24 novembre 2008

Maledì la sua condanna alla biologia

Rami di Verdi Lame (9)
Il comandante Jabash giunse sul luogo delle coordinate con un ritardo di 1\12345 cicli standard rispetto all’ora dell’impatto. I suoi uomini erano già schierati, le armi puntate, gli sguardi al cielo in attesa di vedere cadere l’oggetto. Jabash scese dal veicolo da trasporto terrestre e fissò il cielo, doveva essere lì ora, dove era finito?
Il silenzio era assoluto nel piccolo pianoro. I soldati percepivano la tensione del loro comandante. Qualcosa era andato storto ma nessuno capiva cosa. Erano stati preparati per affrontare un evento ma niente era accaduto. Si sentivano spaesati, persino traditi. La loro fiducia nel comandante era assoluta. Ai loro occhi Jabash era quasi una divinità. Un essere biologico, assurdamente biologico. Un uomo fatto di carne, senza alcun innesto. Jabash era il loro comandante e Jabash non sbagliava mai. Jabash cercò tra i soldati il sergente. Lo vide. Un ragazzo ancora giovane ma già quasi completamente metallizzato. Solo una parte del volto rivelava una carnagione chiara, quasi biancastra. Lembi di pelle pronti per essere sostituiti.

· Sergente!
· Comandante!
· E’ sicuro delle coordinate di atterraggio del cubo-merci?
· Confermate Comandante. Abbiamo la registrazione della nave madre prima dello sgancio e le analisi della traiettoria di ingresso nell’atmosfera lo confermano. 78-65-09.
· Tempo dell’impatto al suolo?
· L’impatto era atteso circa 1\10000 cicli fa. Un attimo prima del suo arrivo nella radura Comandante.
· Cosa è successo?
· Non lo sappiamo ancora. Stiamo analizzando tutti i tracciati aerei nell’ultimo periodo ma, come sa, il cubo-merci non viene mappato dai sensori. La sua è una caduta non un volo.
· Ipotesi alternative?
· L’ipotesi più plausibile è che si sia trattato di un cubo-merci modificato rispetto agli originali.
· Una modifica aerodinamica?
· Oppure l’inserimento di un piccolo motore per il volo a bassa quota in grado di rendere il cubo-merci pilotabile.
· Sapeva che lo stavamo aspettando.
· Ipotesi plausibile, comandante.
· Impossibile. Questa missione è coperta da segreto imperiale. Il solo pensare ad una fuga di notizie rende me e lei, sergente, passibili di un’accusa di tradimento all’Imperatore e giustiziabili all’istante.
· Lo so, Comandante, ma non ci sono altre spiegazioni. Il monaco ha fatto in modo di non atterrare qui.
· Ci deve essere un’altra spiegazione.
· Come procediamo ora, Comandante?
· Divida i soldati in gruppi di tre. Li mandi a setacciare il quadrante entro cui sono comprese le coordinate presunte di atterraggio. Lei torni alla torre 2 e attivi tutti i ricettori possibili istallati sul pianeta. Nessuna limitazione geografica. Verifichi tutti i quadranti. Io avviserò l’Imperatore. In caso di avvistamento del cubo-merci o del monaco nessuno deve intervenire di propria iniziativa. Si ricordi questo: nessun intervento. Prossimo aggiornamento fra 1\1000 cicli.

· Ricevuto, Comandante.

Jabash osservò il sergente allontanarsi veloce guidato dalla gambe metalliche, vide gli arti inferiori mutare progressivamente e trasformarsi in un cingoli rinforzati capaci di correre più veloce di quanto lui avrebbe mai neppure sognato. Maledì la sua condanna alla biologia e per l’ennesima volta invidiò tutti quelli che lo circondavano, tutti coloro i quali avevano avuto il dono del metallo.
Scacciò via i suoi soliti pensieri, la sua ripetuta ossessione. Altri erano i suoi problemi. Dove era il monaco? Non poteva perderlo. L’Imperatore era stato categorico. Colonizzare il mondo della Foresta, installare basi militari in incognito e attendere il momento. Un monaco dell’Ordine sarebbe giunto a bordo di un cubo merci. Era pericoloso per tutto l’Impero. Andava catturato e consegnato direttamente alla Sua persona. Jabash non aveva discusso.
Jabash non pensava, Jabash non giudicava, Jabash era il servo fedele dell’Imperatore, il suddito privilegiato dell’Impero. Jabash eseguiva.
A capo chino tornò al veicolo da trasporto terrestre. Aveva da comporre un dispaccio. Anche se avrebbe barattato qualunque cosa pur di non scriverlo.

