22 aprile 2009

Epilogo III

Epilogo III
Jabash aprì gli occhi e di fronte a sé vide un’immensa distesa di nulla. Un foglio liscio. Infinito oltre ogni orizzonte. Una superficie immensa che rifletteva i bagliori di un pallido sole nel cielo. Si rese conto di essere accasciato a terra. Faticosamente si levò in piedi e, schermandosi gli occhi con un gesto, si guardò intorno. Nulla. Solo la splendente piana disadorna che pareva non terminare mai. Una sottile lamina argentata, liscia, levigata. Come un liquido denso. Viscoso. Senza increspature.
Gli ricordava il metallo. Fuso. Un placido deserto argentato senza nessun granello di sabbia.
Fissò a terra lì dove i suoi piedi poggiavano e contemplò per un attimo la perfetta levigatura del terreno. Non si era sbagliato. Era metallo. Puro, perfetto, silente metallo. Si vide riflesso nella superficie specchiata e riconobbe il proprio viso. Stanco e affaticato. Si ricordò di sé. Lui era Jabash. Lo sciacallo dell’Imperatore. Si chinò e toccò il suolo. Era freddo. Innaturalmente perfetto.
Si chiese dove fosse. Ricordava vagamente gli attimi prima. L’inseguimento del monaco. La rada pianura erbosa. Il tempio. E la voce che lo chiamava. E poi… poi aveva la vaga sensazione che qualcosa di più fosse accaduto. Qualcosa di importante. Qualcosa che stava dimenticando. Il tempio. Lo aveva toccato. Ne aveva visto la luce densa brillare dalla minuscola entrata. Luce e musica ad avvolgerlo. A portarlo via. Verso altri luoghi. Erano reali? Erano frutto della sua mente sovraeccitata? Respirò a fondo. Cercò di controllare il battito del cuore sfruttando al massimo le conoscenze apprese nei pianeti periferici dell’Impero. Lui che era il condannato alla carne e alla biologia aveva lentamente imparato a controllare il proprio corpo. Aveva appreso come imporgli disciplina. Controllarsi, dominarsi. Lui era Jabash. Lo Sterminatore. Si chiese ancora in quale luogo fosse capitato. Fece un passo. Non c’era una direzione da seguire. Intorno a lui solo metallo. Splendente, spietato, liscio metallo. Un mare di argento guizzante di bagliori.
Era solo. Ne era certo. Non sentiva nell’aria nessun odore, nessuna silenzioso respiro. Solo il proprio battito. Accelerato. Spaventato.
Fece un passo ancora e improvvisamente la superficie di metallo parve inclinarsi. Flettersi. Docilmente. Era come se il suo peso stesse deformando il suolo, scavando un solco, un largo pozzo in cui il suo corpo cominciava a sprofondare. Lentamente ma sempre più a fondo.
Tentò di risalire le pareti oblique, si mise a correre, tentò di arrampicarsi ma ogni volta che si spostava il pozzo pareva seguirlo. Quasi precederlo. La superficie argentata era sottile e si deformava ad ogni passo di Jabash. Si fletteva verso il basso.
Jabash tentò di farsi leggero. Respirò a fondo, lungamente, lasciò che la tensione dei muscoli defluisse nelle profonde espirazioni. Ma nulla pareva accadere e Jabash continuava ad affondare.
Guardò le pareti intorno a sé e vide che il canalone in cui era immerso si stava facendo profondo, ben oltre le sue possibilità di risalita. Sentì un’ondata di panico schizzargli nelle vene accompagnata dall’adrenalina. Urlò. Era debole. Biologia flaccida. Lentamente si stava rendendo conto di non potersi appendere a nulla, la superficie metallica dell’incavo era liscia, priva di appigli.
Guardò in alto, l’imbuto in cui affondava si faceva sempre più profondo. Osservò il cielo. Il sole in alto era lontanissimo. E pallido. La luce sfocata si moltiplicava sulle pareti ripide del pozzo. Luce esplosa nella luce.
Jabash sentì la follia. Tentò disperatamente di aggrapparsi. Inutilmente. Si agitò. Prese a dimenarsi senza controllo. Urlava rabbioso. Ruotò su sé stesso violentemente e le migliaia di suoi riflessi sulla parete liscia di metallo lo imitarono. Una danza sincronizzata ma completamente caotica. Infinite immagini di Jabash a dimenarsi guardandosi intorno. Echi di una comune follia.
Jabash si fermò. Un rivo di bava gli solcava il mento.
Le pareti del vallone in cui era affondato erano alte. Uno scolo perfettamente smussato. Non vi era alcuna speranza di risalire. Di sopravvivere. Jabash pensò alla morte. Era la prima volta che vi pensava come ad una possibilità concreta. Prima la morte era solo l’esecuzione del dominio e del volere dell’Imperatore. Null’altro. La morte era distante. Uno degli strumenti di dominio sapientemente mossi dalle sue mani. Il veicolo della completa sottomissione. Ora la morte era lì, di fronte a lui. Nascosta nel metallo splendente che lo stava stritolando.
Jabash pensò al proprio corpo, inutile, vecchio e come sempre lo maledì e pregò di poter trasformarsi in metallo. Lo stesso, lucente, freddo, metallo che ora lo stava uccidendo. Jabash desiderò di evolvere e, nel gelido argento, abbandonare la sua flaccida umanità, diventare un oltre. Svestirsi di sé e della propria carnale imperfezione per farsi entità di metallo. Finale postumanità del suo essere creatura vivente. Imprecò la carne e con essa il caso che l’aveva condannato alla più violenta menomazione. Il gene deforme causa dell’incompatibilità con il metallo. L’impossibilità di evolvere. Di andare oltre se stesso.
