22 aprile 2009

Excipit

Excipit
Il pianoro era in silenzio. L’erba rada immobile, un mare di verde placido in attesa di un onda, che pareva non arrivare. In alto le foglie sottili e taglienti di alberi possenti se ne stavano mute appese ai rami. Rami di verdi lame. I pallidi raggi del sole in alto filtravano deboli e timidi fra le fronde disegnando sul terreno erboso ghirigori apparentemente causali. Il tempo era fermo e ogni cosa giaceva nel momento. Assuefatta.
In mezzo alla piccola distesa sorgeva il tempio. Rade rovine a ricordare una forma che si era persa nel correre dei cicli. Migliaia, miliardi di cicli. Forse sino all’origine stessa del tempo.
Il tempio era circolare, minuto. Intorno spiccavano piccole e fragili colonne istoriate in intagli raffinati, densi di figure vagamente geometriche. Prospettive confuse assurdamente logiche. Sulla parete esterna correvano dipinti sbiaditi, vaghi ricordi di affreschi multiformi e colorati. Linee improvvise a fondersi e confondersi, come a voler tratteggiare un destino incerto, confuso. Sconosciuto.
Tre gradini consumati dai dimenticati nomi di perduti passi, tracce di maree di veneranti pellegrini incise nella roccia scalfita. Valico precipitoso ai margini dell’entrata al tempio. Un rettangolo di nero che si apriva verso l’interno del tempio. Invisibile, buio fosse denso, solido. Popolato.
Nessuna luce, nessun suono. Neppure l’eco lontana di un canto parco ormai dismesso. Solo silenzio e solitudine.
Nel pianoro era deserto e il tempio spiccava indifferente nel mezzo della foresta eterna. Alberi e alberi ad avvolgerlo. A stringerlo protettivi. Come una madre la foresta si avvolgeva intorno ai disfatti ruderi del tempio. Ghermendoli possessiva.
Un abbraccio. Un enorme abbraccio verde\marrone stretto intorno ad un segreto.
Un minuscolo segreto che sarebbe rimasto tale. Un segreto che era rimasto tale.
Contro ogni volontà. Contro ogni casualità.
Di lontano si udì un grido, un gracchiare flaccido e perverso. Un rapace nero si alzò in volo e planò sul ramo possente di un albero vicino piegandolo sotto il proprio peso. L’uccello si guardò intorno. Sbattè le ali restando immobile. Altezzoso. Gracchiò ancora. Un suono malizioso. Penetrante. Borioso.
Il tempio era lontano e il grido non lo raggiunse. Restò il silenzio. E la vaga memoria di uomini e donne si perse. Come i loro nomi.
Uomini e donne.
Ovunque fossero ora.
Diversi.

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4 Comments:

Blogger Logos said...

Così si conclude questo racconto scritto più che per divertimento che per ricerca o altro. Una camminata in un pianeta ricoperto da una foresta di Verdi Lame in compagnia di amici immaginari.
Lunga alcuni mesi.
Logos

8:58 AM  
Blogger Reparto corse n. 6 said...

excellente. anto

10:52 PM  
Anonymous Leo Bulero said...

La mancanza umana di quest'ultima parte è immensa e angosciante, a tratti sembra una poesia che muta in racconto e di nuovo in poesia, assolutamente potente. Come gli alberi.

1:46 AM  
Anonymous Anonimo said...

Grazie Leo. Un complimento che fa bene in questo momento di riflessione sul senso del scrivere.
Ti ringrazio davvero.
Logos

8:27 AM  

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