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21 novembre 2008

Restiamo condannati al silenzio e al disordine

Rami di Verdi Lame (8)
Il monaco pregava. La nenia rimbalzava fra le strette pareti del cubo-merci in una idiota stereofonia. Legato al suo sedile ergonomico l’ecclesiastico non percepiva il vortice della caduta, protetto da una falsa ed illusoria staticità.
Il cubo-merci precipitava. Un sibilo acuto ad anticipare lo sfracellarsi al suolo. Pregava perché nulla c’era di più importante in quel momento. La parola santa ripetuta, calmante. L’incantesimo di pacificazione che si nascondeva nella voce soffusa del monaco.
Non sapeva quanto sarebbe durata la caduta ma sapeva che il cubo-merci mai si sarebbe distrutto schiantandosi contro il suolo. Era stato ben programmato. Una schiera di sensori ne rivelava l’altitudine da terra. Raggiunta l’altitudine predefinita i retrorazzi meccanizzati si sarebbero attivati per frenare lentamente e morbidamente il volo. Il cubo-merci sarebbe planato a terra con dolcezza depositando il suo carico intatto e senza rischi. Un’operazione ripetuta migliaia di volte, inesorabilmente perfetta, senza errori.
Il monaco non aveva dubbi. La fiducia nella tecnologia della Gilda e dell’Impero era salda, come la sua fede nell’Ordine.
Mai si sarebbe aspettato ciò che invece accadde.
L’avesse saputo avrebbe ricordato quella leggenda ascoltata da bambino sul suo pianeta natale. La storia fantasiosa di una farfalla magica, piccola, colorata che nascondeva un potere immenso. Ricordava la voce esile del nonno di suo nonno raccontargli un’antica leggenda. La farfalla ad ogni suo battito d’ali, delicate, sottili, scatenava dalla parte opposta del pianeta furia e devastazione. Uragani di maestosa e sanguinaria potenza. Era una farfalla fatata, inconsapevole della sua forza segreta. E delle morti che il suo sbattere le ali causava. Il monaco ricordava i giorni lontani della sua infanzia e la voce del nonno del nonno che lo ammoniva:

- Da una piccola azione a volte, figliolo, si scatenano grandi eventi. Ma nessuno di noi può prevederlo e restiamo condannati al silenzio e al disordine.

E il monaco si sarebbe interrogato sulle ragioni, avrebbe cercato le cause di ciò che stava accedendo a sua insaputa. Nulla avrebbe però trovato, se non forse una farfalla misteriosa nascosta lontana nel mondo oppure un bizzarro atto del caso, dell’assurda imprevedibilità che circonda ogni uomo.
Ma il monaco non credeva nel caso. Non poteva. Sarebbe stato blasfemo. Eretico. Ogni atto doveva avere una causa consapevole e razionale. Forse solo nascosta e segreta ma doveva esserci.
Non quella volta. Nessuna causa.
Solo un’improvvisa, inaspettata folata di vento. E un guasto impensabile. Due fattori senza alcun legame. Capitati insieme senza ragione. E la vita del monaco cambiò. Cambiò la sua missione. Cambiarono tutti gli anni che aveva passato chiuso nel cubo-merci in attesa di quel momento. Cambiò tutto.
Il cubo-merci modificò la sua traiettoria di caduta.
Un vento infido soffiava cattivo e i retrorazzi non si accesero in tempo. Una piccola variazione sulla linea di caduta. Un’enorme variazione sul luogo dell’impatto. Sulle coordinate decise cicli e cicli prima.
Il cubo stava precipitando in un luogo sconosciuto, lontano da ogni cosa, da ogni persona. Sperduto nel nulla della foresta. Nessuno sarebbe stato testimone del fallimento.

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20 novembre 2008

Foresta. Foresta ovunque.

