24 luglio 2008

Morte per Acqua

Pensa a Phleba (16)
Vide la tracotanza di credersi esseri superiori, di pensare a sé come bio-macchine perfette, potenziate e perciò libere finalmente della tara costitutiva di essere imputridenti creature umane. Vide la miopia, sino alla più bianca cecità; nessun livello di ingrandimento, nessuna regolazione ad alte x dei bulbi oculari meccanizzati avrebbe permesso di sapere, di intuire anche solo vagamente il significato opaco dietro le cose, il senso nascosto di ogni singolo atto compiuto o solo osservato. Erano proprio i bulbi oculari metallici ad impedire a Phleba e a chiunque altro di vedere realmente. Gli apparati visivi post-umani nella loro onnipotenza strumentale e funzionale condannavano l’uomo ad una offuscamento fatto di dettagli minuziosi, precisi, infinitesimali ma senza alcuna possibilità di svelare e di comprendere.
Phleba si figurò un telo, meravigliosamente ricamato e colorato, vide incise con un’abilità sorprendente storie e narrazioni affascinanti, avventure trepidanti, vite e vite di incessante euforia. I bulbi metallici gli permettevano di osservare l’ordito, la trama ricamata nel tessuto, ammirarne le cronache sapientemente tratteggiate. Phleba comprese quanto era facile perdersi e lasciarsi consolare dalla vastità del telo, dai suoi mille e più intrecci, era davvero facile cadere nella seduzione e credere nella verità del telo e delle sue favole. Phleba pensò a quante volte aveva lasciato che il velo fosse sufficiente, a tutte le volte che non aveva cercato di guardarvi oltre. Di prendere il tessuto finemente intarsiato e strapparlo, violentemente, fenderlo e ferirlo, devastarlo affinché smetta di ingannare e riveli ciò che affannosamente tenta di celare. La verità. La fine di ogni consolazione. La conclusione di ogni inganno post-umano.
Strumenti, solo inutili strumenti. Artifici, marchingegni, macchine e surrogati biologici, ogni cosa era ora per Phleba un vano accidente che non lo allontanava neppure di un passo dalla sua sostanza di essere umano. Aveva camminato per chilometri e chilometri nel mondo dove l’ontologia stessa di ribella a se stessa per scoprirsi immobile, desolatamente rinchiuso in una costruzione illusoria di alterigia e di prepotente altezzosità. Ora era di fronte a se e si vedeva essere umano. Imperfetto e condannato alla circostante assurdità.
Phleba si spogliò della tuta protettiva.
Ripensò a quando poco prima l’aveva disattivata andando contro a tutte le indicazioni, agli ordini, ai dogmi che il Priore Tiresia gli aveva imposto. Ogni singolo momento del suo passato, della sua formazione di monaco dell’Ordine, del suo appartenere alla civiltà e al pianeta della sua famiglia urlava dentro di lui, sbraitava folle contro la ribellione di un gesto.
Si svestì lentamente, con cura, attento a non rovinare la tuta che l’aveva accompagnato per anni fedele nel suo compito divinizzante. Grazie ad essa Phleba era stato dio e ora, senza mestizia, se ne liberava.
La sfilò completamente e la adagiò delicatamente su un sasso bianco che spuntava lì vicino, quasi che l’unica funzione di quella pietra fosse di far da tomba alla tuta protettiva di Phleba.
Phleba restò con i semplici abiti dell’Ordine e per la prima volta da quanto era atterrato sul pianeta desolato sentì sul viso il vero, molle, fastidioso tocco del vento che da nessuna parte pareva provenire.
Phleba si voltò verso il fiume. Lo vide scorrere a pochi metri da lui. Nero, melma putrida gorgogliante su se stessa. Viscido liquame zampillante da mille cloache. Phleba ne fu attratto.
Lì vi era il senso che stava cercando. Perso tra le onde dense del Fiume nero vi era il segreto che aveva intuito, la forma che si nascondeva dietro il velo finemente intarsiato, oltre l’inganno. Aldilà della sua consolazione post-umana, degli inutili strumenti che l’avevano elevato ad essere dio. Un dio imperfetto, un dio facente, un demiurgo inconsapevole, un folle costruttore incapace di spiegare e comprendere l’assurdo del suo agire.
