07 aprile 2009

Epilogo I

Epilogo I
Il monaco aprì gli occhi e si accorse di essere a casa. Riconobbe i colori. I contorni dei monti, le cime che si stagliavano all’orizzonte. E soprattutto l’odore. L’inconfondibile odore di spezie pepate tipico del suo pianeta. Era a casa.
Intorno a lui una folla silenziosa lo osservava. Mise a fuoco la vista ancora un po’ intontita e riconobbe le persone che lo attorniavano. Lo stavano aspettando. Riconobbe sua madre, poco più in là suo padre e, strette a lui, le due sorelle. Piccole come le ricordava. Sorrise loro. Erano molti cicli che non le vedeva. Da quanto era stato scelto per servire l’Ordine. Gli era stato fatto il dono supremo della Fede ed era partito. Verso il pianeta centrale dell’Ordine. Là, lontano. Al cospetto di Tiresia. Il Cieco. Il Veggente. Il Priore dell’Ordine. Pensò al pianeta della foresta. Al Tempio. Era vero. Non erano folle farneticazioni di un vecchio xenologo. Aveva visto e toccato la prova. Un Tempio vecchio come l’universo, forse persino più vecchio. Un Tempio identico ai tempi dell’Ordine. Nell’architettura vi era dunque la verità. La verità di cui lui, umile monaco, non aveva mai dubitato. Rise dell’Impero e del suo Imperatore tracotante e blasfemo. Si figurò il suo potere sbriciolarsi, come terra essiccata. Sbriciolata fra le dita.
L’Ordine avrebbe trionfato su ogni pianeta. La fede si sarebbe diffusa. Come una lenta marea. E lui avrebbe servito Tiresia per altre mille e più missioni. Si accorse di essere felice. Forse per la prima volta in tutta la sua vita. Aveva obbedito. Servito. E aveva trionfato nel nome e nel volere del Cieco. Tiresia. Il Priore.
Fece scorrere lo sguardo sulla folla cercando altri vecchi visi conosciuti. Poco oltre suo padre lo vide. Era lì. Immobile fra la folla ad aspettarlo. Vestito di una lunga casacca dorata contornata di pietre preziose che splendevano riflettendo la luce del sole giallo nel cielo. Severo. Impassibile. Il viso metallico altezzoso e autorevole. Non era possibile. Era lì. Accanto a suo padre. Non poteva sbagliarsi. Era davvero il blasfemo. Il crudele. Era lì. L’Imperatore. Tra la folla. Ad aspettarlo. E accanto all’Imperatore vide Tiresia. Il Priore. Erano a pochi passi da lui. Fermi. Lo stavano guardando. Entrambi pareva sorridessero. L’Imperatore con il suo viso argentato dal metallo e Tiresia fra le mille rughe di vecchio con avvizzite mammelle di donna. Cosa stava succedendo?
Il monaco tese un braccio verso la folla e cercò di dire qualcosa. Ma la sua voce era spenta. Moribonda.
Dove si trovava? Stava forse sognando? Era in viaggio sepolto dentro una qualche cabina di ibernazione indotta? Si. Non poteva che essere così. Aveva sentito che durante i viaggi transistemici in sospensione criostatica si sognava ripetutamente. Sogni folli di una veridicità inimmaginabile. Sogni assurdi come quello che stava vivendo ora.
La folla fece un passo verso di lui. Vi scorse altri volti. Volti che conosceva. Vide Phleba. Il monaco disperso su quel mondo lontano. Il pianeta desolato. Lo aveva conosciuto brevemente durante l’apprendistato. Era stato per alcune frazioni di ciclo suo maestro di riti. Aveva pianto quando aveva saputo della sua morte. Ma ora era lì. Con Tiresia. Con l’Imperatore. Vivo. Di fronte a lui. Giovane e bello come lo ricordava.
Vide ancora i suoi compagni del noviziato. Molti di loro erano stati mandati suoi mondi periferici a professare la voce di Tiresia. La voce dell’Ordine. Molti erano morti.