Rami di Verdi Lame (7)
Il pianeta era dominato da un unico ecosistema, identico, ripetuto, assillante nella sua staticità. Foresta. Foresta ovunque. Le alte conifere coprivano tutta la superficie del mondo con le loro foglie verdi sottili, taglienti. Il manto d’alberi si estendeva imperturbabile in ogni luogo. Solo alcune rade cime montuose ne erano prive. Fredde, deserte. Sterili.
Il clima immutabile frutto dell’orbita perfettamente circolare del pianeta intorno al grande sole bianco aveva favorito lo svilupparsi di un ambiente monotono, ideale per la preservazione di poche specie che si erano perfettamente adattate alle condizioni climatiche perenni del pianeta.
Scarsa era la biodiversità, poche forme di vita prosperavano all’ombra delle alte conifere. Qualche arbusto, il muschio limaccioso, radi fiori colorati e sgargianti e poche altre piccole piante in grado di prosperare con le briciole di luce che filtravano dal tetto di foglie degli alberi.
Anche la fauna era limitata. Nessuna competizione aveva permesso la differenziazione e persino l’evoluzione procedeva lenta, quasi statica. Roditori, un nugolo di insetti ronzanti alla ricerca disperata del polline dei radi fiori multicolori e gli uccelli neri. Creature grasse e pigre, cacciatori senza avversari in un mondo popolato di prede. I grandi rapaci non avevano nemici se non la loro stessa supremazia, il proprio lassismo.
Un pianeta come tanti altri disperso nel fondo di uno dei bracci della galassia. Un mondo inutile, senza alcun valore per i giochi politici ed economici in atto in quella parte di universo. Periferico, povero di risorse, pressoché disabitato, perso oltre gli ultimi pianeti avamposto dell’Impero non figurava neppure su molte mappe interstellari.
Per secoli era stato lasciato a se stesso nella totale indifferenza dei politici e dei militari, libero di prosperare o di devastarsi.
Nei secoli di isolamento sul pianeta era sorta una civiltà autoctona. L’origine di questa genia era si era smarrita nelle mille voci differenti della tradizione orale con cui si tramandavano i fatti e le leggende, senza distinzione.
Alcuni miti raccontavano dei primi uomini, creature pallide scese dal cielo in sella a enormi uccelli splendenti, altri anticipavano l’origine degli uomini in una figura semi-divinizzata, un primo essere nato dal ventre del primo albero della foresta. Uomo e pianta indistinti, nati nello stesso iniziale momento.
Quale che fosse la loro origine, autoctona o migratoria, il popolo delle foreste si era ben adattato all’ecosistema del pianeta e in esso aveva prosperato. Si erano sviluppati convenzioni, rituali, tradizioni e narrazioni che poche altre volte erano state riscontrate dagli xenologi. Il popolo della foresta era privo di ogni forma di religione se non una primitiva versione di un animismo mischiato e confuso con una vaga credenza panteistica. Nessuna regola sociale era riuscita a assurgere a regola divina, a precetto religioso e la convivenza fra le genti del popolo della foresta, fra le sue diverse tribù era regolata da un semplice codice morale fatto di onore e rispetto.
Su tutti i precetti, però, dominava un tabù così radicato negli abitanti del pianeta da sembrare un dettame biologico, una codifica genetica impiantata piuttosto che una convenzione sociale indotta. Il divieto alla morte indotta. Gli uomini e le donne della foresta non potevano uccidere. Nessuna creatura vivente poteva essere privata della vita. L’uccisione, ancorché accidentale, di un qualsiasi essere vivente gettava nella follia e nel delirio gli abitanti della foresta e solo complessi riti di purificazione permettevano la riabilitazione.
Il popolo della foreste aveva così sviluppato una dieta priva di carne e composta di bacche e di una farina ricavata dal tronco delle conifere. Una dieta monotona ma ricca da un punto di vista nutrizionale.
Gli abitanti del pianeta vivevano su palafitte costruite sui tronchi più bassi degli alberi. Si trattava di casupole semplici e rozze fatte di fango, foglie e legname vario. La tecnologia era pressoché assente, solo radi oggetti di uso comune passavano di mano in mano tra gli uomini. Ogni forma di possesso era impensabile ed insensata in un mondo senza alcuna varietà.
La gilda dei mercanti conosceva il popolo delle foreste e il pianeta disperso. Alcuni mercanti facevano rari scambi barattando tonnellate di legname con oggetti tecnologici desueti e così obsoleti da sembrare primitivi: radiotrasmittenti, localizzatori di voce e movimento, spogli kit medici e pochi altri ancora.
L’isolamento di quel pianeta era stato di fatto assoluto. Assoluto sino a che, un giorno, una nave dell’impero non ne aveva penetrato l’atmosfera. E dopo la prima la seconda, e dopo ancora la terza. Un intero stormo di navi da trasporto e militari avevano stazionato per mesi nei cieli azzurri sopra le conifere. A terra i droni da lavoro eseguivano la loro programmazione e le torri crescevano. Alte, infinitamente più elevate della più alta conifera, sorgevano bianche e lucenti. Gioielli nel riflesso della luce bianca del sole.
Del popolo della foresta presto si andò smarrita ogni traccia. Cacciati dalle proprie terre, perseguitati, uccisi. Sterminati. L’ennesimo silenzioso genocidio sulla strada della colonizzazione delle periferie della galassia.
Il mondo inutile era stato conquistato senza guerre, senza morti per l’Impero. La rete neurale interconnessa a tutti i cittadini dei domini dell’Imperatore era stata attivata. Molti si chiedevano le ragioni di quella dispendiosa colonizzazione. Ridicoli erano i vantaggi ed enormi le spese per la sopravvivenza su quel mondo boscoso.
Molti pensavano che fosse stato un errore. Nessuno lo diceva. L’Imperatore non sbagliava. Non poteva sbagliare. Solo l’imperatore conoscenza le ragioni di quella scelta. L’imperatore e il comandante Jabash. E un vecchio xenologo di cui nessuno conosceva il nome.

