28 aprile 2006

Scorre il tempo

Scorre il tempo
.
Scorre il tempo
E sento i rintocchi
Di lontane campane
Spegnersi piano.

Lugubri echi
Nell’aria scopaiono,
Spenti latori
Di violente percosse.

Nel nuovo cammino
Come il vecchio imperatore
Lascio alle spalle
Un’antica prigione.

In popolose terre
Mi ritrovo insicuro
E vedo sorpreso
Gli altri sapere.

Ad ogni ora scoperte!
Gli occhi spalanco
Su un mondo a me nuovo
E bambino rinasco.

Ingenuo imparo
Le regole strane
Che dell’uomo normale
La vita destinano.

L’orizzonte è lontano
E questo sentiero
Oltre la notte
Trova il suo fine.

Ma i bagliori di luce
Di sogno o reali
Là su quel valico
Le nubi rischiarano.

21 aprile 2006

Poesiucole serali

Nel baratro della tristezza

Nel baratro della tristezza,
mi sono seduto e ho composto
versate poesie.

In alto l’accecante luce
Feriva i miei occhi
E il mio cuore.

Ora cammino
piano verso il cielo
e sogno le stelle,
le infinite stelle che forse vedrò.

La luce si spegne
E la volta si oscura,
ecco le lucciole danzano gaie.


E’ triste il destino

E’ triste il destino
Del cieco che per un solo giorno
Vede?

Nel ricordo di ciò che perso
Si consumerà
O loderà il destino
Che nell’attimo la luce gli ha donato?

Questo il dubbio
E io che son l’orbo
Scelgo di lodare.

17 aprile 2006

Gocce di una mente sola

Parassita di Vite Narrate
.
Parassita di vite narrate,
resto come spettatore
seduto al teatro della vita
e lascio gli attori
recitare vivendo.
Attendo curioso
gli intrecci mostrati
e il finale vicino:
il nero sipario
che tutto oscura
- - - - - - - - - -
A colei che è stata
.
Eri l'ancora
che mi aggrapava al mondo
e ora che non ci sei piu'
vado alla deriva
nel mare della follia.
--------------------
A colei che verrà.
.
Spero di incontrarti un giorno
e di ricordare ancora
che le parole che mi dici
sono vere.
E che la mia follia è un po'
anche la tua follia.

16 aprile 2006

Placida ansa

Placida ristagna
l'ansa del fiume.
Increspate onde
contro l'argine muoiono.
Dispettose oche
si muovono libere.
La gente felice passa
e non se ne avvede.