Disattivò ogni apparato extra-biologico e divenne cieco, muto, sordo, incapace di muoversi, di sentire alcunché al tatto e persino il fetore del Fiume svanì. Non era nulla senza i suoi impianti metallici. Non era più una creatura vivente. Era cosa morta.
Phleba fu colto dal panico. Riattivò immediatamente i sistemi metallici di sopravvivenza: sensi, locomozione, sistema immunitario e pochi altri. Lascio depotenziati tutti gli altri apparati non prettamente vitali. Nulla oltre ai supporti primari di sopravvivenza era attivo. Senza neppure volerlo stava Phleba stava tentando di regredire da creatura post-umana ad essere umano, compiendo un passo indietro nel cammino evolutivo che l’aveva portato ad essere quasi una divinità.
Tornò a guardare il Fiume e se ne sentì sempre più attratto. Era certo, lì, in mezzo al liquido nero e scivoloso si nascondeva ciò che andava cercando. Il senso era immerso nel fetido del Fiume.
Aveva compreso il mondo, ora sapeva cosa doveva fare.
Si mosse e, fissando un punto preciso nella melma che scorreva indifferente, si immerse nel liquame e continuò a camminare mentre lentamente la melma saliva intorno a lui. Prima le gambe, poi il tronco, il busto intero, il collo e Phleba si trovò immerso nelle acque nere completamente.
Solo la testa bianca spuntava.
Non disse nulla.
E fece un altro passo, poi un secondo ed infine un terzo, mentre un tuono all’orizzonte di una tempesta sembrava brontolare un ripetuto DA.
Phleba non face altri passi.
Fu sommerso dalle acque limacciose si abbandonò ad esse e dimenticò ogni cosa, il grido dei gabbiani, le onde del mare che mai avrebbe raggiunto, il profitto e la perdita del suo essere monaco dell’Ordine.
Una corrente sottomarina lo prese, dolcemente lo cullò a sé spolpandogli le ossa in bisbigli; nel vortice, su è giù dalla linea della superficie Phleba risalì tutti gli stati dell’evoluzione sino all’origine.
Sino al nulla.
Fu così che Phleba morì.
La tuta protettiva, docilmente adagiata sul masso bianco, non smise di registrare e vide indifferente Phleba immergersi nel Fiume liquoroso di melma scura e in esso sparire in un distratto gorgoglio.
Sulla Terra Desolata non rimase nulla, nessuna traccia di Phleba se non il led intermittente della tuta che annunciava ai satelliti geo-stazionari la sua posizione e qualche vaga impronta nella sabbia che già andava svanendo.

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22 luglio 2008

La Musica e le Vele

Pensa a Phleba (15)
Davanti a suoi occhi solo il nero del fiume e il rosso del deserto e Phleba si sedette sulla sabbia rossa osservando la melma scorrere e perdersi oltre. Ricordò di quando ragazzo si sedeva sulle sponde del fiume che scorreva poche centinaia di metri da casa a pescare con suo padre e suo fratello. E prima ancora con il padre di suo padre in una tradizione che si ripeteva immobile da generazioni. Phleba non l’avrebbe tramandata, con lui si sarebbe persa traccia di un rito che si ripeteva identico da secoli, affidato dal padre al figlio. Lui sarebbe stato l’ultimo portatore di un sapere che con lui sarebbe svanito per sempre.
Con Phleba sarebbe morta la sua famiglia e con essa il ricordo di tutte le persone che ne avevano fatto parte, esiliando il loro nome nei territori oscuri dell’oblio.
Phleba immaginò di essere ancora seduto con suo padre sulla roccia bassa che si estendeva verso il fiume gravido di pesci. Con un gesto imitò il lancio della lenza e nel ricordo vide il galleggiante rudimentale ondeggiare inclinato nell’acqua sino a che, con uno strappo, un pesce abboccava e tirava. Spingeva verso la libertà, verso la vita. L’amo sempre più profondo nelle carni. Phleba ricordò la voce del padre che lo tranquillizzava con il suo tono basso, cavernoso e gli indicava come riavvolgere la lenza. Rivide per un momento suo padre, allora era già quasi completamente metallizzato e poche erano le aree del suo corpo ancora biologiche. Phleba invece era un ragazzino ancora fatto di carne e osservava estasiato il corpo lucente del padre riflettere brunito la luce del sole. In lontananza un gasometro s’innalzava al cielo e sembrava tributare omaggi a creature superiori.