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17 novembre 2008

In alto nessun cielo

Rami di Verdi Lame (6)
Il rivolo di fumo si alzava a spirale avvolgendosi intorno a tronchi degli alberi. In alto nessun cielo, solo le foglie verdi, sottili, fitte. Un manto pesante contro cui si infrangevano inutilmente i raggi del grande solo bianche.
Seduta vicino fuoco acceso e caldo la donna osservava il rapace nero sfrigolare, intorno le piume strappate e possenti giacevano sparpagliate qua e là. Il corpo dell’uccello ancora infilzato del lungo e sottile dardo cuoceva lento sul rogo debole e fumoso. L’odore della carne filacciosa e arrostita si diffondeva ovunque attirando insetti molesti che la donna scacciava con gesti distratti, schiaffi apparentemente insensati nell’aria.
La fioca luminosità del fuoco disegnava sui tronchi degli alberi figure danzanti, spettri e creature misteriose che la donna osservava dimenarsi in balli sfrenati. Il suo sguardo era vago, il pensiero era altrove e la mente distratta. Stanca di aspettare tolse l’uccello dal fuoco e lo addentò. Era ancora crudo ma poco importava, il sapore del volatile non sarebbe migliorato con la cottura. Diede alcuni morsi possenti strappando ampi lembi di pelle e muscolatura. Il rapace era grasso, spugnoso, la carne dura, cattiva ma era cibo. Cibo nutriente.
La donna estrasse dalla sacca poggiata vicino al suo giaciglio una rozza borraccia e bevve un lungo sorso. Nell’aria si diffuse un odore alcolico che si mischiò con il puzzo di carne bruciata. La donna finì il suo pasto in silenzio masticando ogni singolo boccone con cura, spezzettandolo fra i denti, ruminandolo a lungo, lentamente, come ad assorbirne la memoria oltre che il nutrimento.
Restò a fissare il fuoco mentre si spegneva, le braci si oscurarono e le ombre si fecero profonde fino a scomparire. Si distese sul muschio. L’odore acre e umido le invase le narici. Vi era abituata, tra i tronchi della foresta era nata e cresciuta, come suo padre e il padre di suo padre. Indietro, sino alla fine dei tempi.
Pensò alle torri orrendamente bianche che svettavano sui suoi alberi. Agli uomini crudeli che le avevano erette sprezzanti ed arroganti. La sua vita era cambiata dal giorno in cui la prima nave era atterrata sul suo pianeta. La nave dell’Impero. L’Impero stesso aveva preso possesso del suo mondo.
Lei era la guerriera. L’assassina.
Lei era l’unica che poteva uccidere. L’unica che aveva scelto di infrangere la regola sacra. Il tabù della morte. Lei aveva deciso che la morte era degna per gli uomini che deturpavano il suo mondo e il suo popolo. E la morte aveva portato fra quelle genti tracotanti. Al suo passaggio torri cadevano; uomini e donne, bambini e ogni altra creatura morivano. Una scia di sangue e fumo che non aveva rallentato l’avanzata dell’Impero. Le torri bianche in cui gli imperiali vivevano sorgevano improvvise, veloci, come spuntassero direttamente dalla terra. E la sua gente fuggiva. Si nascondeva. Tra gli alberi, nelle grotte, lontano. Sempre più lontano, sino a scomparire. Sino a svanire come se mai neppure fosse esistita. Come le ombre della sera.Lei era l’eretica. Reietta lottava ogni giorno solitaria per difendere il suo popolo. Per salvarlo o salvarne almeno la memoria.

