30 gennaio 2006

poesie di una domenica solo

Farfalla Dipinta

Farfalla dipinta,
i tuoi fissi occhi
di elettrica luce
assorto contemplo.

Realtà a te dischiuse
E a me sì velate
Cerco di creare
Tra i tuoi tratti e colori.

Ferma ed immota
Nell’attimo di un volo
Come un bagliore
Mostrami fatata

La terra lontana
Da cui ora provieni
E lascia il mio sguardo
In essa, perdersi beato.


Luoghi e labirinti

Vi sono luoghi in cui la mente dell’uomo
Non dovrebbe mai perdersi,

labirinti chiusi al peregrinare vago,
stanze serrate da chiavi perdute,
spazi infiniti dimenticati per sempre.

Perché a me ne è stato dato l’accesso?
Chi mi ha donato la parola che conduce?
Che colpa sconto ogni giorno della mia vita?

Cieco e dolente
Cozzo fremente
Contro muri possenti

Incatenato alla vista di un mondo
Diverso che non conosco
E non comprendo.

Come da un’altura
Solo e lontano
Vedo la vita,

la vostra realtà
illusoria e vana,
il vostro essere stolti.

E con tutto il mio pianto
Ora e per sempre
Io vi invidio.

Il treno eterno


Vorrei che questo treno lento
Che ovunque mi porta
Mai arrivasse alla fine del viaggio

E io qui seduto a poetare
Continuassi a vedere
Veloci le stazioni passare.

Sino a morire
Tra una sosta e l’altra
Di stenti e silenzi.

Così, questa mia vita
Avrebbe un senso,
almeno.

Gli occhi stanchi vanno chiudendosi

Gli occhi stanchi vanno chiudendosi
E l’oblio dolce arriva,
ma temo il risveglio
che presto verrà
e al cascata di ricordi
dolenti
che esso porterà.

22 gennaio 2006

ANTOLOGIA DI PLANET RIVER

ANTOLOGIA DI PLANET RIVER

Il colle

Sorge l’alba
Di un sole deforme
A rosseggiare lenta
La landa deserta.

Ovunque silenzio
Nel pianeta senz’alberi
Ovunque silenzio
Nel mondo formato

Di lontano un colle
Avvolto nel buio,
altare alieno
di voci soffuse.

Brusii soffocati
Di ossa e di polveri
A narrare storie
Di astronavi volanti.

L’oscuro viandante
Che passa e che legge
Sommessamente ascolta
Il funebre canto.

Di esploratori e coloni
La morte e la vita
I rancori e i sorrisi
Cogli le voci.

Fermati pellegrino,
siedi sicuro
abbandonati lieve
al dolce declivio.

I loro sussurri
Odi ti prego,
Il loro pianto,
Accogli pietoso.

Il dormiente

Dalla stasi criogenia
Mai mi svegliai
E così passai,
senza ragione e senso,
dal sonno del viaggio
alla fine del tutto.
Non vidi neppure
La strana terra
Che ora mi accoglie,
per il resto del tempo.

Colei che aspettava


Mai si svegliò
E le parole che avevo
Nel cuore per lui
Morirono piano.

Nel sudore e dolore
Sciolsi veloce
l’antica speranza
in questo pianeta.

Riposo ora,
vecchia tra le sue polveri
e lo sento dolente
la mia vita invidiare.

Neppure ora,
spiriti alieni,
ho le parole
per dirgli:

ti amo!

Il sognatore


Meravigliose visioni
Il razzo guardando
Avevo negli occhi:

Aliene creature
Paesaggi fatati
E avventure narrate.

Ma solo a cenere
Di una terra riarsa
Nutrì la mia vista.

Morì nella fatica
E divenni la polvere
Che sì disprezzai.

Il rinato

Dalla colpa, su spaziali caravelle
Sono fuggito attraverso le stelle
E sono rinato con quest’anime belle.

Questo colle dolente
È il grembo accogliente
Di una madre clemente.

Il cieco

Avrei voluto
Vi fosse solo scritto:
Piango il mondo che muore con me
ma ancora poche parole
posso dirti,
rapito viandante
e allora sappi
che fui come un cieco
che per una sola volta vide
e vissi nell’amore e nell’odio
di quel giorno il ricordo.

Il lettore di fantascienza

Sento la voce beffarda
Di uno spirito oscuro
Che ride dei sogni illusori
Dei miei molti scrittori.

Qui v’era solo polvere
Qui v’è solo dolore.