Jabash sapeva di essere incarcerato alle sue origini di uomo. Di animale. Di essere di carne. Prigione di ossa e pelle. Digrignò i denti con rabbia sino a che non sentì dolore e assaporò il sapore ferroso del sangue sulla lingua. Ne inghiottì qualche goccia dal sapore metallico. Era la sua unica consolazione. La sua eucaristica di metallo.
Si pulì poi con il palmo della mano il rivo di sangue che ancora gli scendeva sul mento e guardò fra le dita la macchia rossastra. Pensò a sé come ad una sacca di liquidi, molle e debole. In attesa della putrescenza e della morte.
A stento trattenne lacrime di rabbia e frustrazione.
Tornò a guardarsi intorno e si rese conto le immagini del proprio riflesso sulla parete metallica del canalone si erano avvicinate. Erano a pochi passi da lui. Un esercito immenso di sé stessi. Una folla lo accerchiava, comprimendolo sempre più in sé stesso. Infiniti se stesso che lo schiacciavano dentro di sé. In fondo al pozzo che si era aperto e che l’aveva inghiottito.
Distese le braccia e toccò la patina di metallo che lentamente continuava a sprofondare sotto il suo peso di essere umano. Giù, sempre più a fondo, in uno spazio che si faceva via via più stretto, più angusto.
Jabash provò una crescente sensazione di claustrofobia. Le pareti argentate erano ormai così vicine che poteva vedere l’alone del proprio respiro appannarne la superficie lisca e pulita del metallo. Le migliaia di altri sé stessi riflessi incombevano e lo fissavano con i suoi stessi occhi terrorizzati e spaventati. Jabash tentò di urlare. Di nuovo. Ma non ci riuscì. Gli mancava l’aria. Era fatto di carne. Aveva bisogno di ossigeno. Di respirare. Di aria. Ma cosa stava accadendo? Dov’era? Perché il suolo gli sprofondava sotto i piedi come un molle tessuto elastico? Cosa sarebbe accaduto?
Chiuse gli occhi ma li riaprì subito. Non sarebbe morto con gli occhi sbarrati dalla paura. Lui era Jabash, il Cane dell’Imperatore. Sarebbe morto guardando la morte. E la morte stava per arrivare. E aveva i suoi occhi. Chiari. Azzurri. Spaventati. Agonizzanti di paura.
Ormai non vi era più spazio. Jabash era schiacciato dentro uno stretto corridoio allungato, inabissato dentro la patina sottile che copriva ogni cosa. Giù, a fondo dentro il metallo.
Cuore segreto di carne in un mondo di metallo.
Poi, all’improvviso, sentì il fragore. Un rumore sordo. Denso. Ripetuto. Uno scroscio violento che cresceva. Si ingrossava e diventava un frastuono. Assordante. Jabash a fatica riuscì a muovere la testa fra le pareti che ormai lo stritolavano e a guardare in alto. Il sole era poco più che un punto giallo nel cielo ocra. Il rombo aumentava. Sempre più. Jabash tentò di liberare le mani dalla prigione in cui era sprofondato per coprirsi le orecchie e attutire il suono ma non ci riuscì. Era immobilizzato. Come una preda. Un corpo menomato destinato all’estinzione.
Metallo fuso. La cascata di metallo arrivò e lo seppellì. Completamente. Immerso dentro un mare di metallo incandescente e liquido. Metallo liquido che scivolava sulla levigata superficie argentata di un metallo diverso. Questo solido, freddo. Quello incandescente, liquefatto.
Da qualunque luogo fosse arrivato l’argento disciolto era scivolato sul pianoro lucente e spinto dall’impietosa forza di gravità era precipitato nell’increspatura che il peso di Jabash aveva creato. Giù dentro il pozzo. Sino in fondo. Sino a Jabash.
Non fece in tempo a gridare. Vide l’apertura della cavità in alto oscurarsi e il cielo svanire inghiottito da un fiume denso di colore argento. Non riuscì neppure a chiedersi che cosa fosse.
Il liquido incandescente gli piombò addosso. Violentemente.
Fu un attimo.
Un lento attimo di dolore.
Jabash morì.
La carne, le ossa, la pelle, il sangue, i denti, le unghie, i capelli, i bulbi e ogni altra sua parte biologica morirono. E di Jabash non restò nulla.
Jabash si fuse nel metallo. Con il metallo.
Dentro il metallo.
Jabash svanì.
E finalmente evolse.
Evolse nel metallo.
La coscienza di Jabash prese di nuovo vita. Una vita rinnovata dopo la morte della carne. Jabash aprì i suoi non occhi metallici e nuotò nell’argento liquido e incandescente in cui era sprofondato. Nuotò verso l’alto. Risalì le pareti dello stretto utero metallico. Risalì sino ad un nuovo parto. Sino a nascere una seconda volta. Sporco del viscoso liquame metallico di una fredda placenta Jabash partorì se stesso. Metallo dal metallo. Metallo nel metallo.
Jabash si guardò le mani. Le vide fredde. Non le riconobbe. Lamine di spettrale luminosità.
In piedi sulla distesa infinita e levigata Jabash rimase immobile. Come se nulla fosse accaduto. Come se nessuna resurrezione metallica fosse stata celebrata in quel luogo.
Si mosse. E per la prima volta percepì la sua spietata postumanità. Il suono pesante, il tonfo squillante dei suoi passi sulla superficie del deserto. Il rumore del metallo che cozzava col metallo.
Avanzò cullato da quel suono e sotto di lui il suolo non affondò.
Jabash continuò a camminare. Oltre.

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