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Una scia bianca e luminosa tra le nuvole

Rami di Verdi Lame (5)
Il gracchiare dell’auricolare si fece fastidioso.
L’uomo diede alcuni colpetti al bitorzolo inserito nell’orecchio e si fissò gli stivali macchiati di fango. Pensò ai corridoi puliti e levigati dei palazzi in cui aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita. Pensò a se stesso. Alle ragioni che l’avevano portato su quel mondo sperduto e sconosciuto.
L’uomo osservò il proprio riflesso nella paratia metallica del veicolo da trasporto terrestre. Lascio scorrere lo sguardo sulla sua intera figura, nessun impianto meccanicizzato era stato chirurgicamente inserito nel suo corpo. Era ancora un organismo completamente biologico. Ed era l’unico ad esserlo. Un errore genetico di auto-trascrizione del suo DNA l’aveva reso inidoneo ad ogni forma di mutazione ed evoluzione nella macchina, condannandolo eternamente alla biologia decrepita. Sarebbe vissuto meno di qualunque altra creatura senziente sul pianeta. Ma l’uomo con gli stivali era orgoglioso. Determinato. La sua menomazione genetica era diventata negli anni la sua forza. Aveva potenziato il suo corpo con la fatica degli esercizi e la sua mente con lo studio non autoindotto dal trapianto di nuovi neuroni.
I suoi anni era scorsi velocemente ma lui ora era arrivato dove nessuno dei mutati in metallo di quel pianeta ci era riuscito.
L’uomo dagli stivali era il Comandante del terzo battaglione dell’Esercito Imperiale, uno degli uomini più vicino all’Imperatore.
Ma in quei luoghi, lì, sperduto fra le foreste verdi e eterne tutti lo conoscevano solo come Jabash. Jabash, il cacciatore.

- Rapporto.
- Ci stiamo avvicinando. Saremo sulle coordinate in tempo utile.
- Eccellente. Proseguite.
- Tempo restante al contatto confermato.
- Nessun errore.

Il veicolo che trasportava il comandante Jabash era stato costruito per correre fra i tronchi della foresta. I lunghi arti inferiori di metallo sottile erano stati imitati da una specie anfibia del terzo sole di Zfr.09 ormai estinta da secoli. Lo studio dello scheletro aveva permesso agli scienziati comprendere la genialità degli arti e delle strutture di movimento ed adattarle ad un veicolo terrestre adatto agli ambienti più accidentati. Jabash era accovacciato in una nucchia chiusa da una semisfera vetrosa. Il veicolo correva spinto dalle lunghe leve dei suoi arti di locomozione.
Jabash sapeva che doveva sbrigarsi se voleva fare qualcosa.
Alzò gli occhi al cielo e nell’azzurro mattino parve scorgere una scia bianca e luminosa perdersi tra le nuvole.
Sta arrivando, pensò
.

