22 aprile 2009

Epilogo II

Epilogo II
Un lago di sangue. La donna si rese conto all’improvviso di nuotare in un abisso di sangue. Denso. Rosso. Colloso e profumato di un metallo ferroso. Ne era immersa completamente. Le sue ampie bracciate la cullavano, spingendola docilmente in avanti sospesa sul liquido compatto, caramelloso. Non aveva direzione. Il lago di sangue e il suo nuotare esaurivano tutte le possibilità dell’universo. Persino la sua stessa esistenza e la sua sofferta biografia si facevano evanescenti in quel diorama perfetto. Il rosso e il nuotare.
La donna che un tempo fu conosciuta con il nome di cacciatrice e di eretica si immerse nel liquido che la sorreggeva e sprofondò in esso. Non ricordava di essere in grado di nuotare. Sul mondo da cui proveniva non vi era altro che una fitta foresta, ben pochi erano i fiumi e gli ammassi d’acqua, chiazze azzurre su una topografia verde e marrone. Lasciò che i suoi muscoli allenati e tesi la portassero sempre più in profondità, la tinta amaranto del lago si faceva via via più scura e gli occhi della donna non erano in grado di cogliere nessun particolare ma lei continuava a nuotare verso il basso, giù, sempre più in fondo.
Non respirava ma sembrava che questo non fosse importante, non sentiva lo stimolo vitale dell’aria, dell’ossigeno. Il sangue era il suo elemento e per una qualche strana ragione pareva che ciò le bastasse. Era come una perfetta osmosi fra il suo essere creatura vivente e il tutto che l’avvolgeva, caritatevole, accogliente, protettivo. Una grande madre rossa.
Nuotò. Nuotò a lungo sino che perse la coscienze del tempo e del suo stesso nuotare. Non vi era quasi più neppure separazione fra il suo essere individuo, creatura cosciente e vivente, e il liquido che la circondava. Smise di pensare, smise di essere se stessa e per un lungo momento fu solo il lago di sangue. Fu solo il rosso in cui stava sprofondando.
Estatica perfezione della non coscienza.
L’eretica tornò alla propria coscienza solo quando giunse al fondo del lago e con i piedi toccò il suolo molle e umido, sprofondando un po’ nella superficie umida del terriccio.
La donna era scivolata dall’alto, come un grande uccello in lenta planata. Docilmente, silenziosamente, rapace pronto a ghermire con gli artigli le carni della preda, atterrita ed immobile.
Era nell’alveo del lago. In piedi, immersa nel sangue rosso e ferroso. Fece un passo. Poi un altro. Un altro ancora. La sensazione di camminare era innaturale, ovattata. La resistenza del liquido denso le rendeva difficile avanzare. Il rosso si opponeva alla sua volontà di andare oltre. Di proseguire il suo viaggio. Il suo viaggio privo di destinazione.
La donna della Foresta si concentrò e a fatica riuscì ad avanzare. Poggiava prima un piede poi, facendo leva con tutto il resto del corpo, muoveva l’altro in avanti. Lentamente, faticosamente. Camminava.
Con la fatica e lo sforzo tornarono alla donna anche i ricordi, le sensazioni della sua biografia, le storie della sua gente, i canti che aveva mormorato sporca di fango e di terra. Nel liquido rosso sentì sul suo corpo le migliaia di cicatrici, di ognuna ne percepì il dolore, lo strappo, la sofferenza che aveva marcato la sue morbida pelle di donna. Donna che non era più da molto tempo. Rammentò il suo pianeta invaso dalla Foresta. Deturpato dall’Impero. Saccheggiato dalla brama di dominio di uomini che non erano neppure uomini. Creature modificate e soggiogate al dominio del metallo. Alla bramosia della loro postumanità. Ricordò la sua gente. Sterminata. Le tradizioni dimenticate. I canti perduti come echi in una valle troppo grande. E rivisse l’odio. L’odio che l’aveva tenuta in vita nella vendetta, nella blasfemia del rispondere alla morte con la morte. L’eretica presa di coscienza che la morte poteva essere data. La morte si poteva infliggere, devastando il tabù che aveva guidato la sua gente da sempre.
Lei che era l’ultimo baluardo del popolo della Foresta, lei che si era votata alla memoria e alla vendetta, proprio lei che forse era l’ultima ancora in vita aveva tradito, rinnegato le tradizioni, sfregiato le regole e divelto la morale.
Lei che era il baluardo si era rivelata la peggior traditrice della sua gente.
