03 aprile 2009

Le lacrime di Jabash caddero a terra

Rami di Verdi Lame (30)
Jabash li vide. Erano di fronte al tempio. Immobili. Il monaco e la donna.
Dietro di sé sentiva la forza del suo esercito. Migliaia e migliaia di soldati evoluti nel metallo. Creature perfette. Vago ricordo di una biologia abiurata.
Una parola. Il suo esercito attendeva la sua parola. E in quella sarebbe stato salvato. Distruzione e sangue. Nell’ultimo ordine di Jabash l’esercito avrebbe trovato ancora una volta il senso della propria esistenza. Della propria evoluzione. Soldati che esistevano per la guerra. E in ogni battaglia affermavano urlanti la propria esistenza. Ogni nemico ucciso, ogni popolo sconfitto, ogni pianeta sottomesso, tutto questo non era altro che una violenta invocazione, un sbraitata affermazione di sé, della propria postumanità indotta. La guerra, e solo la guerra, era la condizione stessa della vita di ogni singolo, postumano, soldato. Senza di essa gli uomini di Jabash non sarebbero stati che inutili anacronismi e bizzarri esperimenti genetico-metallurgici. Creature inutili forgiate senza scopo. Assurde.
Il Comandante Jabash, il condannato alla biologia, lo sterminatore e lo sciacallo fissò il tempio.
Non vi erano più dubbi. La stazione centrale della Torre 1 aveva confermato i primi risultati delle analisi. Quelle rovine erano vecchie quanto l’universo. Forse persino più vecchie.
Rovine di un tempio identico ad ogni altro tempio costruito dall’Ordine.
Era la prova? Jabash non riusciva a non domandarselo. Quel tempio era davvero la prova che le parole folli del vecchio Tiresia, il Priore dell’Ordine, il Veggente e il Cieco, erano vere? E l’Imperatore solo un vile usurpatore? No! Non poteva essere vero! Non aveva vissuto tutta la sua vita a lottare per la gloria di un impostore. Doveva esserci una spiegazione. L’Impero possedeva la verità. E Tiresia era solo un manipolatore. L’immondo ingannatore.
Jabash scrollò la testa e lasciò che il fragore rombante del suo esercito gli calmasse i nervi tesi. Maledetta biologia!
Fece un passo.
Il monaco e la donna non si muovevano. Immobili fissavano il tempio. Erano poggiati con una mano al muro esterno, a ridosso dell’entrata oltre i pochi gradini. Non si erano nemmeno accorti del suo arrivo nello spiazzo. Impossibile. Lo ignoravano? Erano in una specie di trance? Cosa stava accadendo? Maledetto tempio. Maledetto pianeta.
Jabash imprecò sottovoce e si avvicinò ancora al tempio.

- Comandante?
- Si, Sergente?
- Gli ordini? Attacchiamo?
- No. Restate fermi.
- Fermi?
- Si. Vi voglio fermi. E spegnete i motori delle vostro servo-strutture. Voglio un po’ di silenzio in questo luogo.
- Ma… le procedure d’ingaggio?
- Sergente. Spenga le servo-strutture e chiuda questo maledetto canale di comunicazione. Ora!
- Ricevuto. Eseguo.

