03 aprile 2009

Intermezzo IV

Intermezzo IV
Il sicario si sfregò le mani nell’acqua gelida del fiume e osservò la corrente tingersi di rosso. Il sangue del vecchio.
Lo aveva seguito per giorni e giorni. Silenzioso. Come gli era stato insegnato. Aveva ripercorso il cammino dello xenologo attraverso la foresta. Passo dopo passo. Invisibile. Sino a che il giorno era venuto. E la sua missione si era conclusa. Nel rosso. Nel sangue.
Il rito della morte che si ripeteva.
La casta a cui apparteneva era rispettata e temuta. Una delle poche elite dell’universo non ancora soggiogate al potere dell’Impero o a quello dell’Ordine. Ma i sicari non erano liberi. Macchine costruite ed educate ad un unico scopo. Inseguire ed uccidere. Erano i necrofori. I portatori di morte.
Non conosceva lo scopo della morte che avrebbe portato. Mai. Era cieco. Un semplice strumento. Lama affilata che si incuneava nelle carni. Arco armato di frecce silenziose e intrise di veleno. Mani collose dei mille colli spezzati. Era ogni arma aveva usato e ogni arma avrebbe usato. Il sicario in sé non era nulla. Solo la sanguinaria esecuzione di un volere segreto e nascosto.
Chiunque fosse l’artefice voleva che il vecchio xenologo morisse. E con lui le sue ricerche. Il suo cammino. La strada percorsa.
Il sicario continuò a sfregarsi le mani. Il sangue del vecchio era denso. Incrostato. Non riusciva a toglierselo dalle dita e dalle unghie affilate. L’acqua del torrente scorreva gelida e le ombre delle foglie affilate sulle cime degli alberi disegnavano strane danze intorno a lui. Gli parve di sentire un rumore. Si voltò di scatto. Non vide nulla.
Odiava quel pianeta. Odiava l’ombra perenne causata dalla fitta rete di rami e foglie sugli alberi. Ovunque alberi. Ovunque foresta.
Sarebbe ripartito presto. Pensò alla sacca che portava con sé. La piccola trasmittente a batteria solare che inviava l’impulso di riconoscimento alla nave in orbita sul pianeta. Sarebbero venuti a riprenderlo. Sospeso in animazione criostatica per chissà quanti cicli per poi essere inviato in qualche nuova missione. Su altri pianeti. Continuamente. La sua identica vita.
Senza pensarci si voltò e osservò la borsa poggiata lì vicino. Ripensò al libro che vi aveva nascosto. Nel dispaccio che aveva ricevuto non si faceva riferimento a nessun libro. Inseguire lo xenologo. Farlo disperdere nel cuore della foresta e lì ucciderlo. Senza lasciare tracce. Non si diceva nulla del libro che il vecchio vergava ogni sera e che teneva stretto a sé. Come una reliquia.
Il sicario aveva fallito. Lo sapeva. Aveva portato la morte. Ogni volta portava la morte. La morte era la sua ragione di vita. Ma il vecchio non era morto subito. Era fuggito. Una lenta fuga a ritroso nella foresta verso la costa, lasciando dietro di sé una scia di sangue rosso scuro che si allargava ad ogni passo. La lama conficcata nella schiena. La lama del sicario.
L’aveva raggiunto troppo tardi. Il vecchio era morto nella città del porto. In mezzo alla folla riunita al mercato. Non aveva neppure urlato. Era crollato a terra.
Gli esseri che popolavano quell’odioso paese l’avevano trovato in una strada laterale della piazza che dava sul porto. Il sicario aveva imprecato. Aveva fallito. Testimoni. Centinaia di testimoni di una morte che doveva restare segreta.
Il sicario si osservò le mani. Erano ancora sporche.