11 aprile 2006

Cronaca del dopo-bomba

CRONACA DEL DOPO-BOMBA
Quando uscì dalla porta, la luce del sole si era fatta rossa e stava morendo lentamente dietro la fila di case sull’altro lato della via. Un cane attraversò la strada dimenando la coda. Lui si chinò, gli fece una carezza e pensò. Mi resta ancora una cosa sola da fare.
Con la mano fra il pelo fulvo del dorso del cane borbottò qualche frase scomposta e l’animale gli rispose con un mugolio triste, guardandolo con i suoi grandi occhi neri. Si drizzò con fatica in piedi e fece scorrere lo sguardo sulle case a ridosso della strada. Se le ricordava un tempo, vive e piene di gente vociante, felice e spensierata, ora le vedeva devastate dall’esplosione, ruderi ammassati di mattoni e calcestruzzo senza forma, un’incoerente opera d’arte astratta dalle proporzioni gigantesche.
Solo la memoria gli permetteva di riconoscere in quelle macerie le forme consuete, rassicuranti delle piccole villette che un tempo sorgevano ridenti lungo quella strada di campagna.
Un alito di vento improvviso gli scompigliò i capelli e con un gesto rabbioso tentò di tirali indietro dalla fronte e dagli occhi, li sentì sporchi, pieni di polvere grigia, fine e sottile, mefitica, tanto infida da infilarsi ovunque, inaridendo la gola e oscurando la vista.
Il suo sguardo si perse all’orizzonte, la strada procedeva a perdita d’occhio costeggiata dalle rovine delle case e dai resti ancora fumanti di alberi bruciati. Rivoli serpeggianti di fumo nero salivano al cielo scossi da un filo d’aria secca e pungente.
L’ultima cosa. Doveva fare l‘ultima cosa. Non avrebbe lasciato che tutto finisse semplicemente così. Ormai nulla sarebbe potuto cambiare, il pulsante era stato premuto e anche se erano passate solo poche ore da quel singolo momento di distruzione, sembrava davvero che facesse parte di un’era prima, di un mondo prima, di una vita prima.
Si incamminò con un passo strascicato e sofferente. La bomba l’aveva risparmiato ma il suo corpo era stato comunque consumato dalle radiazioni, dal calore e dalla violenza della detonazione.
Era stato fortunato. Quando il bottone era stato premuto, lui si trovava casualmente in cantina e, nonostante il crollo della casa sopra di lui, era riuscito a strisciare fuori e a respirare per la prima volta l’aria calda e densa di quel cielo violaceo. Aveva capito immediatamente cosa era successo. Troppe volte aveva ascoltato i notiziari scherzare sul pericolo di una nuova guerra totale, esorcizzare la paura con astrusi ragionamenti di geopolitica, scongiurare il panico con preghiere rivolte al cielo stellato e inebetendosi davanti a stupidi spettacoli televisivi.
Alla fine il dito si era mosso, un gesto semplice, apparentemente quotidiano, ripetuto infinte volte ogni giorno, abbassarsi, dare una leggera spinta e premere un interruttore, ma questa volta il bottone calcato non era uno qualunque.
Si immaginò il meccanismo che comandava la bomba, che le dava vita; una volta lesse un racconto in cui veniva descritto come un’enorme marchingenio grande quanto una parete di un’ampia sala, con led multicolori e intermittenti ad indicare chissà quale dato. Lui se lo era sempre figurato in modo più semplice.
Un piccolo meccanismo ovale, liscio, di colore biancastro, caldo al tatto e pesante. In cima, nella parte più stretta, un piccolo pulsante con un singolo led rosso opaco. Un oggetto dal design avveniristico, studiato e ricercato, ergonomico, quasi che vi fosse la necessità di averlo sempre con sé per essere pronti in ogni momento a comandare la distruzione.
Percorse faticosamente la strada che tante altre volte aveva intrapreso per recarsi in città, ora l’asfalto si deformava ad ogni passo, improvvise crepe e bubboni comparivano qua e là senza ordine apparente.
Dolorosamente gli tornò alla mente la pelle ustionata della prima persona che vide una volta risalito a fatica dalla cantina semisepolta. Non ebbe il coraggio di avvicinarsi troppo, di soccorrerla, di prestarle qualche aiuto, rimase lì, fermo ed immobile, guardandola contorcesi e sibilare gemiti di dolore. La pelle, ciò che l’aveva impressionato era l’epidermide, gli era rimasta scolpita nella retina, grigia, leggermente fumante, piena di croste, pustole e tumescenze gonfie di una sostanza giallastra e viscida. Aveva osservato l’uomo contorcersi a terra per diversi minuti e poi spegnersi con un rantolo soffocato, era rimasto lì incantato a fissare quel corpo ormai privo di vita e liberato da una sofferenza indicibile. Quello era stato il suo risveglio nel nuovo mondo. Nel dolore di quell’uomo morente si era compiuto il suo travaglio, la sua nuova nascita. Come la prima volta anche questa seconda volta era venuto al mondo nel sangue e nelle urla di sofferenza.

Giunse in città lasciandosi indietro i luoghi che aveva amato e che chiamava casa. Sul suo cammino non aveva incontrato nessuno, solo cadaveri orrendamente ustionati o statue di gesso digrignanti e urlanti, coloro i quali erano stati colpiti in pieno dalla folgore dell’esplosione e dalla sua vampa incandescente.
Aveva camminato a lungo, la testa china, senza guardare il volto dei corpi sparpagliati lungo la strada, non voleva riconoscere in quegli amassi di carne devastata amici e conoscenti, non voleva dare umanità a quelle orrende cose immobili stese lungo l’asfalto deformato.
Il sole scendeva placidamente lungo la linea dell’orizzonte e il crepuscolo lentamente oscurava i deboli raggi rossastri che ancora si incaponivano ad illuminare l’orrore, quando arrivò nella piazza. Ampia, spaziosa, decorata da antichi palazzi frutto dell’ingenio di sommi architetti, era stata per secoli il fulcro della città stessa, il luogo in cui i suoi cittadini si trovavano, si scambiavano idee, si amavano e vivano la loro natura di esseri sociali. La guardò, i suoi occhi inespressivi e vuoti scorsero le poche macerie, la desolazione, la miseria di una radura deserta, piatta, niente era rimasto, nessuno degli imponenti palazzo era sopravvissuto alla deflagrazione. Del luogo più bello della città rimaneva solo uno spiazzo polveroso di terriccio marrone, una piana distesa di scempio. Era quello il luogo in cui era scoppiata la bomba.

