20 luglio 2017

Ho un piano segreto per la mia morte

Ho un piano segreto per la mia morte

Mi alzerò presto, uscirò di casa e scenderò al mare percorrendo le strade che scemano dal colle,
Giungerò alla riva, con me avrò solo un solito libro e una mela,
Probabilmente un Maigret e una renetta,
Salirò sul piccolo naviglio ancorato, stretto e con due remi consunti.
Vogherò lentamente verso l’isola che spunta oltre le onde nere,
Ormeggerò al molo di legno e lascerò andare la barca alla deriva.
La spiaggia è umida e scura, come avesse appena piovuto.
E’ sempre così sull’isola.
Percorrendo il sentiero mi addentrerò nella boscaglia lungo il sentiero roccioso che sale,
Proseguirò avvolgendo l’altura e osservando le piante farsi rade.
In cima troverò un rifugio, quattro assi, un tetto paglierino e il camino sempre acceso.
Un tavolo, due sedie, uno scomodo divano.
Mi siederò, aprirò il Maigret, addenterò la renetta,
E ti aspetterò sino al giorno della mia morte. 

Divertissement

Divertissement

Gregor Samsa, destandosi un mattino da sogni agitati, si scoprì innamorato. I sintomi erano confusi ma l'evidenza palese. Era come se, nel momento di aprire gli occhi, si fosse trasformato in qualche altra creatura che popola il mondo creato, chesso', una tartaruga o forse pure una gigantesca blatta nera. Ma non era diventato un insetto, solo, o molto peggio, un uomo innamorato. Cosa fece il nostro Gregor? Corse a chiudere e sbarrare la porta della sua stanza tra le mute preghiere dei genitori che speravano rinsavisse, le dure proteste del suoi superiori d'ufficio (soprattutto le loro) e il biasimo della buona società. Chiuso dentro visse di sé finché poté, caro solo all'amore che provava. Si spense senza tornare ciò che era stato, senza ridiventare quel Gregor Samsa di cui tutti avevano apprezzato moderazione e compostezza. Lasciò nella stanza un ricordo, come un nero carapace.


L'aria del Friuli era frizzante nonostante maggio fosse ormai inoltrato. La cerimonia stava per concludersi e i primi invitati lasciavano la chiesa portandosi con sé il profumo dolciastro di incenso e candele.
Alzai gli occhi al cielo attratto da un movimento o forse un'ombra; mi parve di scorgere un uccello che si allontanava oltre le guglie. Mai possibile? Un albatro? Lì, fra le colline di Longobarda memoria?
Passò un po' di tempo e finalmente gli sposi uscirono dal portone principale accolti da riso, schiamazzi e urla. Il corteo nuziale poté così incamminarsi lentamente verso il centro, là nel Castello già si servivano le prime portate. Mi attardai, non sopportavo il rumore della folla, restai così indietro e solo a percorrere la strada verso il banchetto.
Qualcuno all'improvviso mi tirò a sé, mi afferrò la giacca e poi un braccio e mi trattenne. Mi voltai e li vidi. I suoi occhi. Luminosi, scintillanti. Neri, profondi come un abisso che osserva.
Era un vecchio, indossava abiti consunti, pantaloni lisi e stivalacci sporchi di limaccio.
Mi strinse il braccio con la mano scarna, "C'era una nave", cominciò.


Macbeth si guardò allo specchio, vide le rughe profonde intorno agli occhi azzurri, la barba che si andava ingrigendo e le guance scavate. Cercò di fissare le pupille nere, solo quelle, null'altro. Non ci riuscì. Nell'angolo a destra la finestra si rifletteva e lo attraeva. Era spalancata sulla valle e oltre, sulla foresta. L'osservava ossessivamente. Si stava ancora muovendo. Verso il Castello, verso di lui.
Era lì, alle porte. Alberi armati di spade, rami di verdi lame. "Venite", sussurro'. "Venite! Io sono il Re!".


Il naviglio era lungo e stretto, di legno scuro, consumato dal tempo e rovinato da solchi profondi. Solcava il fiume lentamente, schiacciato dal peso dei molti che, indolenti, oscillavano lamentandosi, piangendo e bestemmiando. A prora un vecchio, burbero e orrendo, senza età; teneva saldo il timone e imprecava in uno strano dialetto. Biascicava insulti a un uomo vestito in bianco accompagnato da un giovane che se ne stava in disparate, timoroso. L'uomo vestito in bianco stava ritto e sicuro nonostante l'oscillare dell'imbarcazione. Osservava quasi sorridendo l'orrido timoniere.
Colsi le sue parole in risposta al continuo borbottio del vecchio: "Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare".
Guardai in alto, un denso nero rischiarato da lampi rossi improvvisi e accecanti. Le cercai là dove sapevo si sarebbero dovute trovare nel cielo. Ma nulla. In quel luogo non c'erano stelle.


Dopo che Neil Alden Armstrong ebbe fatto il famoso importante passo singolo per l'umanità sul suolo della luna (e la leggenda vuole che avesse in cuffia il suo omonimo Luis) si mosse verso una piccola insenatura di uno dei molti finti mari che bucherellano la luna. Giuntovi a grandi falcate (che senza gravità non è poi così difficile) vi scorse un mucchio di vasi di coccio, alcuni integri e molti rotti. Non era un gran lettore il buon Neil altrimenti avrebbe saputo che erano i vasi dei senni persi dagli abitanti della terra sin lì vissuti e, aggiungiamo noi per dar coerenza cronologica a questo scritto, che ancora dovranno nascere ma che già l'avevano perso (il senno intendo). Tra la moltitudine ne prese uno a caso, lo guardò bene e vi lesse inciso un nome. E quale se non il mio? E ora mi chiedo, caro Neil, non me lo potevi riportar giù il mio diavolo di senno?
Che cosa ti costava?


Posseggo tre oggetti

Posseggo tre oggetti

Posseggo tre oggetti
Una poesia firmata, un ritratto incorniciato, 
Un pezzo del tuo intimo 
Appeso come un'opera d'arte contemporanea 
Un'installazione dei sensi, una traccia d'emozione.

Ogni altra cosa è scivolata
Lentamente dentro la memoria
Quasi un unguento, denso e odoroso
Di te e dello spazio che hai occupato
Tra queste mie mura familiari. 

Mi sembra ancora di vedere l'impronta
Quella vaga ombra che rintraccia la tua assenza, 
Il silenzio pesante che dà forma alle lenzuola 
Mentre la realtà fa capolino oltre la porta 
Socchiusa su questa nostra stanza.

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