Phleba tornò in sé, nella mente il ricordo del padre piano si spense e si trovò di nuovo in mezzo al deserto sulla riva del fiume nero che scorreva verso il mare a ovest.
Decise di incamminarsi lungo la riva seguendo la direzione della corrente, adeguò il suo passo alla velocità del fiume e si preparò a seguirlo sino al mare. Il mare. Non sapeva quanto avrebbe dovuto camminare ma questo non gli importava molto, la sua preparazione monacale e il suo stesso essere creatura post-umana gli permettevano di immergersi nel pianeta desolato senza limiti, penetrandolo sino ai suoi recessi più profondi, senza alcun confine. Phleba attivò il risparmio energetico della sua tuta e questa smise di archiviare e registrare dati e si tenne in modalità stand-by. Per la prima volta da quando era iniziato il suo viaggio esplorativo Phleba disattivava le funzioni primarie della tuta protettiva, ora era solo una guaina, un involucro senza coscienza. Phleba sentiva che intorno a lui non c’era pericolo, lì solo il fiume che scorreva e il rosso del deserto ovunque.
Osservò il rivo scivolare fiacco nel suo letto, lo vide trascinarsi come un vecchio, un infermo. Phleba percepì l’assoluta indifferenza, l’aristocratica noncuranza, lo sfregio del mondo. Il Fiume non era lì per dar la vita. Supponente distacco e infinita solitudine, il Fiume esisteva per se stesso. Niente dipendeva dal suo scorrere, né per vivere, né per morire.
Così come Phleba il Fiume penetrava nel cuore del mondo desolato senza alcuna possibilità di spiegare l’assurdo vicino. Il Fiume non faceva altro che scorrere, insensatamente.
Phleba era stanco ma non si fermò e continuò a camminare a fianco del fiume. Il mare restava aldilà di una inesistente collina.
Fu pochi chilometri più in là che Phleba vide le chiatte e udì il suono di trombe.
Il Fiume si era allargato trasformandosi in una specie di lago ristagnante ed immobile. Phleba non riusciva neppure a vedere la sponda dal lato opposto, lontana e nascosta da una nebbia sulfurea che aleggiava sulla superficie viscosa del Fiume. Nel cielo le solite nuvole scure promettevano un’ingannevole pioggia che non sarebbe mai caduta.
Prima vide una macchia indistinta sul Fiume proprio nel punto in cui cominciava ad allargarsi e a farsi più lento. Mise la mano sulla fronte a proteggere gli occhi dalla luce ma ancora non colse nulla se non qualche indistinta massa galleggiare sul putridume del Fiume. Aumentò lo zoom dei bulbi oculari e li fissò a 100x e fu così che vide le chiatte. I barconi ondeggiavano e andavano alla deriva in attesa della marea ancora distante. Rosse vele a sottovento cadevano flaccide sui pesanti pennoni e le chiatte sciabordavano come tronchi dispersi nella corrente. Phleba osservò le basse imbarcazioni scivolare sensuali sulla melma nerastra ed udì in lontananza un suono di trombe che pareva rimbalzare e propagarsi nell’aria in ogni direzione. La musica pareva venire da ogni luogo.
Aumentò l’intensità dello zoom mentre le navi muovevano controcorrente verso di lui e osservò le plance legnose e deserte, i possenti timoni ruotare a vuoto senza controllo e le vele strappate pendere cadenti. Cercò Phleba di scorgere qualche creatura che potesse spiegare la presenza di quelle navi ma non scorse nulla. Tutto sembrava privo di vita. Le trombe nel frattempo continuavano a suonare, una musica alta, stridula, una ritmica incedente, una strana marcia che assomigliava al canto funebre di un esercito pronto per la battaglia. Phleba attivò la visuale a grandangolo dei suoi bulbi visivi per cogliere l’origine della suono ma nulla si agitava intorno a lui. Registrò la marcia musicale e la catalogò compressa come ogni altra informazione. Sapeva che un suono così ricco non poteva essere prodotto da un solo strumento, doveva esserci un intera orchestra di trombe nascosta da qualche parte nel deserto introno a lui. Allora Phleba si figurò nella mente colonne di musici ordinati avanzare serpeggianti nel deserto suonando litanie ripetitive e assillanti annunciando il proprio incedere. Musicisti bassi dalle lunghe braccia e dalla corte gambe che zampettavano sulla sabbia infuocata ripetendo incessantemente le medesime note. Alienazione della musica.