Vagò per la città senza meta, perdendosi tra strade che ormai non esistevano più e contemplando palazzi che si trovavano solo nella sua memoria. Attraversò interi quartieri scavalcando macerie e rovine, arrampicandosi tra cumuli di mattoni rossi del sangue di corpi schiacciati. Perse la cognizione del tempo e solo quando si accorse che il buio della notte, indifferente alla tragedia dell’uomo, era calato come ogni giorno si decise a portare a termine il suo progetto.
Cercò sopra di sé qualche punto di riferimento per orientarsi, una stella o una costellazione che potessero dirgli, dalla loro immutabile ed eterna staticità, quale direzione intraprendere per giungere nel luogo in cui tutto si sarebbe finalmente computo. Guardando nel nero del cielo si accorse di un fenomeno strano, un leggero alone arancione rischiarava leggermente la volta celeste, una sorta di aurora boreale, onde sinuose e tortuose si muovano delicate, improvvise esplosioni di luce gialla si accendevano casualmente al loro interno, tracciando misteriose figure ed evocando insolite e assurde raffigurazioni.
La violenza dell’esplosione era stata tale che persino il cielo ne era rimasto sfigurato e ora, nel buio della notte, sanguinava gocce di luce giallognola.
Quasi confortato dal fatto che il dolore non fosse solo degli uomini e che anche la natura stessa ne portasse le tracce e le cicatrici suppuranti si diresse verso la foresta che sorgeva al limitare della città. Non dovette camminare molto, il suo vagare senza metà l’aveva condotto nelle sue vicinanze come se il suo inconscio non si fosse affatto dimenticato del suo proposito finale.
La foresta, in realtà una semplice radura boscosa, sorgeva a nord della città e si estendeva per una superficie identica a quella del centro abitato. Una sorta di immagine riflessa, di presuntuoso duplicato naturale dell’operosità urbana dell’uomo.
Vi giunse percorrendo un lungo e stretto sentiero che come una sorta di innesto nervoso collegava le case agli alberi.
La conosceva bene la foresta, tante volte ci aveva passato dei momenti meravigliosi, perdendosi in essa, lasciando che i rumori e i versi degli animali lo cullassero e lo stregassero, come smarrito in un luogo magico, incantato, un bosco fatato popolato da fate e spiritelli benigni.
Ora della foresta non rimaneva che cenere. Gli alberi erano bruciati e i loro tronchi ardenti rischiaravano la notte come tanti fuochi fatui. Il profumo del muschio e dell’erba era sostituito dal fetore di bruciato che bruciava i polmoni e accecava gli occhi.
Tossendo e coprendosi il viso con un brandello della camicia si trascinò sino al punto che cercava.
Una piccola radura. Si accorse di essere arrivato poiché in quel spiazzo non vi erano alberi incendiati, né arbusti fumanti, solo una sottile polvere che, depositatasi lentamente, aveva colorato di un grigio spento ogni cosa.
Si fermò al limitare della radura, non più grande di pochi metri quadrati, e per un attimo rimase a contemplare quel luogo. Quante ore vi aveva passato seduto, a leggere un libro o a sonnecchiare, oppure rimanendo lì a far nulla, lasciando che il mondo, le sue preoccupazioni, la sua stessa vita si allontanassero e lo lasciassero leggero e svuotato.
Con passo incerto, timoroso e tremante, si avvicinò al centro della radura. Debolmente si inginocchiò sulle gambe malferme e cominciò a scavare. La terra si era seccata per il calore dell’esplosione e le sue dita stanche fecero fatica a smuovere quei pochi centimetri di superficie che lo separavano da ciò che cercava. Una scatola. Un piccolo contenitore di metallo, senza incisioni né raffigurazioni, nel buio rischiarato dalle braci degli alberi ardenti, intuì il colore ramato, leggermente rugginoso, conseguenza di anni di sepoltura. L’esplosione non lo aveva danneggiato, era come se lo ricordava.
Delicatamente ne sollevò il coperchio. Guardò all’interno della scatola e vide ciò che cercava, un sorriso fece capolino sul suo volto. Reverente estrasse il piccolo foglio contenutovi. Una fotografia, ingiallita dal tempo i cui contorni ormai sbiaditi erano quasi cancellati, tuttavia il volto che vi compariva era chiaro, luminoso e limpido. Vivo.
Il viso di una donna, sorridente, i grandi occhi scuri fissavano curiosi l’obiettivo come se vi potessero vedere oltre ed osservare coloro i quali avrebbero guardato quella fotografia negli anni. I lunghi capelli neri erano leggermente scompigliati da un movimento repentino e giocoso. Alle spalle della donna si intravedevano degli alberi. Quella stessa foresta.
L’uomo si lasciò cadere a terra stringendo tra le dita la fotografia. La fissò a lungo e, chinando il capo, per la prima volta da quel mattino, pianse.