Era rimasto ai margini della città, nascosto nei bassi e stretti vicoli cercando di capire cosa sarebbe successo. Osservò il brulicare della gente. I bisbigli e il brusio. Vide i vecchi saggi del popolo della foresta accorrere intorno al cadavere e riunirsi in un cerchio. Li sentì confabulare nella loro lingua fatta di sussurri e mormorii. Li guardò parlottare fra di loro. E poi osservò innalzare la pira. Una catasta di legni secchi e scuri. E sentì l’odore del corpo del vecchio che ardeva. Il silenzio era sceso. Il mantello del fuoco aveva avvolto ogni cosa rendendo muta ogni voce.
Aveva fallito ma il suo fallimento non sarebbe mai stato svelato. Era polvere ormai. Polvere nera a fecondare quel mondo verde di foglie sottili.
Il sicario si asciugò le mani in un rozzo panno. Il sangue non si era lavato. Ogni volta faceva sempre più fatica a togliersi il sangue dalla mani.
Il sicario non conosceva le tradizioni di quel rozzo popolo. A lui non importava sapere per quali ragioni avessero deciso di ardere il corpo dello xenologo. Quasi di fretta. Come se quel cadavere fosse oltraggioso. Sporco. Al sicario importava solo la morte.
E la morte era venuta. Ancora una volta. Implacabile. Affilata. Perfetta.
Nascosto nell’ombra fra le case il sicario aveva visto il più vecchio fra i saggi del popolo della foresta alzarsi e prendere il libro dello xenologo. La pira ancora ardeva e intorno le fiamme tingevano tutto di una luce densa. Calda. Aveva osservato il saggio avvolgere il libro in un soffice tessuto e portarselo via. Il sicario l’aveva seguito. Silenzioso. Invisibile.
Il vecchio saggio si era inoltrato verso un piccolo villaggio e lì aveva deposto il libro in una piccola costruzione di legno. Un edificio stretto a forma cilindrica. Vi aveva nascosto il libro. Sepolto sotto un tappeto quadrato colorato di mille colori diversi, ormai consumati dal tempo e dall’usura. Il sicario aveva pensato di uccidere anche il vecchio saggio. Ma non ve ne era ragione. Aveva atteso.
Paziente. Immobile.
Il tempo si era fermato.
Il sicario era veloce.
Aveva aspettato fino a che non vi fu neppure una voce, nemmeno in lontananza. Si era mosso. Violato il piccolo edificio. Spostato il tappeto e preso il libro. Era nelle sue mani. Era fuggito. Come un vile ladro. Colpevole.
La nave era vicina, stava arrivando.
Sentiva la vibrazione sorda dei motori in lontananza. Pensò di aprire di nuovo il libro. Di leggerne ancora. Di ascoltare la voce dello xenologo emergere dalle parole vergate. Scrittura fitta e continua. Ma non lo fece. Non lo avrebbe mai più aperto. Non avrebbe mai letto una sola riga in più di quel maledetto libro.
Aveva ancora le mani sporche del sangue del vecchio.
Aveva letto solo una pagina del diario dello xenologo. Poco dopo averlo rubato. Una pagina sola. L’ultima pagina. Le righe scritte dal vecchio studioso prima di morire. Prima di ucciderlo. Là. A pochi passi dalla radura.
Aveva letto e per la prima volta in tutta la sua vita il sicario aveva desiderato di non aver ucciso. Di non aver mai ammazzato.
La nave comparve nel cielo fitto di rami. Una fune fu calata. Il sicario si aggrappò ad essa e la strinse. Come mai aveva fatto prima. La nave si alzò trascinando il sicario con sé. Via dal pianeta della foresta. E il sicario pianse. Pianse lacrime calde che continuarono a cadere mentre veniva issato a bordo.
Lacrime che caddero sulle foglie sottili e affilate. Sul piumaggio scuro degli uccelli lascivi. Sul muschio che ovunque cresceva. E sulla polvere nera che era stata lo xenologo.
Ma nessuna consolazione venne da quelle lacrime.

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