09 marzo 2009

Una vaga alba oltre le cime

Rami di Verdi Lame (16)
Il monaco giunse al villaggio quando una vaga alba stava spuntando oltre le cime delle conifere più alte. Aveva camminato tutta la notte, si era fermato solo per un leggero pasto cibandosi di alcune bacche che crescevano nel sottobosco. Nei mesi prima della sua partenza dal Pianeta Sacro, ormai otto cicli standard prima, gli erano state impartite delle veloci ma minuziose nozioni su come poter sopravvivere in una foresta. Ricordava tutto con estrema precisione, il nome delle bacche commestibili, la forme e il colore di quelle velenose, le piante utili come medicinali e gli arbusti dove era probabile avrebbe trovato nidi di qualche mammifero. Proteine fresche e sanguinolente.
Aveva raccolto le piccole bacche viola e a manciate le aveva ingurgitate, la sensazione nuova di cibo solito fra i denti. Faticava a masticare, i muscoli delle mandibola erano quasi atrofizzati e persino i denti erano deboli. Aveva vissuto troppo tempo cibandosi solo di liquami succhiati da un tubicino.
Il monaco sapeva che non doveva esagerare, il suo stomaco non era più abituato ad assimilare composti complessi, doveva lasciare che riprendesse i ritmi di un tempo, i propri ritmi biologici, lenti e costanti.
Le bacche avevano un sapore intenso, così diverso dalla sensazione che il liquame del cubo-merci gli lasciava che gli sembrò ora di aver in bocca un tizzone ardente, come un fuoco che gli bruciava sulla lingua e sulle pareti del palato ma il monaco continuava a masticare, incessante. Felice.
Vide le prime casupole spuntare fra le fronde degli arbusti e si fece prudente. Smise di camminare a passo sostenuto. Sfruttò i tronchi degli alberi per nascondersi mentre avanzava si soppiatto, cercando di scrutare nelle case che intravedeva poco oltre.
Non scorse nessun movimento. Nessun fuoco acceso. Nessun segno di vita.
Dopo le prime sparute case esterne gli edifici si facevano più frequenti, piccole capanne costruite con i rami degli alberi e con arbusti vari. Molte erano prive di tetto e altre avevano una traballante struttura di paglia essiccata.
Ma mano che si addentrava nel villaggio il monaco si faceva più cauto, si chiese se qualcuno potesse essere nascosto nell’ombra delle costruzioni, qualcuno di minaccioso, pronto a ghermirlo. Si fece se possibile ancora più guardingo. Proseguì cercando riparo nelle ombre che si facevano via via più labili con l’alba che incombeva.
Ancora nessun rumore, nessun segno di vita.
Il monaco annusò l’aria in cerca di odori, legna bruciata, cibo cucinato o l’inconfondibile odore della vita, un profumo dolce e sgradevole, appiccicoso. Sentì solo il caldo sapore del muschio che colorava ogni luogo, prosperando ovunque.
Il villaggio era deserto. Non c’era nessuno ad abitare le semplici case, i focolari erano spenti da molto e giacevano sparsi casualmente, ormai freddi, inutilizzati.
Il monaco fece scorrere lo sguardo intorno e contò circa trenta capanne.
Dov’erano le persone che lì avevano vissuto?
Niente gli permise di fare ipotesi ma non ebbe bisogno di molto per conoscere la verità che si celava dietro il silenzio e la solitaria desolazione. L’Impero. Il villaggio abbandonato era la prova che il volere dell’Imperatore era giunto sino lì, colonizzando, conquistando, assimilando, banalmente distruggendo ogni cosa.
Il monaco ricordò le lezioni seguite prime della partenza, gli olo-programmi neuronali di educazione indotta che gli venivano pompati direttamente nella corteccia celebrale tramite un cavo intercranico multiplo. Il Popolo della Foresta, la sua fiera tradizione di popolo pacifico, ingenuamente privo di ogni forma di assassinio. Rivide le donne, i bambini, gli uomini migrare da luogo a luogo del pianeta cercando ogni volta terre più fertili in un mondo ricco e senza limiti alle sue risorse. Il Popolo delle Foreste viveva in una sorta di simbiosi con il pianeta, nelle sue migrazioni permetteva la diffusione della diversità biologica della flora e della fauna. Il Popolo della Foresta nel suo nomadismo portava con sé animali domestici, piante, spore e batteri che permettevano l’esogamicità delle diverse aree geografiche del pianeta. Ciò garantiva una seppur minima forma di competizione evolutiva, di diversificazione e ricchezza genomica.
Il monaco si chiese se quel villaggio fosse forse stato abbandonato per via di una migrazione ma sapeva che così non poteva essere. Ricordava che il popolo delle caverne abbatteva ogni villaggio abbandonato sulla strada del cammino perenne. Il legno, gli arbusti e la paglia lasciati abbandonati al suolo si sarebbero ben presto trasformati in fertile humus, portando così a restituire quanto il Popolo della Foresta aveva utilizzato nella sua permanenza in un luogo.
Un ciclo continuo, perfetto. Rotto però dall’Impero.
Le grandi torre, lo sfruttamento energetico, l’utilizzo egoista di ogni forma di energia locale era la prassi consueta della colonizzazione imperiale. I nuovi mondi erano visti dall’Imperatore come enormi scrigni da saccheggiare. Schiavi, materie prime, metalli, culture, energie, ogni cosa era usata dall’Imperatore per la sua gloria presente e futura. Per il suo trionfo eterno.
Le razze indigene sui vari pianeti conquistati avevano poche alternative, da un lato la sottomissione volontaria e la deportazione sui mondi di lavoro e sulle varie lune ricche di risorse sparse nella galassia, oppure, la fuga, la ribellione, la riottosa protesta. In entrambi i casi il destino era il medesimo. La morte.
Il monaco si fermò al centro del villaggio. Un piccolo spaizzo dove sorgeva una capanna particolarmente semplice, un cilindro composto di rami secchi e piccoli legati fra loro da un attento lavoro di annodamento. Verso i quattro punti carnali si aprivano delle porte, forse più spiragli che permettevano alla luce di entrare. Al centro un piccolo tappeto, fatto di fibre vegetali, dai colori sgargianti. Variopinti.
Il monaco entrò nella piccola capanna, era il luogo in cui lo sciamano del villaggio invocava gli dei perché giungessero a dare pace e prosperità al Popolo delle Foreste, tutto, nessun clan escluso.
Le preghiere degli sciamani si erano realizzare, dal cielo era piovuti gli dei. Gli dei malvagi.
Il monaco sedette e dalla borsa che portava al collo estrasse il libro. Lo aprì ad una pagina circa a metà e cominciò a leggere mormorando le parole sulle labbra, come una cantilena. Una nenia.
Restò così a lungo, a mormorare nella capanna dello sciamano parole incomprensibili.
Feroci parole di odio e vendetta.

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3 Comments:

Anonymous Anonimo said...

grazie per i tuoi graditissimi auguri :) a presto :)

9:38 AM  
Anonymous Anonimo said...

ero io nel commento precedente :)

9:38 AM  
Blogger Cesare said...

:) Bravo! Comunque non credi che la parola monaco sia ripetuta un tantino troppo?

4:01 PM  

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