L’uomo

Poco lontano
Dalla strada ultimata
Sorge un colle nascosto.

Ben lo ricordo
Ammasso di terra
E di rocce confuse.

Scelto per caso
A eterno riposo
Dagli antichi coloni.

Dal lato dei soli
Ora sepolto
Ascolto e voci.

In silenzio rimango
E rivivo ogni giorno
il sogno e il coraggio.

Cupo viandante,
senti innalzarsi
il vessillo dell’uomo?

18 gennaio 2006

Una strada scorre

Una strada scorre

Una strada scorre

Lenta e curvata

Tra campi seminati,

solitarie dimore,

magioni solitarie

forse abbandonate.

Una musica nella mente

Suona precipitosa

A rievocar paesaggi lontani.

Come se la via

Magicamente portasse

All’inglese campagna.

Allora stupito

Vedo lord e dame

Cavalieri e castelli.

Sento il profumo

D’un’aria mai respirata

Da piante mai viste.

Fermo e incredulo

Lascio che l’illusione

Languidamente rimanga.

Onirica visione

In cui felice

Mi perdo.

All’improvviso poi,

il fragore reale

d’un camion di lontano.

Strappato il velo

Della pietosa Maya:

l’orrendo risveglio.

E mi ritrovo ancora

Qui ed ora

Come sempre a soffrire.

10 gennaio 2006

Altre poesie mai lette

Simboli essiccati

Simboli essiccati
Ad un pallido sole
Di un meriggio stanco,
riposano assorti.

Danzano le idee
Sulla neve immacolata
Di una distesa alpina
Al chiarore delle lune.

Lacrime e pianti
Scorrono rapidi
In vorticosi ruscelli
Verso mari infiniti.

Luoghi mai visti
Forse sognati,
rifugio sicuro,
notturno giaciglio.

Le lune, gli anelli,
il sole scolorito,
i mari fragorosi
e i cieli viola:

qui albergano
protette le mie idee
pianeta lontano
da me popolato.

Lì tornerò un giorno
E tra le mie cose,
finalmente mormorerò:
casa!

Scendono le lacrime

Scendono le lacrime
A scavare il volto
E come una tortura
Urlano
Cadendo a terra.

Degli occhi miopi,
ancelle infedeli
annunziano al mondo
la tristezza assoluta.

Su di esse riflesso,
migliaia di volte,
si rivela osceno
il dolore infinito.

Sentile scivolare,
la vita piano
a piccole gocce
svanisce in esse.

Finché arido,
smetto di piangere
e volgo lo sguardo
altrove.

09 gennaio 2006

Alcune poesie

Sabbiose onde

Sabbiose onde
Si increspano aride,
su strade sterrate,
principio del deserto.

Manto rosso
e piccole tracce
di nomadi silenziosi
su dune nascoste.

Sul viso
Lacrimevoli cadono
rivoli di sudore
Salato e sporco.

Assenza di suoni,
se non il soffio
impertinente
di un vento molesto.

Rosso e azzurro,
la terra e il cielo,
fusi all’orizzonte,
in una linea sfocata.

Perdersi nel nulla
Come un granello
In un oceano
Di polvere.

Disteso e sepolto,
tra rari insetti;
e nella sabbia infuocata
sprofondare.

Originario abbraccio
Di una Terra
Placida e silente,
Madre mia.

E perdersi,
Avvolto e protetto,
dimenticare
di essere.

Il caldo silenzio,
il serafico azzurro,
il rosso avvolgente,
la dolce mia morte.

Nel deserto,
solo e solitario,
perdere il mondo
e i suoi camminanti.

E piano,
lasciare svanire
persino
la mente.

Tornare cenere,
singoli atomi
senza coscienza
né dolore.


Desolate lande

Desolate lande,
albeggiano serene
lungo scogliere
improvvise.

Di lontano una figura,
ermetica ombra
sull’orizzonte
frastagliato.

Avanza china,
lungo la linea
tra la terra e il mare,
e le onde violente.

Nero profilo
nel paesaggio grigio,
dalle brume marine
nascosti i suoi passi.

Piccole cadenze,
pensierosi percorsi
verso la fine
di un mondo.

Il capo volge,
mesto il sorriso,
e poi svanisce
nella nebbia celante.

Vuota ritorna
la piana disadorna,
svanisce persino
il ricordo peregrino.

Onirica illusione,
di un cammino percorso
e di ciò che è stato
nulla rimane.

Sorge la luna
e la tetra luce
attende brillante
la tua alba futura.