10/04/2006
Logos
Questo racconto è l'ideale e speculare prosecuzione di "Cronaca dell'ante-bomba".

10 aprile 2006

Dolce eutanasia

Dolce eutanasia
Piano la realtà si disfà
Tra le mie mani.
Come acqua scrosciante
Vanamente raccolta.
Scivola via
Il nulla lasciando.
Vuoto significato
Marionetta scomposta.
Biologico cammino
Tra funesti ricordi.
Arriverà l’oblio
Dolce eutanasia.

09 aprile 2006

Cronaca dell'ante-bomba

CRONACA DELL’ANTE-BOMBA
Quando uscì dalla porta, la luce del sole si era fatta rossa e stava morendo lentamente dietro la fila di case sull’altro lato della via. Un cane attraversò la strada dimenando la cosa. Lui si chinò, gli fece una carezza e pensò. Mi resta ancora una cosa sola da fare.
Alzò gli occhi e fissò le case che sorgevano ai margini della strada, tante piccole identiche costruzioni, l’una fianco all’altra come tessere di un immenso domino. Frutto di un progetto di urbanizzazione ordinata e senza fantasia, le case erano di forma quadrata, un tetto leggermente spiovente di tegole rosse, la facciata colorata da tinte pastello e tenui. A ridosso del marciapiede ai bordi della strada un giardino, qua e là qualche pianta, un albero, dei fiori a dare un tocco di personalità agli edifici indistinguibili, rivelando un carattere e un tratto della personalità del proprietario.
Ogni casa aveva una porta a vetri d’ingresso posta sul lato destro della facciata e a fianco spuntava impertinente un piccola finestra, semioscurata da tende dalle varie fogge e dai vari colori, come una sorta di occhio disattento al passaggio della gente lungo la strada di fronte.
Velocemente fece scorrere lo sguardo sulla fila di costruzioni identiche, finché gli occhi non furono catturati da un movimento, da un guizzo di colore improvviso e repentino; gli parve che la tenda di una casa fosse scossa da un gesto convulso. Guardò con più attenzione ma non vide nulla di strano, la tenda era ferma ed immobile. Avrebbe giurato però che, mentre il suo sguardo scorreva distrattamente, una mano nervosa avesse scostato la tenda e, accortasi di essere notata, si fosse subito ritratta.
Maledetti! Pensò. Credono che non mi sia accorto che mi stanno seguendo, che mi spiano e controllano i miei spostamento passo per passo, mi credono un ingenuo. Si illudono che chi mi guida non mi abbia avvertito.
Osservò ancora con rabbia le case intorno e, lanciato uno sguardo al cane che si stava allontanando, proseguì verso l’ultima fase del piano.