Nel compiere la sua vendetta la donna della foresta aveva ucciso di nuovo il suo popolo. Ne aveva violato la storia. Ne aveva reso inutili cicli e cicli di osservanza delle tradizioni, di orgogliosa fede nel rispetto del tabù che invocava che nessuna morte si può infliggere. Così sarebbe dovuto essere ricordato il suo popolo. Fiero anche nello sterminio. Fiero di essere più forte di ogni sopruso. Fiero di proclamare la propria verità. L’impossibilità dell’uccisione. Ma lei aveva reso tutto vano. Ora il suo popolo sarebbe stato ricordato dalle genti di tutto l’universo come il popolo che sul punto di sparire e di morire aveva rinnegato tutto, i credi, i dogmi, la propria storia. Ogni cosa, sino al significato nascosto che giace dentro ogni esistenza. L’eretica si rese conto di aver deturpato la sua gente. Aveva reso ogni cosa insensata. Assurdamente inutile, priva di valore.
Respirò. Con il naso e con la bocca e fu invasa dal sangue che la circondava. Riconosceva quel sangue. Rosso. Come il suo. Era il sangue di tutto il suo popolo. Goccia dopo goccia raccolto in un pozzo senza fine in cui lei stessa era immersa. Avvolta.
Sentì il profumo di ognuna delle persone che aveva conosciuto nella sua vita. E della miriade di altre che mai aveva incontrato e che erano vissute prima della sua nascita. Sentì il sapore di tutta la sua gente. Gustò sulle papille l’aroma del sangue di coloro i quali erano nati nell’abbraccio della foresta. Ripensò a sua madre. Alla madre di lei. E ancora alla madre della madre della madre in una catena che pareva eterna. Verso le origini stesse, ancestrali e segrete, del suo popolo. Il sangue della sue gente la penetrava, le si appiccicava sulla pelle incuneandosi nei pori, risalendo le vene e le arterie verso il cuore. E una volta raggiuntolo inondandolo di emozioni, di storie e di così tante biografie che la donna pensò di impazzire. Il suo popolo era dentro di lei. Ogni singola storia, ogni singola esistenza, ogni vita.
La donna era la memoria e lo era carnalmente.
Continuò a camminare sino a che non emerse dal lago di sangue. Il greto aveva preso la forma di una leggera salita e lei l’aveva percorsa sempre più faticosamente. Debolmente. Sino a che non era affiorata oltre la superficie del sangue e si era guardata intorno. Non c’era cielo in alto. Nessun azzurro. Solo un opaco e ombroso verde. Verde e marrone.
Sentì gracchiare. Un lento e pigro suono fastidioso. Pingue. Guardò nella direzione del verso e vide un uccello nero. Grasso. Altezzoso e sfrontato. Il becco sporco delle viscere di una preda esile. Era appollaiato su uno spesso ramo, quasi nascosto dalle foglie sottili. Verdi. Come tante piccole lame.
La donna risalì completamente grondando sangue.
Continuò a camminare. Una lunga scia odorosa la seguiva al suo passaggio. Era il sangue che le colava dalle vesti, dai capelli arruffati, dal viso, dal corpo e dalle mani. Gocce che cadevano a terra penetrando il muschio e scivolando verso il terreno, fecondandolo.
La donna non si fermò e il sangue che l’avvolgeva cadde sul terreno sino che il pianeta della Foresta non ne fu intriso. Ogni stilla si addentrava nelle profondità del mondo e con essa le vite e le storie della gente che sul pianeta della Foresta erano passate, vi avevano vissuto, amando e odiando, sperando e morendo. Quelle stesse vite che ora non erano più solo un ricordo sfumato e destinato a perdersi. Non più solo un soffio di vita capitato per caso a vivere in quei luoghi. Gli uomini e le donne del popolo della Foresta esistevano ora nel cuore stesso del pianeta in un’unione eterna celebrata con un concepimento di sangue.
Quelle vite non sarebbero state mai dimenticate.
Il pianeta della Foresta fu per la prima volta fecondo del popolo che l’aveva abitato da sempre e in esso si riconobbe e si fece cosciente di sé.
E la donna che un tempo era conosciuta come la cacciatrice e l’eretica continuò a camminare e non smise di farlo sino a che ogni singola lacrima del sangue del suo popolo non fu scesa a germogliare nel pianeta.
Prima o poi, ne era convinta. Un nuovo popolo della Foresta sarebbe nato da quella terra.
Un popolo che avrebbe ricordato.
Un popolo che non avrebbe dimenticato.

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