Giunse il sonno

Giunse il sonno,
latore misericordioso
di un oblio oscuro
su una mente stanca.

Sipario nero
Sul dramma della vita,
lontani gli attori,
spenti gli applausi.

Umana commedia,
senza le stelle
a celebrar la fine,
solitario monologo.

Memorie confuse
Di sofferenze
Vissute, narrate
Vanamente.

Catabasi terrena,
attraverso gironi
desolati,
il mio inferno.

Freddo.
Con la mano sanguinante,
ho toccato tremante
il gelido ghiaccio.

Il lago
Che condanna
L’orgoglioso lucifero,
stella mattutina.

E l’alba sorge
Su un nuovo giorno
E apre le porte
A nuovo dolore.

Ciclico ritorno
Di un abisso diurno,
negli occhi paurosi
il suo feroce sguardo.

Riflessioni Connettiviste

RIFLESSIONI CONNETTIVISTE

Linea di demarcazione
---------------------
Siamo connessi.
Non si può parlare di connessione al singolare;
Essa esiste solo nella fusione reciproca e annichilente di individualità separate.
Essa esiste solo nello scambio libero di informazioni in un flusso non più ostacolato
da io e da sè solipsistici.
L'individualità si annulla nel suo essere trasformata in parte olistica di un tutto connesso,
una parte che racchiude in sè il tutto, che ne conosce e ne manifesta il senso finale.
Legati alle nostre semplici singolarità, lottiamo vaghi tra lo scambio terminale di informazioni e l'ignoranza
di una individualità salvata.
Il dubbio rimane tra l'essere e il non essere, tra essere un nulla vivo in una connessione ultima e essere un io arido,
alla deriva nel mare della non conoscenza e della non comunicabilità.
Esistere come uno slegato o perdersi nel tutto senza fine della connessione.
Ecco il dubbio della connessione.
Dell'atto della connessione.
Oscillare come un pendolo perfetto tra la paura di abbandonarsi e perdersi nella totalità della connessione delle menti
e il rimanere assoluti, ossia sciolti, da tutto e in questa egoicità inaridire nella più assordante solitudine.
Esistere come uno "solo" o annullarsi in un tutto superiore?
Ho paura.
Lasciate che questa scelta sia posta via da me.
Chi sono io?
Non sono un profeta, non sono un illuminato, sono semplicemente un anello in una catena evolutiva che si impone
a me stesso e che mi stritola in un percorso che non voglio percorrere.
Vedo la linea di demarcazione profilarsi all'orizzonte e io mi avvicino ad essa e so che dovrò fare la mia scelta.
Ma finchè posso cammino e tengo lontano quel momento.
La scelta sarà fatta. Il momento giungerà.
Connessione/individualità.
Oblio del sè/trionfo dell'Io.
Conoscenza/ignoranza.
Annichilimento/solitudine.
Le mie gambe avanzano, le pagine scorrono sotto le mie dita, il veicolo compie il suo dovere e il momento si avvicina.
Fare la scelta, subire la scelta.
Io sono.
Penso.
Penso, ossia conosco, ossia evolvo.
Evolvo.
Oltre di me.
Oltre.
Io sono.
Noi siamo.
La connessione è ora.
Essa esiste.
La scelta è fatta.
La connessione è attiva.


Quando i libri non esisteranno
-------------------------------
Quando il libri non esisteranno più gli studenti studieranno il connettivismo.
E rideranno di un futuro immaginato che allora sarà già passato.
Ma noi ora creiamo una realtà e in quella realtà crediamo.
Di certo sbagliamo, di certo avremo torto nel tempo.
Ma se un solo seme delle nostre parole fiorirà nel futuro oscuro,
allora i fiumi versati fin d'ora e oltre,
(quasi ad irrigare quella singola parola)
non saranno stati sprecati
e nel futuro, ancora una volta, intorno a quella parola saremo connessi.
Oltre le parole di oggi,
oltre le nostre vite,
per il futuro,
e da lì,
per sempre.


Il veicolo
-----------
Siete molti,
è uno.
La Connessione è on,
la singolarità è off.
La legge binaria, la legge perfetta. Bianco nero.
Ancora la scelta, da fare, da subire.
Connessione/singolarità.
A te, coraggioso lettore, noi non diamo suggerimenti.
Ma solo il veicolo. Lo strumento con cui compiere questa scelta.
Evolvi oltre te o cristallizzati nel tuo sè.
Non vi è assiologia di valori, vi è solo la scelta.
Next sarà lo strumento. Tua la mano che deciderà:
on/off.