Era cominciato tutto circa un anno addietro, il piano gli era stato rivelato misteriosamente e a lungo aveva creduto che si trattasse di una sorta di burla, tutto appariva troppo assurdo, troppo irreale per poter essere vero. All’inizio non aveva fatto nulla ed aveva accantonato quel messaggio senza badargli troppo, ma esso continuava a tornare e a farsi sempre più insistente, la voce sempre più imperiosa e concitata. Non gli era stato spiegato nulla: all’improvviso qualcuno o qualcosa gli aveva detto che doveva fare una certa cosa. E l’aveva ripetuto, incessantemente, continuamente, ogni giorno, ogni singolo momento sino a che lui non l’aveva fatta.
Ogni tanto ripensava al primo passo del piano segreto, al primo tassello, alla prima volta in cui aveva fedelmente eseguito gli ordini che gli venivano impartiti in modo così irreale. Si vedeva furtivo eseguire quelle misteriose disposizioni e fare quella cosa apparentemente assurda. La sensazione di paradosso, di follia gli tornò prepotente alla memoria e si ricordò di quel “che diavolo sto facendo?!” ripetuto in modo assillante, ossessivo come una sorta di mantra che lo ancorasse alla realtà di un gesto folle. Ora che i tasselli si erano moltiplicati e il disegno del piano stava lentamente prendendo corpo non aveva ancora avuto quelle spiegazioni che aspettava con ansia, mancava l’ultimo passo, la chiave di volta che avrebbe finalmente dato a tutto il disegno il senso e che gli avrebbe permesso di comprendere il significato delle singole, apparentemente ridicole, azioni sin lì eseguite.

Da quella prima volta, però, non aveva più dubitato della luce.
Eseguiva gli ordini che la luce rosa gli dettava fedelmente, come un devoto di qualche divinità capricciosa ed esigente, senza porre domande.
La prima volta che la vide era una domenica mattina, stava ancora dormendo quando fu svegliato dal suono ripetuto e monotono del trillo della sveglia che aveva sul comò, con un gesto meccanico allungò il braccio per spegnerla quando si ricordò che la sveglia non funzionava più da oltre un mese e, addirittura, aveva staccato la presa della corrente, era rimasta sul comodino solo per abitudine e per pigrizia.
Aprì gli occhi appiccicosi per il sonno e ne fu completamente investito. Dalla sveglia si sprigionava una luce di color rosa che si diffondeva nella stanza pigramente, accentuata dal buio dell’alba ancora lontana. Rimase a fissare quell’alone colorato istupidito e senza riuscire a comprendere ciò che stava accadendo. Finché la luce parlò. Proprio dentro la sua testa una voce, decisa, ferma anche se non autoritaria e senza presentazioni, senza alcuna spiegazione, senza null’altro cominciò a dettargli il primo tassello del piano. La luce parlò per circa un’ora con un tono monotono, ripetitivo, piatto e lui rimase semisdraiato sul letto ad ascoltarla, come quasi ipnotizzato, finché la luce non concluse le sue folli prescrizioni. Subito dopo la luce svanì. Pensò di essersi sognato tutto, di aver avuto una sorta di allucinazione frutto di qualche sostanza stupefacente ancora in circolo fra le sue fibre nervose e durante la giornata quasi non ci pensò neppure, fino al momento in cui, la mattina dopo, la luce si ripresentò. E così face ogni singola mattina da quel giorno, dettandogli il piano e ciò che lui doveva fare.

Accelerò il passo, fremeva dalla curiosità di compiere quell’ultima azione e così, finalmente, capire il senso finale di tutto l’agire che aveva passivamente portato avanti sino a quel momento. Nella testa gli tornava la voce autoritaria proveniente dalla luce rosa che elencava le singole azioni da compiere, semplici questa volta ma estremamente importanti. Sapeva che i nemici della luce rosa tramavano, era certo che erano pronti a fermarlo perché il piano non si realizzasse, ne aveva avuto la prova un milione di volte da quella domenica mattina. Passeggiando per strada si accorgeva delle occhiate furtive che dei perfetti estranei gli rivolgevano, di come capitasse sempre più spesso che qualcuno lo scansasse per caso lungo la strada o sulla metropolitana, era certo che lo stessero seguendo, che cercassero di infilargli nelle tasche delle cimici, della radiospie, per rintracciarlo, per conoscere i suoi spostamenti. Ma lui era più furbo, ogni sera, appena rientrato dal lavoro bruciava i vestiti e indossava delle tute nuove, comprate ogni volta in un negozio diverso. Solo dopo queste operazioni usciva e andava a compiere ciò che la luce gli dettava. Era scaltro e non l’avrebbero fermato.