Il suono persisteva nell’aria facendosi più forte e più definito ma Phleba continuava a non veder niente, se non le chiatte che gli si avvicinavano sospinte dal vento gelido che da nessuna parte pareva provenire.
Phleba si fermò, non si mosse e lasciò che la corrente che stava accompagnando da ormai molti chilometri proseguisse oltre, indifferente a ciò che la circondava. La guardò fuggir via, e si chiese che ne sarebbe stato, come avrebbe continuato il cammino senza la sua silenziosa compagnia. Ma non poteva proseguire. Doveva fermarsi e tentare di dare una ragione alle chiatte e alla musica delle trombe nell’aria. Il suo compito era registrare, stoccare, preservare le informazioni. Ogni altra cosa era secondaria, inutile.
Le chiatte intanto si fecero prossime e in pochi attimi furono davanti alla sponda, nel punto esatto in cui Phleba si era fermato e attendeva di comprenderle. Le osservò con attenzione lasciando che i ricettori meccanici impiantati nelle sue strutture metalliche archiviassero ogni dato, avidi di informazioni.
Phleba contò circa ventidue zattere, identiche l’una all’altra, il pescaggio basso, la superficie di legno scuro deturpata dal liquame nero del Fiume, ampie parti divelte e scrostate e in plancia nessuna traccia che potesse far pensare ad un popolo di marinai alla deriva sul Fiume. La poppa di ogni nave era formata come una conchiglia dorata, rossa e lucida, unico elemento decorativo ad essere sopravvissuto al deturpamento del fiume limaccioso.
La musica delle trombe si fece ancora più forte e Phleba riconobbe, nascoste nei ritmi ripetitivi e catatonici, alcune tracce dei canti del suo pianeta d’origine. Armonie che spesso mormorava tra i denti e che gli ricordavano le terre che aveva amato, i luoghi che sentiva propri, gli spazi verdi che chiamava casa. Una sorda rabbia gli montò dentro, come potevano le melodie del suo pianeta essere lì, in quel luogo desolato e assurdo, in quel mondo guasto e sbagliato? Come osava l’immonda ontologia di quelle lande appropriarsi anche della sua tradizione, della sua storia, della musica che aveva conservato dentro di sé in uno spazio protetto, segreto luogo interno che lo ancorava alle sue origini, alla sua cultura?
Prestò nuova attenzione alla musica ma questa volta non udì nulla che gli ricordava casa. Si era forse sbagliato? O era stato un attimo improvviso subito cancellato dalla mente del suonatore? E dove erano i suonatori? Perché non riusciva a vederli?
Phleba si portò le mani sulla faccia e quasi si graffiò il volto. Cosa stava succedendo?
Intanto le chiatte proseguivano oltre e docili risalivano la corrente del fiume superando Phleba e perdendosi oltre. Si voltò a guardarle e le vide scivolar via accompagnate dal solito suono di trombe che già si spegneva all’orizzonte.
Restò come sempre solo. Immobile. Incapace di darsi una ragione a ciò che lo circondava. Sembrava quasi che i fatti di quel mondo desolato lo cercassero, lo bramassero ma solo per sfiorarlo delicati e poi, improvvisamente, così come venivano, scomparivano oltre, lasciandolo nell’incertezza e nel dubbio. E nella solita, malata, solitudine.
Phleba restò immobile ad osservare le chiatte e le loro vele rosse sparire dietro l’ansa che voltava a sinistra. La musica di trombe divenne un’eco vaga in lontananza sino a sfocare nel consueto, delirante, silenzio che avvolgeva il pianeta. Neppure il Fiume sembrava più emettere il suo malefico gorgoglio viscido. Restò solo Phleba. Lui ed il suo respiro affannoso.
