con lui, nella stanza di osservazione. Assordante.
Lo vide vivo, stridente.
Lasciò che il grido silenzioso gli scorresse sulla pelle, nei tessuti, dentro fino al midollo. Fu come uno squarcio, una cicatrice incisa brutalmente, un marchio scarnificato.
Jabash non avrebbe dimenticato l’odio nascosto nell’urlo.
Quell’odio si sarebbe trasformato in dolore. Sofferenza. E alla fine morte.

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