Il tramonto stava lentamente allungando le ombre e il crepuscolo si faceva via via più oscuro quando giunse alla piazza. Guardò l’orologio. Era in anticipo sugli sul piano ma qualcosa non andava. Si guardò intorno a scatti, spaventato, il cuore prese a battergli più velocemente e fiumi di adrenalina gli vennero pompate nelle vene. Il suo corpo stava reagendo ad un pericolo. Il pericolo era in quel caso il vuoto: non c’era nessuno. La piazza era deserta. Dov’erano finiti tutti? Quella era la piazza principale della città gremita di gente ad ogni ora del giorno e della notte e ora era deserta. Capì immediatamente che solo lui poteva essere causa di tutto questo. Erano forse riusciti a sapere che il disegno si stava compiendo? Si stavano organizzando tutti per fermarlo? Non si sarebbe fatto fermare, mancava così poco… Neppure tutti gli abitanti dell’intera città avrebbe avuto il potere di fermarlo, sarebbe andato fino in fondo.
Cominciò a correre, doveva affrettarsi, doveva impedire che riuscissero ad organizzarsi e mettere in campo tutte le loro forze per impedirgli di compiere la volontà della luce rosa.
La sua corsa, tuttavia, non durò molto, anni di droghe e di psicofarmaci avevano minato il suo fisico e si fermò boccheggiante, le mani poggiate sulle ginocchia piegate e il fiato corto. Si passò la mano sul viso per asciugarsi il sudore e sentì la barba ispida e dura che gli decorava le guance. Si voltò temendo di essere inseguito ma non vide nessuno e piano si rimise in cammino.
Conosceva il percorso, tortuoso e illogico, che a luce gli aveva ordinato di seguire. Avrebbe potuto arrivare al punto prefissato molto più facilmente seguendo un altro cammino ma la luce era stata perentoria: gli aveva dettato le singole vie che doveva percorrere per giungere a destinazione e alle sue timide proteste e ai suoi suggerimenti per una strada alternativa, più veloce e più facile, la luce aveva risposto come sempre: col silenzio.
Mancava ancora molto prima di giungere al punto prefissato, ancora molti sali e scendi fra le vie della città, giri inutili intorno alle piazze, improvvise deviazioni e strade da percorrere in un senso, poi nell’altro e infine ancora indietro. La mappa che la luce gi aveva descritto, stampandola sui suoi neuroni attenti, era come una sorta di labirinto, intricato e complesso, il cui unico modo di uscirne era seguire quelle direttive come una sorta di incantesimo ripetuto e recitato fedelmente.

Era circa a metà del cammino impostogli, quando si accorse che oltre le vette dei palazzi che lo circondavano, si intravedevano delle luci, comparivano e scomparivano all’improvviso, senza sosta e senza ordine. Restò a fissarle un po’ sino a che si accorse che si trattava di esplosioni. Concentrandosi ebbe, persino, l’impressione di cogliere il suono delle detonazioni, un rauco e costante rumore di sottofondo a cui prima non aveva fatto caso. Si guardò intorno, le strade erano sempre deserte come la piazza che aveva ormai superato da tempo, quel suo cammino labirintico all’interno della città non aveva avuto spettatori, la città era spettralmente vuota. Non se ne curava neppure più, immaginava tutti i cittadini chiusi in un immenso auditorium, costruito per l’occasione, discutere animatamente sul come fermarlo, su come impedire che il disegno si realizzasse e mentre loro si arrabattavano su strategie, idee e proposte, lui continuava il suo cammino e ogni secondo che passava la fine si faceva più vicina.
Ora però quelle luci lo spaventarono. Che avessero deciso la tattica per fermarlo? Bombe? Stavano bombardando la città, sacrificandola e distruggendola pur di fermarlo? Le detonazioni erano ancora lontane, stavano colpendo a caso, non avevano la minima idea di dove fosse e allora avevano di certo deciso di distruggere sistematicamente tutti i quartieri nella speranza, prima poi, di uccidere anche lui. La sua vita valeva l’intera città. Poveri illusi! Non lo avrebbero certo fermato, la sua meta non era nella città, tutto quel girovagare era un depistaggio, un inganno e loro ci erano cascati in pieno. L’ultimo atto del piano non si sarebbe compiuto nella città. La foresta che sorgeva a nord sarebbe stato il teatro di quell’ultimo gesto che avrebbe disvelato l’intero disegno e avrebbe portato al trionfo della luce rosa.