Chinò il capo e comprese il mondo.
Tutto ciò sino a quel momento gli era sembrato insensato, desolato e malignamente assurdo prese forma, si distese come un manto caldo e divenne luminoso, limpido. I tasselli di un mosaico ritorto si accostarono l’uno all’altro e il disegno nascosto comparve, rivelandosi nella sua meraviglia nascosta. Phleba vide la superficie delle cose su cui stava camminando.
Phleba non si stupì, la verità era stata tante volte di fronte ai suoi occhi artificiali e metallici ma mai, prima di allora, l’aveva scorta. Si chiese se fosse proprio il potenziamento post-umano a cui era stato sottoposto negli anni ad essere la causa della sua miopia. Phleba si pensò nella sua post-umanità, creatura semi-metallica, freddi tessuti impiantati, perfetti, incorruttibili e indifferenti persino al tempo. Lui sarebbe morto ma le parti installate nel suo corpo alterato avrebbero continuato ad esistere sino a sfiorare l’eternità stessa. Cose morte di fronte alla fine del tempo. Phleba vide se stesso e si scoprì, come forse mai prima di allora, identico ad ogni altro essere post-umano sparso nella galassia, neppure il suo essere solo e solitario nelle pieghe del mondo desolato gli pareva più un appiglio solido su cui costruire un’unicità oligarchica e altezzosa. Phleba era la comunità degli esseri post-umani, era il loro rappresentate di fronte ad un inesistente giudice che altro non era che il proprio osservarsi, il riflesso in uno specchio non più opaco. Phleba non si giudicò, ma semplicemente si osservò.
E vide.

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21 luglio 2008

Il Fiume

Pensa a Phleba (14)
Il Fiume scorreva lento. La corrente melmosa avanzava come colla, bava strisciante. Intorno il rumore sommesso di un gorgoglio invadente, melliflua carezza che violava i timpani, penetrandoli. Phleba trattenne un gesto, le mani già all’altezza dalle orecchie per serrarle, per difenderle dal soffuso fragore limaccioso. Regolò veloce i servosensori del canale uditivo e rese il mondo intorno a lui silenzioso, un silenzio assoluto, innaturale, bianca sordità.
La sua ultima tappa fluiva appiccicosa pochi metri più in là. Il Fiume.
Phleba non conosceva le ragioni per cui il Priore Tiresia gli aveva imposto quei passaggi obbligati: la Città, le Montagne ed ora il Fiume. Forse non v’era una ragione precisa, solo una scelta casuale sulla mappa deforme del pianeta desolato per definire l’ennesimo tentativo vano di esplorazione, di indagine. Quante altre tappe avrebbe potuto raggiungere Phleba? Luoghi di una non-ricerca confinata nell’inesistenza, territori mai neppure pensati e per ciò neppure reali. Esistevano solo i luoghi percorsi. Ogni altra cosa era poco più che fumosa potenzialità che mai si sarebbe elevata alla dignità dell’atto. Ricordò Phleba per un momento i molti nomi tracciati sulla carta planetaria del mondo, mappa tracciata in decenni di ricerche che nulla raccontava del pianeta. La Foresta, il Lago di Pietre, il Teatro, la Depressione, nomi che a Phleba ricordavano solo vecchie foto sbiadite scattate da qualche satellite ormai dimesso. Il suo pianeta folle era lì, viscido di fronte a lui, straripante ricordi di luoghi visti e camminati.
Fece un passo Phleba e il Fiume gli si fece incontro, più vicino, maliziosamente prossimo.
Desiderio di acqua e Phleba fece un altro passo e il Fiume non indietreggiò mostrandosi impudico in tutto il suo orrore. Petrolio e catrame, il Fiume trasuda pece nera. Nero, il Fiume è nero e denso, carammeloso. Liquami biliosi scivolano lungo il greto rotto e un vento attraversa la terra bruna, senza che nessuno ascolti la sua lamentazione.
Il rivo putrido attraversa la terra bruna e serpeggia lungo deserti infuocati e rossi senza che nulla possa deviarne il corso verso un mare che resta invisibile, sempre nascosto da un oltre lontano.