Intenzionalità
---------------
La realtà non esiste per sè stessa.
Non esiste l'oggettività pura degli oggetti.
Tutto ciò che è, lo è semplicemente in un atto creativo della mente che lo percepisce.
E prima della mente che lo struttura e gli dona senso, è creazione dell'attività del percepire.
Prima ancora che il senso sia attribuito ai dati della mente, questi dati vengono creati da una azione che muove,
processo intenzionale,
dal percepiente alla realtà.
La realtà si crea in quanto primario oggetto dall'azione intenzionale e percepitrice della mente.
Ma se la realtà esiste solo nell'attività della mente singola che la coglie, quante realtà esistono?
Bravo, lettore. Infinte realtà incomuncabili, tante quante sono le singole menti che percepiscono.
Viviamo così vicini su mondi così infinitamente lontani.
Il mio blu è il tuo verde?
Il mio albero è il tuo mare?
Il mio cielo è il tuo fuoco?
Evolviamo.
Compiamo il passo più grande che l'uomo abbia mai compiuto.
Diamo vita al fuoco eterno.
Creiamo la ruota perfetta.
La scrittura pura.
La parola finale che tutto rappresenta.
Evolviamo.
Creiamo la singola realtà.
Creiamo la singola mente che la percepisca.
Creiamo l'unione che metta in atto l'azione percepitrice di una singola realtà.
Una mente, una realtà.
La connessione è l'evoluzione.
La connessione è l'unione.
La connessione crea la realtà finale.
La connessione è il fine dell'uomo.
La connessione è la fine dell'uomo.
Nel suo perdersi nella conoscenza globale,
l'uomo scompare.
Andare oltre,
e in quell'oltre annullarsi.
Piango il mondo che muore con me.

Rappresentazioni
----------------
Vi sono immagini
che a volte raccontano di piu' di quello che mostrano.
Vi sono figure che hanno il potere
di dire realtà ulteriori,
significati altri.
Vi sono visioni
che trovano il loro senso oltre sè stesse
in una sorta di mondo aldilà
di cui esse sono semplici pallide manifestazioni.
Significanti di significati lontani.
Molti sono i nomi dati a queste creature magiche:
esempi
paradigmi
metafore.
noi vogliamo chiamarle Rappresentazioni.
Una rappresentazione è un'immagine, un suono, una parola, qualunque cosa
che ci permette, nel fruirla, di andare oltre e cogliere il mondo celato che ne sta aldilà.
Come se il semplice gioco del linguaggio fosse scardinato:
come se ad una parola non seguisse piu' solo un senso,
ma come se emergesse un'ombra, vaga diafana, a molti invisibile.
Un secondo senso che oscillando tra l'apparenza e l'oscurità
si accompagni al senso immediato e manifesto, fino a rendersi palese solo agli occhi di chi ha la luce per leggerlo.
Un senso che non esiste di per sè (ma quale senso esiste di per sè?) ma solo nella mente di chi già lo conosce.
Ciò che le rappresentazioni, in questo gioco magico di evocazione e di epifania, ci mostrano è un nuovo mondo.
Un mondo non più percepito da singole e inadeguate coscienze, perse nella loro blasfema unicità
che non è altro che infinita stupidità e ignoranza,
no,
le rappresentazioni ci rivelano un mondo ulteriore
un mondo nuovo
il mondo del percepire
il mondo del percepire unico
il mondo che si crea nella percezione unica
il mondo che si crea nella connessione
il mondo che si crea nell'uno.
Nebulose profete di un mondo nuovo
(perchè creato nuovamente)
le rappresentazioni
lanciano segnali
briciole di pane
sulla strada che ci porterà all'evoluzione
all'evoluzione come passo successivo
passo in cui la singolarità del percipito e dell'essere
lascerà spazio
all'unicità
alla semplicità dell'uno
che è la Connessione.

Rappresentazioni 2
-------------------
Fermi di fronte al mistero della vita,
della natura,
della morte,
come ad un muro che la nostra coscienza,
il nostro intelletto,
il nostro logos,
non possono valicare:
una situazione limite
una GrenzeSituationen.
Una siepe che nasconde il mondo che vi sta oltre,
l'infinito dell'universo che ci costringe a smettere di pensarvi,
la magia di un granello di senape,
la nostra mente per una attimo travalica,
supera i suoi stessi limiti
e nel tentare di andare oltre l'impossibile ostacolo,
compie un balzo e coglie per un attimo ciò che sta oltre,
come una sorta di estasi dell'intelletto,
dall'inellutabilità del limite al
all'estasi del trascendere.
Cogliere,
intuire,
immaginare,
sognare,
sperare,
desiderare,
agognare
il mondo che sta oltre:
il mondo dell'uno.
Il mondo della connessione.
Il mondo in cui il limite della singolarità
si perda
Il mondo in cui l'individualità si perda
il mondo della Connessione.

