17 marzo 2009

Noi abbiamo paura

Rami di Verdi Lame (18)
Jabash attese per lunghe frazioni di ciclo la risposta dell’Imperatore. Intontito se ne stava seduto davanti ad una consolle di ricezione accesa e impazzita di led intermittenti. Osservò le luci alternarsi senza alcun apparente senso, illuminarsi, spegnersi, cambiare colore. Si chiese se almeno i droni tecnici riuscissero a decifrare l’insensato linguaggio policromo che sembrava gridare sul quadro dei comandi. A Jabash non importava, lui era lì, immobile, ad attendere il proprio destino. Le parole che aspettava avrebbero condizionato la sua vita, l’avrebbero decisa. Il comandante sapeva che l’Imperatore era severo. Bizzoso e crudele nel suo egoismo imperiale non mostrava inutile pietà, vana commiserazione. L’intera galassia era semplicemente lo strumento del suo dominio. Il luogo limitato dove affermare il suo infinito potere. E gli esseri viventi che brulicavano nell’Impero sue creature, automi destinati all’affermazione della gloria imperiale.
Il trionfo dell’Imperatore era anche il dovere di Jabash. Era il suo unico scopo. Sino a che avrebbe vissuto avrebbe lottato, ucciso, rubato, distrutto, cacciato, inseguito nel nome e per la volontà dell’Imperatore. Per il dominio dell’Impero su ogni luogo della galassia.
Jabash ripensò ai cicli trascorsi, ai molti cicli che l’avevano portato seduto a quella tastiera di trasmissione. Rivide le battaglie combattute, ricordò l’addestramento feroce a cui era stato sottoposto, ripensò alle migliaia di razze e popoli che aveva sterminato fiero nelle insegne dell’Impero. Cicli standard di fedele obbedienza e distruzione.
Il tempo ora scorreva lento e il Comandante non poteva far altro starsene come imprigionato in una densa bolla di inutilità. Aspettare. Lui che era l’uomo delle battaglie, il Cacciatore, lui che aveva un soprannome diverso per ogni pianeta devastato era ora impotente. Sentì sulle spalle tutto il peso della sua biologia ed ebbe paura.
Un gracidare fastidioso lo fece sobbalzare. Alzò lo sguardo e fuori, appollaiato alla ringhiera dell’ampio ballatoio della torre, oltre il vetro di osservazione, un rapace nero lo fissava. Jabash sentì su di sé gli occhi neri, cattivi, piccoli, dell’uccello. Era raro che quei volatili si spingessero così in alto, fin su alle camere di osservazione.
Le camere erano ampi spazi circolari posti nella parte più alta delle torri, un diametro spesso superiore a quello della struttura portante le facevano sembrare una sorta di copricapo. Jabash utilizzava le camere come luoghi da cui osservare le vicende dei mondi conquistati, controllare eventuali assembramenti in corso e nel caso intervenire. Dalle camere di osservazione la vista poteva spaziare sino alla linea dell’orizzonte. E nell’intimità più segreta.
Ma su quel pianeta le camere era inutili. Il folto manto verdemarrone della foresta copriva tutta la superficie nascondendo tutto ciò che accadeva sul terreno. Jabash trattenne un’imprecazione e continuò a fissare il volatile.
Erano creature flaccide, pingui, i loro movimenti lenti, boriosi. Arroganti nella loro suprema dominazione.
Il rapace restava immobile. Lo sguardo puntato verso Jabash che si chiese quanta intelligenza vi fosse in quello sguardo. Quanta sfida. Gli sembrò di leggervi delle silenziose parole. Un’infinta commiserazione. L’immondo uccello nero gli stava sfacciatamente mostrando la sua infinita superiorità ricordandogli che nulla lui avrebbe mai potuto contro il predominio dei rapaci su quel pianeta. Il pianeta della foresta era loro. E lo sarebbe rimasto per sempre.
Jabash fu tentato di alzarsi e di scacciare via il volatile dalla ringhiera del ballatoio ma qualcosa di ben più importante lo distolse dal suo proposito.
Era arrivato. Il messaggio dell’Imperatore era arrivato. La risposta al suo dispaccio. Al suo fallimento.
Si mise comodo sulla sedia. Chiuse gli occhi e respirò lentamente poi li riaprì e diede il comando di lettura.
Il messaggio portava le consuete effigi imperiali. Ghirigori e stemmi barocchi, anacronismi di altre epoche.
L’Imperatore era solito comunicare attraverso wet-file direttamente alla corteccia celebrale del destinatario ma con Jabash, da sempre, aveva preferito altre modalità. Antiche e desuete ma il Comandante non aveva mai obiettato.
Il soft-file digitallizato si aprì sul piccolo schermo della console di trasmissione. Led si accesero e altri si spensero.
Il foglio che Jabash vide era bianco. Si aspettava le solite lunghe missive dell’Imperatore, pagine fitte di convenzionali forme espressive costruite da saggi e dotti per celebrare la gloria dell’Impero e del suo rappresentante vivente.
Nulla di tutto ciò. La pagina era quasi completamente intonsa tranne una breve scritta. Poche parole nella lingua della galassia.
Jabash le lesse. Poi le rilesse. Ancora una volta, poi un’altra e un’altra. Guardò le parole infinite volte come se non riuscisse a capirne il senso. Come se fossero solo simboli tracciati senza alcun significato. Significanti privi di senso. Silenzio scritto.
Lesse. Per l’ultima volta.

- Noi abbiamo paura.

E anche Jabash ne ebbe.

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