Phleba si fece prossimo, sull’orlo della riva osservò il riverbero nero e spugnoso che procedeva pigro. Immobile fissò il Fiume ma non pianse. Non aveva lacrime da sprecare, nessun liquido da tributare al sermone del fuoco e il suo viso restò asciutto, vergato di rughe profonde e sentieri di sudore raffermo.
Allungò la mano e toccò la massa untuosa, mosse le dita per saggiare la densità, ne fece scorrere un filo tra il pollice e l’indice, represse un conato di disgusto e continuò a toccare il liquido immondo. I ricettori della tuta e degli impianti metallici lavoravano a pieno regime, i dati registrati e velocemente stoccati nei mitocondri alterati del suo supporto bio-storage, prima catalogazione secondo categorie predefinite e imposte chimicamente ad ogni mitosi cellulare.
Il Fiume era basso e Phleba potè quasi sfiorarne il fondo, toccare la superficie. Con le dita rastrellò un po’ della sostanza che vi era adagiata e la estrasse dalla melma viscida. Foglie, piccole foglie putride e in decomposizione. Foglie flosce che Phleba osservava chiedendosi da quali alberi potessero provenire, si guardò intorno ma solo deserto rosso e fiume nero. Nuvole fosche s’addensavano in lontananza ma nessuno attendeva la pioggia che mai sarebbe caduta.
Nessun bagliore di lampo nel cielo viola.
Fu lo squittio a destarlo dai pensieri in cui si era smarrito, ultimi labili rifugi contro la desolazione della terra. Alle sue spalle una folata di vento, gelida, improvvisa e un sordo rumore di ossa scrocchiate sotto passi fugaci che sembrava fuggissero via. Non avrebbe dovuto udire nulla nel silenzio indotto dei ricettori uditivi ma lo sentiva, chiaro, poco più in là. Lo squittio. Phleba non si voltò, aspettò immobile fissando un punto imprecisato del Fiume, lo sguardo nell’invisibile del nero melmoso, i ricettori uditivi tesi ad ascoltare il rumore impossibile. Lo squittio. E il topo strisciò via, il ventre molle schiacciato contro la terra bruna e polverosa e le gambe veloci a calpestare frammenti d’ossa essiccati al sole. Phleba lo vide con la cosa dell’occhio e restò ad osservarlo mentre scendeva la bassa riva del fiume e nel putridume nero s’immergeva sino a sparire nel nero. Affogato. Così com’era comparso il ratto svanì e il pianeta tornò nel silenzio alterato della postumanità di Phleba. Nessuno squittio ora.
Il Fiume continuava a scivolare untuoso come se nulla fosse accaduto, indifferente a se stesso come ad ogni altra creatura vivente. Il suo cammino verso il mare proseguiva e solo lo strisciare perenne lungo il letto disfatto pareva essere importante. Nient’altro.
Là dove il ratto era comparso Phleba notò le piccole ossa sbiancate dal vento e dalla sabbia. Schegge di scheletri senza forma, irriconoscibili brandelli di inesistenti creature che forse secoli addietro avevano popolato quella parte del pianeta folle. Phleba immaginò per un momento prospere civiltà fluviali sorgere sul rivo melmoso e nero e trarre da esso abbondanza e ricchezza. Lungo il fiume sognò di edifici possenti, alti sino ad oscurare i mille soli nel cielo, templi eretti a celebrare divinità eterne. Vide folle osannare re e regine semidivini, eserciti immortali sconfiggere nemici cruenti e colonne di schiavi sacrificati per placare ire e invidie. Lesse poemi mai scritti raccontare di inferni e resurrezioni, smembramenti e supremi giudizi. Erano lì, di fronte a lui, quasi che davvero su quel fiume limaccioso un tempo vi fosse stata una qualche antica civiltà millenaria.
Solo deserto. Deserto, ora intorno a Phleba solo sabbia e terra sterile. Neppure nella sua mente restò traccia del ricordo e i mille nomi delle divinità mai venerate scomparvero di nuovo nell’oblio.