La folla si avvicinò. Lenta. Incombente. Silenziosa. Volti spenti che lo fissavano senza espressione. Esseri privi di ogni coscienza. Il monaco urlò e cadde a terra. Restò in ginocchio. Il viso solcato dalle lacrime. La folla si fece prossima. Avrebbe potuto toccarla solo muovendo il braccio. Sentiva gli aliti caldi su di sé. I respiri lenti e profondi. Il calore di corpi. L’odore di esseri viventi. Il fetido odore del metallo. Il sapore della carne flaccida. Il monaco non si mosse.
Chiuse gli occhi e si mise a pregare.
Pregò a lungo. Mormorando i canti che aveva imparato e che ormai erano parte di lui. Invocazioni e odi. A volte solo parole prive di significato in lingue così antiche da essere ormai intraducibili. Mantra. Ricordò che Phleba spesso gli diceva che non era importante ciò che si cantava nella preghiera. Era l’atto del pregare che importava, sentire fra le labbra, sulla lingua, la preghiera, il canto. Lasciarla venire al mondo. Voce che diventava viva. Vera.
Il monaco pregò. E attese che la folla lo toccasse. Lo ghermisse. Attese che qualunque cosa dovesse succedere accadesse. Ma nulla avvenne. Il tempo scorse e il monaco ebbe la sensazione di essere avvolto nella preghiera. Protetto. Al sicuro dentro il suono, dentro i canti e le parole senza significato.
Recitò a lungo ripetendo infinite volte tutte i riti che Phleba gli aveva insegnato. Cantò poi i canti popolari della sua terra. Quelli che gli erano stati insegnati dai suoi genitori e dai genitori dei genitori in una catena eterna di tradizione.
La sua voce fu ovunque. Si disperse. La immaginò percorrere i luoghi di quel mondo onirico fatto ad immagine e somiglianza del suo mondo natale. Un’illusione fecondata dalla melodia sacra delle sue parole.
Il monaco aprì gli occhi. E intorno a lui vi fu solo bianco. Un bianco denso. Luminoso. Vivo. Il monaco non si spaventò. Il mondo su cui si era risvegliato era scomparso. L’universo stesso era scomparso ed ora esisteva solo il bianco che lo avvolgeva. Ogni cosa era il bianco e il bianco era ogni cosa.
Il monaco pensò di essere al cospetto di Dio. Di essere dentro Dio. Distese le braccia intorno a sé. Cerco di toccare il bianco per percepirne la sensazione. Per renderlo vero. Non sentì nulla. Guardò sopra di sé. Bianco. Sotto di sé. Bianco. Intono a sé. Bianco. Era bianco ovunque.
Osservò le proprie mani. Non fu sorpreso di vederle trasformarsi. Prima le dita. Poi il palmo. Stavano scomparendo. Nel bianco. Si stavano fondendo nel bianco.
Il monaco aprì le braccia. Distese le gambe. Spalancò la bocca. E lasciò che il proprio corpo svanisse nel bianco. Senza opporre resistenza. Senza paura. Sapeva che quello era il suo destino. Scomparire. Perdersi. Perdere sé stesso per divenire parte non consapevole dell’universo. Diventare in questo mondo l’universo stesso. Essere Dio. Essere nulla.
Pensò al Tempio. Pensò che forse era una via. Un canale verso uno stato ulteriore. Era un pezzo di Dio lasciato nell’universo fisico per permettere la riconciliazione e la fusione del singolo spirito nel tutto. Per poter essere il tutto. Scomparendo in esso.
Pensò poi alla donna della foresta. Il corpo del monaco era svanito. Svanite le sue ossa, le sue carni, persino il suo cuore era ormai confuso nel bianco. Restava solo un ultimo pensiero cosciente.
Il monaco pensò che si era innamorato di quella donna. L’eretica del pianeta della foresta.
Poi più nulla. Il monaco smise di esistere. Il monaco fu l’universo. Il monaco fu Dio. Nulla.

Etichette:


adopt your own virtual pet!