Il sole era orai sceso oltre la linea dell’orizzonte e poche e sparute stelle brillavano nel cielo nero a tratti rischiarato dagli aloni giallastri delle esplosioni che apparivano qua e là casualmente e imprevedibilmente, quando giunse al termine della città. La strada asfaltata si concludeva con un cartello di arrivederci e lasciava posto ad un sentiero a ciottoli che ben presto, però, si trasformava in una stradina sterrata e polverosa. La percorse a passo sostenuto per circa un chilometro finché non giunse al limitare della foresta.
La scelta di chiamarla foresta era apparsa a molti eccessiva e presuntuosa, in realtà si trattava di una semplice boscaglia che sorgeva a nord della città e si estendeva, come una sorta di gemella oscura e cattiva, per una superficie identica a quella dell’abitato. Un’ombra della città stessa, fatta di alberi e foglie. Gli era capitato una volta di vedere una fotografia scattata da un aereo, che raffigurava sia la città che la foresta di notte. Ricordò che ciò che l’aveva colpito furono proprie quelle due masse circolari, di identiche dimensioni, una esattamente sopra l’altra. Una, però, illuminata dalle luci di mille case vive della presenza di persone, l’altra oscura, più nera del nero della notte, spaventosa e misteriosa. Una sorta di anima nera che opprimeva le luci vive della città popolosa.
Entrò timoroso nella foresta, sapeva che non avrebbe potuto perdersi, che le indicazioni della luce rosa erano ben chiare nella sua mente, tuttavia quel buio fosco, opprimente, cupo che si insinuava sotto le chiome degli alberi lo fece tremare. Per un secondo pensò di rinunciare ma scacciò quel pensiero come una mosca fastidiosa e proseguì.
Camminò per un po’ seguendo con fatica le indicazioni che la luce rosa gli aveva impresso nella testa, nel buio tutti gli svincoli sembravano identici, tutti gli alberi uguali ed era difficile orientarsi. Poi si accorse che qualcosa non andava. C’era qualcosa di sbagliato e anche se non l’aveva colto subito la sua mente l’aveva registrato e ora gli stava lanciando precisi segnali di pericolo. Il silenzio. Non sentiva alcun rumore, alcun verso di animale, non era un esperto ma non faticava ad immaginare che una foresta di notte è ricca di suoni, di strani e sconosciuti versi di animali notturni, di rami spezzati dalla forza di gravità, di frutti maturi che cadono a terra. In quella foresta vi era solo silenzio. Come se fosse finta, artificiale, fatta di morte sostanze plastiche, senza alcun animale a popolarla.
Si sentì spaesato, la luce non gli aveva detto nulla in proposito, non l’aveva avvertito di questa stranezza. Forse l’aveva data per scontata ma ora, nel buio, circondato da alberi, da piante che nell’oscurità rivelavano forme inquietanti e spaventose, quel silenzio diventava assordante. Si accorse di mormorare, di ripetere a voce alta le indicazioni che la luce rosa gli aveva lasciato, capì che il suo inconscio voleva combattere quell’assurda mancanza di suoni, imponendo la sua voce come ultimo baluardo contro il nero del silenzio. Desiderò che la voce si facesse sentire, che lo rassicurasse, che gli desse la forza e il coraggio. Ma la voce era udibile solo nella sua stanza, fissando la sveglia sul comò, non l’aveva mai udita altrove e lontano da lì. Sapeva che era solo e solo doveva compiere il piano.
Canticchiando stupide canzoni di quando era bambino proseguì.