Phleba strinse nella mano un frammento d’osso, lo serrò nel pugno con violenza sino a sbriciolarlo in una polvere sottile, bianca, sottile. Aprì il palmo della mano e la soffiò via, lasciando che si depositasse lontana, trasportata dal vento gelido che da nessuna parte pareva provenire. Phleba pensò così che la terra sterile del pianeta desolato poteva essere solo fecondata da semi di ossa, embrioni di morte.

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15 luglio 2008

La Pianura

Pensa a Phleba (13)
Phleba non si mosse. Il pianeta desolato troppe volte l’aveva sorpreso, ingannato, umiliato e ora sapeva che non tutto ciò che appariva di fronte a suoi occhi era vero, concreto, reale. Lasciò che i bulbi oculari metallici registrassero quante più informazioni possibili delle piccole creature che si sporgevano dall’alto a guardarlo e a schernirlo, sarebbero poi stati gli scienziati dell’Ordine a tentare di dare una spiegazione a ciò che lui ora stava fissando.
I piccoli esseri dalle facce rosse erano accovacciati a pochi metri sopra di lui, protetti da un’insenatura naturale della roccia, una specie di ballatoio e da lì, indicandolo freneticamente, urlavano suoni indistinti, mormorii leggeri e stridore di denti. Phleba calcolò che non dovevano essere più alti di un metro, vestiti di strani abiti, una casacca allacciata da ruvide corde sopra una lunga veste color delle rocce. Si muovevano veloci, guizzando nello spazio angusto della sporgenza identici l’un con l’altro, Phleba non riuscì a capire quanti fossero. Cinque o cinquanta non avrebbe saputo dirlo.
Immobile nella spianata dentro le Montagne, alla sua sinistra la parete intarsiata di dementi bassorilievi e sopra di lui il vociare sommesso di creature dal volto rosso che lo additavano, lo osservavano, quasi che fosse una meraviglia, una meraviglia nascosta.
Ancora una volta Phleba lasciò che il tempo si fermasse, chiuse gli occhi e permise alla tuta protettiva e ai sensori metallici del suo corpo alterato di stoccare dati, informazioni, parametri quantitativi che sarebbero stati decifrati e utilizzati per analisi e statistiche predittive. Phleba sentiva però ancora sulla superficie del bulbo oculare metallico la sensazione, l’impatto sensoriale. Nonostante le palpebre fossero ormai abbassate la percezione era ancora lì, viva. Sentiva il colore delle facce delle creature, sentiva la forma dei loro piccoli arti, l’andatura ciondolante del loro incedere umanoide, come se l’occhio lo stesse ricordando. Riviveva ogni singolo attimo ed di ogni attimo ricordava l’emozione: lo spavento, la sorpresa, la curiosità, la desolazione. Elementi qualitativi che venivano tradotti dai sensori della tuta protettiva in numeriche ripetute, in scale di battiti cardiaci, in campionamenti di pressione sanguigna e in livelli normalizzati di ormoni adrenalinici nel sangue. Dati per cui Phleba era solo lo strumento di registrazione ed il piano di riferimento condiviso. Ma Phleba sentiva che il mondo che lo circondava non era solo riduzione quantitativa, vi era dell’altro che non riusciva a descrivere, qualcosa che restava aldilà di ogni dato e che lui riusciva solo ad intuire vagamente.
Phleba ricordò che non poteva restare confinato nello spiazzo per sempre, doveva avanzare, andare avanti, la sua missione doveva essere compiuta.
Fece un passo nella direzione del ballatoio e subito le piccole creature fuggirono via, spaventate. Phleba sentiva ancora il mormorio soffuso delle loro voci oltre la sporgenza. Erano lì, quasi ad invitarlo a proseguire, a seguirle, a vedere il luogo da cui esse provenivano. Cominciò ad arrampicarsi, lentamente, lasciandosi aiutare dagli arti metallici potenziati e dalla memoria indotta dell’allenamento religioso. Solo pochi metri separavano la spianata dalla sporgenza delle esseri dalle facce rosse, pochi metri di liscia e granitica superficie verticale. Phleba infilò le dita nella roccia creando appigli laddove appigli non ce n’erano, scavando la roccia e deturpando l’armonia innaturale della parete con i solchi delle sue mani, dei suoi piedi e del suo scalare, oltre ogni ostacolo. Nessun ostacolo al suo cammino.