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12 novembre 2008

Liquami di rigenerazione continua sgorgavano da migliaia di pori

Rami di Verdi Lame (4)
Il cubo-merci era stato costruito per sfiorare l’eternità. Il metallo autorigenerante era venato di sottili striature che a contatto con le diverse atmosfera raccoglievano sostanze volatili utili all’autoconservazione. Parti di molecole erano scomposte e riassemblate per riparare eventuali danni occorsi durante gli sganci e le traversate intersistemiche. Costruito nei laboratori dell’Impero il cubo-merci era commercializzato in un qualunque bazar spaziale. Vitale il suo utilizzo per la Gilda dei Mercanti che ne ordinava migliaia di migliaia maledicendo la propria incapacità industriale e la conseguente sottomissione al potere manifatturiero degli stabilimenti imperiali.
Senza cubo-merci non ci sarebbe stato il commercio intersistemico e senza di esso non ci sarebbe stata la Gilda. Ma senza la Gilda non ci sarebbe stato neppure l’Impero e senza di esso neppure l’Ordine avrebbe avuto senso e vano il suo continuo proselitismo sui mondi di confine. Era per questo che l’Impero continuava a produrre i cubo-merci e a venderli a prezzi di costo alla Gilda e all’Ordine. Nessuna concorrenza valeva l’autodistruzione.
Il cubo-merci era un organismo semi-vivente composto da parti biomeccanicizzate e automatizzate. Governato da un cervello semi-animale poteva assolvere ad elementari funzioni volte a proteggere il contenuto trasportato. La merce era prioritaria sul cubo-merci. Nessun cubo-merci poteva e doveva anteporre la propria sopravvivenza a discapito del contenuto stoccato al suo interno. Qualunque esso fosse.
L’interno del cubo-merci era viscido. Liquami di rigenerazione continua sgorgavano da migliaia di pori e colavano fetidi lungo le pareti neri. Nessuna luce interna. Buio perfetto e viscoso. Gli oggetti che più delle volte venivano trasportati erano a-biologici. Componenti e frammenti di cellule da ridisegnare in un qualche laboratorio dell’Ordine. Nessun essere vivente poteva pensare di sopportare un viaggio dentro un cubo-merci. Tra le sue pareti non vi era nessun apparato di criostatica deriva. Nessun sonno ghiacciato avrebbe lenito i decenni di viaggio fra un pianeta e l’altro di diversi sistemi solari. Viaggiare dentro un cubo-merci significava sacrificare una buona parte della propria vita dentro un loculo buio, senza alcuna forma di comunicazione, senza nessuna compagnia. Invecchiando nel silenzio del nulla intorno.
Nessuno avrebbe mai accettato di viaggiare in un cubo.

Il monaco continuò la preghiera. La stessa identica preghiera che andava ripetendo da circa 8 periodi standard. Quando era partito dal Pianeta Sacro dell’Ordine non ne aveva più di 16. Un terzo della sua vita era passata dentro quelle pareti nutrendosi del liquame rigenerativo del cubo-merci e pregando. La stessa identica preghiera.
Sentiva che la sua missione stava per cominciare. Lo aveva capito dal rumore dei retrorazzi del cubo-merci che si erano accessi, dal sobbalzare caotico della struttura e ora dalla caduta. Precipitava a terra a velocità spaventose attratto insieme al cubo-merci dalla leggera forza di gravità del pianeta. Pochi momenti e il suo viaggio si sarebbe concluso.
Avrebbe visto il sole di nuovo.
Il monaco però non pensava alla luce, all’aria che avrebbe respirato, all’ossigeno vero e non alterato che avrebbe inondato i suoi polmoni semimetallici. No. Pensava solo alla sua missione. Gli era stata inculcata in ogni singola cellula, impressa a fuoco nel suo DNA. Ad ogni riproduzione cellulare il dictat si rinnovava, sempre più forte. Sempre più impellente.
La sua missione.
La preghiera proseguì e il monaco chiuse gli occhi facendo buio del buio intorno. Se le istruzioni che aveva ricevuto erano corrette la caduta sarebbe durata 1\1340 di ciclo standard e le coordinate di atterraggio predefinite a: 78-65-09.
Pensò al Priore, pensò ai vari monaci che si erano sacrificati per il trionfo dell’Ordine. Ricordò storie che si erano tramutate in leggende. Non c’era vanagloria nei suoi pensieri. Lui stesso non esisteva se non come creatura dell’Ordine e la sua unica gloria era la gloria dell’Ordine, del Piore e del futuro avvento.
Concluse di pregare e alzò lo sguardo. Aprì gli occhi a fissare l’identico buio.
La sua missione stava per cominciare.