Il tragitto che stava compiendo completava pian piano la mappa che la luce gli aveva impresso in testa, vedeva come un segno, un punto rosso sulla destinazione che si stava facendo sempre più prossima, sapeva che ormai mancava davvero poco.
Deciso immaginava quasi di intravedere il piccolo spiazzo spoglio di alberi che costituiva la sua meta, quando udì un suono. Non lo riconobbe subito, pensò si trattasse di un prodotto della sua fantasia sovraecciata dalla fine vicina, poi vi prestò maggior attenzione e capì di cosa si trattava. Era il gracidare di un rospo. Un suono acuto, metallico, penetrante che si diffondeva nel nero della foresta languidamente, con cerchi concentrici che si facevano via via più vasti. Cercò nella direzione del suono e lo vide. Placidamente poggiato su una roccia piatta il grosso rospo lo fissava. I suoi piccoli occhi neri e mobili lo scrutavano con pigra attenzione. Si fermò a sua volta ad osservare la prima creatura vivente che incontrava sul suo cammino dopo quel cane accarezzato uscendo di casa. C’era qualcosa di inquietante in quel rospo, nel suo star fermo a gracidare e a fissarlo. Come se lo stesse aspettando. Come se fosse lì apposta per lui, attendendo il suo arrivo per essere testimone del compimento del piano. Il sentiero che doveva percorrere costeggiava la roccia su cui languiva il rettile, proseguì piano ed ad ogni passo il rospo spostava i suoi occhietti cattivi a seguire i suoi movimenti. La testa rimaneva rivolta in una direzione ma gli occhi si muovevano seguendo il suo cammino. Arrivò alla roccia, ancora una volta si bloccò e rimase a guardare quell’animale che lo scrutava con uno sguardo sufficiente ma concentrato. Il rospo emise un gracidio più lungo, più intenso, quasi rivolto direttamente a lui, una sorta di invito a proseguire o forse un ammonimento. Un po’ scosso continuò il suo cammino e voltandosi si accorse che il rospo lo seguiva a pochi passi, continuando a gracidare tra un saltello e l’altro.
Intimorito aumentò l’andatura ma il grosso rospo gli stava sempre dietro.

Seguito da quell’insolito animale giunse così nello spiazzo che segnava la fine del suo cammino. Il rospo si sistemò comodo su un sasso tondo posto a margine dello spiazzo, osservandone il centro.
L’uomo gli diede ancora un rapida occhiata e si chiese come potesse sapere che proprio nel centro dello spazzo si sarebbe compiuto il disegno. Scosse il capo, ormai non aveva più importanza. Era arrivato, i cittadini avevano tentato di fermalo, distruggendo la loro stessa città, ma avevano fallito. Ora era lì, ad un passo dalla fine, ad un passo dal capire tutte le azioni che aveva sin lì compiuto. Doveva solo eseguire l’ultimo ordine.
Si inginocchiò al centro della radura e con le mani tremanti dall’emozione cominciò a scavare. Non dovette andare troppo in profondità, la scatola che cercava era sepolta sotto poche dita di terra morbida. La estrasse con delicatezza. Una semplice scatola di metallo, senza incisioni, senza segni, senza disegni, intuì nel buio della foresta il colore ramato della superficie, forse anche un po’ rovinato dal tempo e dalla sepoltura.
Muovendosi piano, quasi in un atteggiamento rituale e sacrale, tenne la scatola fra le mani e lentamente ne aprì il coperchio. Vide la copertura sollevarsi con facilità, senza sforzo. Nel buio non capì subito cosa la scatola conteneva, tuttavia le indicazioni della luce erano state precise anche in quel caso, conosceva ogni particolare del piccolo oggetto che vi avrebbe trovato all’interno. Sempre con la massima attenzione e reverenza, estrasse il piccolo oggetto che vi era contenuto. Era come la luce lo aveva descritto.
Un marchingenio stravagante, un meccanismo ovale, liscio, di un bianco luminoso, caldo al tatto, levigato e pesante. In cima, nella parte più stretta, spuntava un bottone. Un piccolo cilindro di color rosso, fiocamente illuminato da un led opaco.
L’interruttore era la fine del piano. Era l’ultimo, semplice, innocuo atto da compiere che avrebbe reso manifesto, chiaro, visibile il senso e il significato di un anno di azioni folli, senza logica, senza comprensione, in totale ossequiosità alla voce della luce rosa. Ora avrebbe finalmente capito. Tutto avrebbe trovato senso in quel bottone. Non doveva far altro che premerlo. Schiacciandolo ne avrebbe ottenuto, come il succo del frutto dell’albero della conoscenza, la verità, il senso di tutto, la risposta finale.
Appoggiò il pollice sul bottone, per un momento esitò, spaventato e intimorito da un momento che desiderava con tutto sé stesso da un anno. Il rospo gracidò con più forza, l’uomo sussultò e, quasi senza rendersene conto, premette il bottone.
E tutto gli fu chiaro.

Logos
09/04/2006
Questo racconto prosegue idealmente in "Cronaca del dopo-bomba".

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