In poco meno di mezz’ora fu sulla sporgenza naturale, era deserta. Il ballatoio era largo pochi metri quadrati e, sul lato opposto dal punto in cui Phelba era salito, partiva uno stretto corridoio che si insinuava dentro le Montagne. Phleba osservò le tracce nella sabbia rossa che avvolgeva ogni anfratto delle Montagne e intuì il passaggio delle creature dal volto rosso: impronte di piccoli piedi che correvano a perdersi dentro lo stretto sentiero. Phleba contò le tracce e calcolò che le creature che l’avevano osservato poco prima erano circa una decina e si incamminò lungo il sentiero. Era così stretto che a malapena riusciva a passarci, dovette procedere per un lungo tratto di traverso, spalle a miro, scivolando faticosamente nel cunicolo scavato nella roccia. Non sentiva più le voci e i bisbigli delle creature ma aveva lasciato i servo-ricettori meccanici attivati al massimo, non voleva essere ancora colto di sorpresa.
Camminò per circa un’ora e poi all’improvviso l’angusto sentiero incavato nelle Montagne si interruppe e Phleba non credette ai suoi occhi.
Di fronte a lui, un solo passo oltre, si apriva una distesa infinita, una pianura sconfinata, limitata solo dall’orizzonte piatto che si intravedeva in fondo. Il pianeta ancora una volta mostrava la sua assurdità e Phleba non potè far altro accettarla.
Dentro le montagne, di fronte a lui, si apriva una pianura interminabile, terra screpolata ovunque, infinito dentro l’infinito.
In alto, sulla soglia che si apriva sulla Pianura, Phleba non fece altro che zoomare modificando il diaframma dei suoi bulbi oculari impiantati e inventariò ciò che gli si parava oltre. Sparpagliate sorgevano qua e là città, bassi edifici, case di fango scrostato, torri crollanti nell’aria viola che incombeva dal cielo.
Fece scorrere lo sguardo da un estremo all’altro del delirio piatto che sorgeva un passo più in là e vide, fra le città, orde incappucciate sciamare senza direzione, accompagnate dal sommesso mormorio e dal bisbiglio fastidioso delle creature dal volto rosso. Carovane di esseri dalla forma vagamente umanoide, coperti da una folta e morbida peluria, file di uomini in miniatura che si spostavano nella distesa infinita senza mai incontrarsi, forse persino inconsapevoli della presenza le une delle altre. Colonne di carri rudimentali trasportati da quadrupedi giganteschi lambivano la vasta distesa come serpenti sinuosi e proseguivano in un identico, eterno, percorso circolare alla ricerca di una destinazione, di un luogo in cui fermarsi e costruire un’altra delle città di fango che popolavano la pianura. Un’incessante ricerca di un luogo in cui fermarsi e costruire effimeri giacigli.
Phleba notò che v’erano anche relitti, carri devastati e distrutti e ossa sparse sulla sabbia rossiccia ed immaginò che non tutte le carovane riuscivano a trovare il luogo che stavano cercando e morivano così, sperdute e solitarie nella pianura.
Restò a lungo ad osservare le città e i serpenti snodarsi insensati nella Pianura che si apriva un passo oltre di lui ma quel passo Phleba non lo fece. Restò sulla soglia dello stretto sentiero scalfito nelle Montagne e non si unì alle carovane che cercavano un luogo per fermarsi, per costruire fangose città. Non voleva fermarsi Phleba, non poteva. Il suo compito era camminare ed osservare, catalogare, trasmettere; senza nessuna comprensione stoccare dati e informazioni numeriche dentro il bioware della tuta. Phleba era solo il veicolo di un futile tentativo di esplorazione dell’assurdo, vivo dentro il cuore stesso di un’ontologia deformata. Nessuno avrebbe mai chiesto a Phleba un resoconto, un rapporto, una sua personale opinione su ciò che stava osservando, sui luoghi che stava incontrando e sull’insensato che ovunque trionfava. Phleba ne era felice, non avrebbe saputo cosa dire e soprattutto non avrebbe mai potuto spiegare il fatto che cominciava a comprendere l’orrore che lo circondava, l’assurdità del pianeta e la deformazione dell’ontologia. Phleba vedeva il mistero.

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