Con uno scatto nervoso spense il ricevitore auricolare e attese. Lentamente il fragore dei motori delle servo-strutture biomeccaniche del suo esercito si spense. Era come un’onda. Un’onda di silenzio che travolgeva ogni cosa sommergendo il mondo sotto una cappa cupa e spessa di niente. Nessun suono. Ovattata nullità.
Jabash respirò il silenzio e fece un altro passo verso il tempio.
Poi l’udì. Sembrava un canto. Soffuso. Dolce. Socchiuse gli occhi cercando di concentrarsi. Non riusciva a capire da dove venisse. Si voltò ma vide solo sul limitare dello spiazzo il suo esercito immobile. Silenzioso. E spento.
Tornò a fissare il tempio. E capì.
Era la foresta. Stava cantando. Era come un mormorio. Una nenia infantile. Gli sembrò quasi di riconoscere la ninna nanna che gli era stata cantata dell’inserviente metallica dell’istituto infantile imperiale. Lo stesso canto di quando era un bambino. Cosa stava accadendo?
Fece un passo ulteriore. Il tempio ormai era vicino.
La struttura circolare, gli intarsi, il pertugio a cui si accedeva da pochi gradini. Non prestò attenzione al monaco e alla donna.
Altro passò. E vide la luce.
Dall’entrata del tempio si sprigionava una debole luce. Vaporosa. Vaga.
Jabash se ne sentì attratto. Quella luce era lì per lui. Ne era certo. Lo stava chiamando. Invocava il suo nome.
Jabash. Jabash. Lo sentiva distintamente nel chiarore. Jabash. Jabash.
Riconobbe finalmente la musica nell’aria. Si. Non era sbagliato. Era la ninna nanna che gli cantava la sua inserviente semi-cosciente durante gli anni di crescita controllata nell’istituto imperiale su Kanert-2. Era un bambino. Un piccolo inutile bambino biologico a cui era stata diagnosticata la peggiore delle malformazioni immaginabili. I medici dell’istituto continuavano a ripetere che era pressoché impossibile. Ma era accaduto. Lui, Jabash, era incompatibile al metallo. Ad ogni forma di metallo. Era condannato alla biologia. Era il prescelto dalla biologia.
Alzò il braccio. La luce era ancora lontana ma voleva toccarla. Possederla. Farla sua. Era sua. Lo chiamava. Jabash. Jabash.
Accese il ricettore auricolare.

- Sergente.
- Comandante, agli ordini. Attacchiamo?
- Ritiro immediato.
- Cosa?!
- Sergente. Non ripeterò questo ordine una terza volta. Ritiro immediato. Raggiunga la Torre di controllo 23-H e resti in attesa di un nuovo ordine. Lei e tutto l’esercito.
- Lascio un contingente a supporto nello spiazzo.
- No. Se ne vada Sergente. Ora. Si sbrighi.
- Ricevuto. Come ordina. Trasmetto l’ordine.
- Addio.

Jabash. Si fermò. Non si voltò ad osservare il suo esercito che riattiva le servo-strutture per tornare indietro. Ripercorrere la strada creata nella foresta. Devastando la foresta. Solo per giungere al limitare dello spiazzo. E poi tornare indietro. Inutilmente. Non c’era stata battaglia. Non c’era stata guerra.
Per quel giorno l’esercito di Jabash fu come se non fosse neppure esistito. Inutilità priva di ogni esistenza reale.
Jabash attese. Il canto nell’aria si fece via via più intenso. Più definito. Riconobbe le parole pronunciate nella lingua antica del suo pianeta d’origine. Parole che pensava di aver dimenticato. Parole che gli ricordarono luoghi sepolti nella sua memoria. Luoghi che non esistevano più. Terre sacrificate all’insana ambizione dell’Imperatore. Terre che Jabash aveva devastate. Senza rimorsi.
Jabash ascoltavano ammaliato. Il tempo scorreva sulle note parche del canto.
Jabash si voltò. Il suo esercito era scomparso. Ritirato come aveva ordinato. Ora era solo. Solo nello spiazzo.
Lui. Il Tempio. La luce. Il monaco e la donna.
Fece un altro passo.
Poi uno ancora. E finalmente arrivò di fronte al tempio.
La luce era ovunque. Avvolgeva ogni cosa. Anche il monaco e la donna ne erano avvolti. Jabash li osservò. Erano immobili. La donna mugugnava qualcosa di incomprensibile. Forse pregava. Jabash non le prestò attenzione più di un momento. Tese il braccio. Toccò il tempio. E la luce lo riconobbe. Lo avvolse. Lo abbracciò. Lo possedette.
Jabash sentì solo una sensazione di caldo. Un profumo materno.
Chiuse gli occhi. Non vi era altro. Null’altro importava. Solo il canto, la luce e il caldo.
Le lacrime di Jabash caddero a terra.
Il tempo finì.
Lo spazio si contorse.
Restò solo pianeta avvolto da una fitta foresta di verdi lame, uno spiazzo erboso, le rovine di un antico tempio circolare, un monaco, una donna sporca di fango e un uomo conosciuto nell’universo con il nome di Jabash.

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