Temi
-----
Riflessioni sparse,
appena degne di essere lette ma forse necessarie nell'essere pensate
frutti ambigui di una lettura
di una pagina prossima.
Risposte immediate e non filtrate
a stimoli cartacei e visivi.
Dubbi sollevati
ansie percepite
perplessità manifeste
paure inconfessate.
Semplici temi nascosti fra oscure parole.
Parole che solo nella loro oscurità possono davvero rivelare il loro senso.
La chiarezza è per chi già conosce,
l'oscurità è per chi ha da immaginare la prima volta,
e allora ha bisogno di immagini,
di suoni,
di sensazioni
con cui creare per la prima volta davanti agli occhi della mente
ciò che chi scrive ha così con fatica tentato di dire.
Ma ora è il momento della semplicità e della chiarezza
perché il lettore è giunto in fondo alla pagina.
I temi:
- la singolarità che si annulla nella globalità totale del tutto connesso.
- Il mondo che viene percepito da una mente nuova che non è più una delle tante infinite singolarità
ma una semplice, un'unica, indiscutibile Connessione.
Chiarezza fredda,
sensazioni oscure:
paura,
ansia,
timore,
speranza,
curiosità...
Quante emozioni in una mente che si annulla in un tutto connesso
e così facendo contribuisce inconsapevole al creare un mondo nuovo,
a percepire un mondo nuovo?

Gli occhi del cuore
-------------------
Forse più con gli occhi del cuore
che quelli della mente
ho visto
oltre il muro che mi sta di fronte
oltre l'abisso che si staglia sotto di me
oltre le immensità sopra di me
oltre la paura che mi insegue
Ho intuito il mondo che sta aldilà
non ne serbo alcun ricordo
non conosco la parola che lo descrive
ho vissuto solo la rappresentazione che lo manifesta
e in essa mi sono fuso
per un momento
per sempre.
E ora di nuovo qui nel mondo delle singolarità ignoranti
cerco di gridare un suono che non so pronunciare
un verso che non so cantare
una parola che non so pronunciare
ma non mi fermo.
E a voi dico,
con le mie parole inadeguate,
solo nella connessione finale di tutte le menti individuali
potremmo creare la mente unica
la connessione unica
che potrà percepire il mondo
univocamente
e in quell'unicità dire
che bianco è il bianco
e nero il nero.
E crederci.


Nascere in una realtà
----------------------------
Nascere in una realtà, esservi gettato senza alcuna possibilità di preventiva e consapevole scelta, dannazione a priori. Essere condannati a vivere dentro una semplice e sola percezione del reale che ci circonda, ciechi di fronte alle miriadi di realtà che ci affiancano quotidianamente nella vita.
Vedere di fronte a sé e vedere solo una cosa, non cogliere, non poter vedere che quella cosa è miliardi di cose, è tutte le cose, è veicolo e ambasciatore di altre realtà sovrapposte, coincidenti con la nostra. Una sorta di perno comune con cui cogliere (ah! Se gli occhi non fossero ciechi) più mondi e più universi di quanti ve ne sono alzando gli occhi al cielo in una notte stellata.
Condannati alla semplicità dell’uno, esistiamo tronfi di questa futile e menomata certezza e costruiamo castelli di teorie e numeri che dicono solo il falso.
Pazzo! Pazzo è chiamato colui che per un miracolo della vita stessa, inspiegabile e meraviglioso, riesce a vedere oltre il velo dell’unica realtà, oltre il muro che ci circonda e con gli occhi (questa volta si vigili!) godere delle meraviglie dell’Oltre, degli Oltre.
Fauni dispettosi, sirene leggiadre e crudeli, mostri marini dagli infiniti tentacoli, eroi indomiti, astronavi a turbolenza quantica, essere alti un dito o come monti, infinite distese di colori senza materia e infinite masse di materia senza colori… Neppure la più fervida fantasia alterata dalle droghe più potenti potrà riuscire ad immaginare, a sognare e a sperare un millesimo di quanto è semplicemente lì, tutti i giorni di fronte ai nostri occhi. Ma noi, i senza vista, non riusciamo, non possiamo vederlo.
La fantasia sarebbe annichilita dalla semplice infinità dei reali che ci stanno intorno.
Non vi può essere senso in una percezione del reale defraudata, decapitata delle infinite altre realtà che ci stanno intorno.
Ciechi! Siamo ciechi!