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11 novembre 2008

Un’unica voce che chiede pietà

Rami di Verdi Lame (3)
L’urlo riecheggiò fra gli alberi. Lassù, appollaiati sui rami sostavano migliaia di creature. Uccelli neri dal becco colorato e ricurvo. Urlarono ancora all’unisono. Come un’unica voce che chiede pietà, che urla dolore, che stride rabbia.
Il nero delle loro piume mal si adattava al verde eterno della foresta. Al colore limaccioso delle foglie sottili, al pallido marrone delle cortecce. Il nero a malapena si nascondeva nelle ombre che si creavano fra ramo e ramo. Non importava. Non c’era ragione di nascondersi. Nessun predatore disturbava il loro regno nel cielo, lassù fra i rami più alti. Nessuno riusciva ad arrampicarsi così in alto. La catena alimentare si era dimenticata degli rapaci neri. Creature destinate ad essere predatrici. Senza nemici. Dominanti.
L’urlo si ripetè. Sfacciato. Altezzoso. Trionfo urlato di un dominio assoluto.
Fu nel frastuono che avvenne. Il fischio leggero sommerso dal fragore delle migliaia di gole rapaci dilatate dallo spasimo del grido.
Un sibilo sottile. Come una lama.
Di una lama.
Poi il tonfo e l’uccello più grosso, più grasso, smise di urlare. Quasi sorpreso. Come a chiedersi da dove venisse quel dolore. Quel dardo ficcato nel ventre che lo trapassava da parte a parte. Si lasciò cadere.
Morì prima di toccare il suolo di muschio contaminato che proliferava alla base degli alberi. Morì prima di vedere la mano guantata afferrarlo con bramosia e ficcarlo in un sacco ruvido di tela insieme ad altri tre grossi uccelli.
L’urlo dall’alto scemò lentamente come se nulla fosse accaduto. E per la moltitudine di corpi neri arrogantemente adagiati sui rami non era davvero accaduto nulla. Non c’erano predatori nel loro regno sugli alberi.

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04 novembre 2008

Orme di stivali sporche di foresta

Rami di Verdi Lame (2)
La sala di osservazione era deserta. Gli impianti a muro si accendevano e spegnevano in una cacofonia di inutili ledi colorati. Il pavimento liscio era macchiato di impronte fangose. Le pareti deserte. Nessuna insegna, nessuna immagine votiva o di qualche altra autorità politica.
Un’immensa vetrata osservava il paesaggio davanti alla torre di ricezione. Una fitta foresta afosa si stendeva intorno. Piante alte così tanto da piegarsi sotto il loro stesso peso. Foglie lunghe e sottili, come lame verdi di una complicato strumento di tortura.
Alcuni passi e la porta dal lato opposto alla vetrata si aprì con un sibilo efficiente. L’uomo che entrò non gettò neppure uno sguardo al meraviglioso paesaggio oltre il vetro. Sembrò persino evitarlo. Alto, il fisico possente, il passo deciso, militare, l’uomo si avvicinò ad un terminale a parete e premette alcuni tasti. Un nuovo led si accese accompagnato da alcune scariche e da un sommesso gracchiare. Avvicinò la bocca ad un tubo che fuoriusciva dal terminale. Non disse nulla sino a che il gracchiare non smise. Poi parlò.

- Mi confermare le coordinate di sgancio?
- Si. Le coordinate sono confermate.
- E il carico.
- Le percentuali coincidono. Composizione biologica al 75%, carico vivente al 32%.
- Deve essere lui.
- Cosa facciamo?
- Dirigetevi sulla zona d’impatto. Vi voglio sul posto prima che il cubo-merci cada. Non possiamo lasciare che si apra.
- Ricevuto. Tempo di aggancio 3.4.
- Confermato. 3.4.

L’uomo si voltò. Fissò il paesaggio che prima aveva rifiutato di guardare. Il cielo azzurro, le rade nuvole dense e la foresta verde. Ovunque.
Era arrivato.
Girò di scatto e si diresse verso la parete d’uscita che si aprì silenziosa lasciandolo passare. Nella sala rimase il silenzio iniziale. Nulla sembrava essere accaduto. Ogni cosa pareva identica. Se non alcune nuove macchio di fango per terra. Orme di stivali sporche di foresta.

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01 novembre 2008

Attimi in sospensione criostatica

Rami di Verdi Lame (1)
Non c’era ragione di proseguire il viaggio.
Oltre l’oblò di osservazione del veicolo da trasporto mercantile si profilava l’orizzonte del pianeta. Una massa azzurra costellata di agglomerati nuvolosi bianchi, densi come fossero solidi. Più in profondità, sulla superficie, si intravedevano forme definite, contorni di continenti completamente verdi, catene montuose nascoste e fiumi serpeggianti di un blu violentemente scuro. Il pianeta ruotava lentamente con il suo veloce moto rotatorio alternando giorni a notti rapide. Il movimento intorno al stella di classe F era lento. Perfettamente circolare, nessuna ellisse ma una perfetta traiettoria lineare. La stessa distanza dal nucleo del sole lungo tutto il movimento di rivoluzione. Non c’erano stagioni sul pianeta, un’eterna, monotona primavera non si susseguiva a nulla se non a se stessa. Nessuna neve era mai caduta e la temperatura non era mai scesa oltre la soglia sufficiente a far ghiacciare l’acqua. Lontano, a stento trattenuto dalla forza di gravità del sole bianco un secondo pianeta. Un gigante ghiacciato perso sul margine delle deriva gravitazionale. Nessuna atmosfera, solo un’ombra di roccia e materia inerte. Morta.

