03 aprile 2009

In silenziosa reverenza di quel luogo

Rami di Verdi Lame (29)
Non credette ai suoi occhi. Pensava di conoscere ogni anfratto del suo pianeta. Ogni pertugio che si nascondeva fra le fronde degli alberi. Ogni ombra disegnata dalla foglie sottili e vagamente bellicose che sormontavano le cime dei tronchi alti e fitti. Ma lì non era mai stata. Si chiese come fosse possibile. Cosa era quel luogo in cui l’uomo vestito di nero l’aveva condotta. Si guardò intorno. Un piccolo spiazzo malamente illuminato, troppe foglie lassù in cima. Qualche scolorito e secco arbusto qua e là a rubarsi i pochi raggi di luce che riuscivano a filtrare sino a terra. Guardò in alto e vide un paio di uccelli. Grassi e flaccidi. La saliva le invase la bocca. Aveva fame e pensò alla loro carne grassa e filacciosa. Trattenne l’istinto di estrasse la sua cerbottana e ucciderne uno. Non era il momento. Aveva altro di cui pensare ora. Qualcosa di più importante persino della fame.
Tornò a fissare in mezzo allo spiazzo. Che cosa erano quelle rovine. Sembravano un tempio. Non ne era certa, non ne aveva mai visti di simili ma l’insieme aveva un che di spirituale. Di magico. Di sacro. Anche il silenzio che aleggiava nell’aria era strano. Non lo riconosceva. Era come se la stessa foresta fosse ammutolita. In silenziosa reverenza di quel luogo.
La donna del popolo della foresta guardò l’uomo dalla tunica nera. Era in ginocchio e piangeva. Pensò di avvicinarsi e di scuoterlo. Non era il momento per piangere. Jabash, lo sciacallo, il vile, l’orrendo, li stava inseguendo con tutto l’esercito. Li sentiva ormai, erano vicini. Poteva intuirne l’avanzata dai quattro fronti. Erano ad un passo da raggiungerli. La donna ebbe paura. Non c’era più via di fuga. Jabash non aveva sbagliato e lei e l’uomo in nero erano accerchiati. Quello strano luogo sarebbe stata la fine di tutto. La resa di un conto insanabile.
La donna superò l’uomo nella tunica che era ancora in ginocchio piangente e si avvicinò alla costruzione che dominava il centro dello spiazzo.
L’osservò con attenzione mentre il rumore ritmato dei passi militari dell’esercito di Jabash echeggiava sempre più forte. La costruzione era poco più che un rudere. Circolare. Lo spazio esterno fitto di colonne piccole e sottili. Tre gradini a condurre ad un’entrata. La donna osservò l’interno. Era buio. Nero. Totalmente privo di luce. Le sembrò quasi solido.
La costruzione non era molto alta. Il tetto era completamente distrutto e l’insieme ormai non superava di molto la statura della donna. Lei si avvicinò sino ad esserne ad un passo. Il fragore dell’esercito di Jabash era ora possente. Metallo urlante nella quiete della foresta. Allungò la mano e quasi toccò la superficie della costruzione. Le pareti esterne erano dipinte con colori sbiaditi e consumati. Sembravano intagli geometrici, forme floreali. Strani ghirigori che si inseguivano in ampie e complicate volute. La donna cercò di decifrarne un senso ma le parvero solo abili giochi di prestigio. Decorazioni senza significato.
Pensò che era davvero bizzarro. Circondata dall’esercito dell’Impero, a pochi metri da vedere in volto Jabash, il sanguinario, probabilmente ad un passo da una morte orrenda, dalla fine di tutto, della sua lotta, della sua inutile vendetta. Ogni cosa sul punto di finire. Miseramente. Ma lei era lì. Immobile a fissare una costruzione aliena nel cuore del suo pianeta. Non provava più nemmeno paura. Le sembrava che tutto ora avesse senso. Non riusciva a capire perché ma non desiderava altro che essere lì. Di fronte alle rovine. Come se la sua stessa vita fosse stata un intricato proseguire in un labirinto insensato per poter giungere finalmente a quel luogo e in quel momento. Percepì nell’aria il sacro. Chiuse gli occhi e ben al di sopra del frastuono metallico delle truppe di Jabash udì la voce della foresta. Si concentrò e ne ascoltò il canto. La foresta stava pregando. Pregava per quel luogo, per quelle rovine. La foresta stava venerando quella costruzione.
Ma che cosa era? Chi l’aveva costruita? Perché si trovava lì? Le domande le affollavano la mente e nessuna risposta veniva a lenirla.
Riaprì gli occhi. Guardò le rovine e, tremando, le toccò. La mano aperta, il palmo sporco del proprio sangue e del terriccio che ovunque dominava. Vi appoggiò la mano. Dietro di lei l’uomo dalla tunica nera la osservava. Sentiva su di sé gli occhi penetranti del giovane.
La superficie era liscia. Fredda.
L’uomo le si fece vicino. Aveva il viso rigato dalle lacrime. Solchi nello sporco del volto. Si mise al suo fianco e alzò il braccio. Rimase un momento immobile sfiorando la costruzione. Poi si decise e poggiò la mano a pochi centimetri dalla sua. Lei si voltò e vide che l’uomo aveva il capo chino e stava mormorando qualcosa. Era una preghiera. Un canto leggero e soffuso. Anche lei si mise a pregare. Un antico canto tradizionale del suo popolo. La sua voce era aspra, dura. Le note le uscivano sgraziate ma forti. Socchiuse gli occhi e smise di pensare. Si lasciò invadere dalla preghiera.
I due canti parvero fondersi in un’unica melodia. Un’invocazione comune.
Non si accorse di quando iniziò, forse fu una cosa graduale o forse fu all’improvviso. Di colpo. La luce si fece strada fra le sue palpebre abbassate. Aprì gli occhi senza smettere di cantare e di toccare la costruzione. L’uomo al suo fianco non si era ancora avveduto di nulla. Troppo intento a recitare la sua complessa preghiera.
La donna volse gli occhi verso la soglia del tempio. L’apertura che si affacciava sopra i tre gradini consumati. La ricordava buia. Densamente nera. Ma ora era diversa. Vi era una luce. Una luce calda, viva. Guizzante. Un bagliore che sembrava sprigionarsi da dentro la costruzione. La donna non si sorprese.
La luce si rivolse a lei. La guardò. E poi l’avvolse. Completamente. Fu inglobata dal calore luminoso che veniva dall’interno delle rovine. Passo del tempo. Un tempo lento e immobile. La donna mormorava il suo canto.
Non smise di cantare neppure quando Jabash fece il suo devastante ingresso nello spiazzo.

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