L’astronave mercantile giaceva in orbita geostazionaria sopra la linea dell’equatore in attesa di una comunicazione dal pianeta. Il pilota era connesso alla rete neurale che governava i complessi meccanismi dei motori a propulsione quantica ed attendeva il segnale dalla base di superficie. Le coordinate esatte a cui inviare il carico. Merci. Merci con cui barattare altre merci in un ciclo continuo di scambio. Merci e un passeggero.
Il pilota ripeté la richiesta di sgancio inviandola alla stazione planetaria Imperiale.

- Qui Nave Mercantile Jurik. Federazione dei Mercanti. Richiediamo coordinate di invio per carico. Composizione biologica al 75%, carico vivente al 32%.
- Qui stazione planetaria Imperiale E.K2. Le coordinate sono state inviate al centro servizi della vostra nave. Prego confermare.
- Ricezione avvenuta. Chiedo conferma coordinate 78-65-09.
- Confermate. Potete sganciare.
- Procedura attivata.

Il pilota azionò mentalmente alcuni interruttori virtuali presenti solo nella sua realtà interconnessa con la rete navale. L’operazione era piuttosto semplice e il pilota l’aveva ripetuta un’infinità di volte. Identica routine a conclusione di viaggi secolari fra un pianeta abitato e l’altro. Attimi in sospensione criostatica. Pensò a quanti anni avesse se contati con il piano temporale di quel pianeta sperduto sotto di lui. Così tanti da poter essere considerato immortale. Ma lui era solo un pilota e la nave su cui viaggiava sarebbe stata la sua tomba. Prima o poi.
L’ultimo led si accese improvviso. Da rosso a verde. Ancora rosso e poi definitivamente verde. Il portello di scarico si aprì. Le due paratie sul ventre della nave si mossero come uno squarcio che si allargava sempre più. Una ferita aperta. Un parto.
Non appena i due portelli furono spalancati il cubo-merci si attivò. I retrorazzi si accesero e l’involucro di metallo rinforzato sobbalzò ancora per pochi secondi trattenuto nel suo loculo dal magnete di ancoraggio. Progettato per riconoscere una forza di spinta pari a 45.9 e a disattivarsi immediatamente raggiunta quella soglia, il magnete smise di svolgere il suo compito d’attrazione a dieci secondi dalla prima accensione dei retrorazzi. Il cubo-merci sussultò violentemente e si stabilizzò in volo. Lo spazio dell’hangar era angusto. Tra le pareti e la superficie del cubo-merci solo lo spazio sufficiente per la manovra. Il volume era il bene più prezioso in orbita transistemica.
Il software di gestione era già attivo. La manovra di de-immagazzinamento fu lenta e complessa. Il cubo-merci scivolò fuori dall’hanger come un feto dalle gambe di una madre.
Le coordinate di atterraggio impostate. Tre sbuffi ad indicare l’accensione a spinta dei retrorazzi. Il movimento più veloce. Il moto rotatorio tenuto a bada da getti di aria compressa. L’oggetto si allontanò veloce dalla nave madre planando lievemente verso il pianeta.
L’operazione avvenne in modalità completamente automatica e durante i lunghi minuti di attesa il pilota reimpostò la rotta della prossima destinazione. Pianeta binario classe C. Ritiro cubo-merci. Contenuto biologico 12%. Carico vivente 1%. Virus pensò il pilota. Forse una qualche arma per la guerra di confine. O forse feti modificati per l’Ordine. Non era importante.
Sbirciò per l’ultima volta il cubo che precipitava verso l’atmosfera infuocandosi al contatto con lo scudo naturale del pianeta e diede il comando.
Fu un attimo. La nave scomparve dall’orbita del pianeta come non fosse mai esistita mentre il cubo merci continuava a cadere verso la superficie come una cometa di fuoco. O una stella.

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