Flusso di coscienza
-----------------------

Flusso di coscienza,
fiume impetuoso e impietoso
che mi trasporti lungo argini
sedimentati di città morte,
di rive lontane e dimenticate,
attraverso deserti di vetro e
foreste di plastica,
che precipiti da cascate cosmiche,
in laghi placidi ed eterni,
per poi ancora scorrere,
correre,
in mari popolosi,
di creature fantastiche,
grottesche e assassine
sadica processione.
Conducimi,
non abbandonarmi,
abbi di me compassione,
portami in fondo,
verso la fine,
verso la mia fine,
ultima passione.
Portami laddove tutti sono uno,
dove tutto è uno,
dove trionfa,
impera e governa,
la finale connessione.

Oltre i bagliori violacei di un cielo plumbeo
-----------------------------------------------------
Oltre i bagliori violacei di un cielo plumbeo,
oltre le periferie di immense città metalliche,
oltre la trasmutazione informatica,
oltre il cavo di interconnessione,
oltre il potere del software e
il peso dell’hardware,
oltre le parole già dette e
le immagini già immaginate.
Nuove strade, nuove rappresentazioni,
guardar oltre ciò che ha sempre guardato più in là.
Nuovi futuri, nuovi sogni, nuove speranze, nuove disillusioni:
semplicemente nuova letteratura.

Lo specchio e la pistola

Lo specchio e la pistola La cosa che mi diede veramente fastidio fu lo scoppio, la secca, improvvisa e fragorosa esplosione, quel botto assordante proprio vicino al mio orecchio destro, il rumore che rimbombò per tutto l’appartamento e che probabilmente destò qualche vicino assonnato. Al contrario, la pallottola incandescente che perforò la mia tempia e attraversò veloce il mio cervello per uscirne dal lato sinistro mi provocò solo una leggera sensazione di disagio, quasi di solletico, come capita a volte quando si lascia passare la mano a pochi millimetri dalla fronte e si percepisce una sorta di pressione inspiegabile. Il proiettile uscì dal mio cranio con un viscido splot e immagino poi abbia terminato il suo tragitto contro la porta del ripostiglio.Per un attimo credo di aver visto riflesso nello specchio davanti a me il fiume di sangue e materia cerebrale esplodere dalla mia testa e colorare tutto intorno di rosso, come una nuvola di porpora. Non ne sono sicuro, probabilmente le mie funzioni vitali e sensoriali se ne erano andate con quelle parti del mio cervello che ora decoravano la parete dell’anticamera come un’opera astratta.I miei occhi erano fissi su quegli occhi azzurri che vedevo riflessi nello specchio e che da tempo ormai non riconoscevo più come miei: vi lessi l’indifferenza che tante volte vi avevo scorto in quegli ultimi due anni e poi il botto e poi il buio. Così posso dire di essermi suicidato: una pistolettata alla tempia destra, il cervello in poltiglia a tinteggiare le pareti e la mia coscienza finalmente conclusa.Questa è la breve storia di un suicida e dei suoi ultimi trenta minuti raccontata dal suicida stesso. Qualcuno può forse avanzare dei dubbi circa la logicità di tutto questo ma sinceramente, essendo parte del mio cervello sparso in un raggio di tre metri quadrati, faccio fatica a seguire complesse elucubrazioni logiche e mi accontento di raccontare, lasciando a voi il giudizio. Sono le immagini quelle che restano nella memoria; si dice che chi muore porti con sé per sempre impressa nella retina l’ultima cosa che ha visto e la cosa che allora mi accompagnerà di qui all’eternità sarà la mia figura riflessa nel lungo e stretto specchio dell’anticamera. L’immagine di me a torso nudo, pantaloni eleganti, scarpe italiane di vera pelle perfettamente lucidate, una Beretta Steel-I 9 mm con fusto d’acciaio, carrello otturatore rinforzato e impugnatura verticale nella mano destra puntata esattamente alla tempia in quello spazio poco sopra l’occhio, accanto all’arcata sopraciliare. Un osservatore più attento avrebbe forse notato altri particolari riflessi in quello specchio; avrebbe colto dallo scorcio della camera da letto la camicia bianca e la cravatta blu gettate distrattamente sul letto disfatto, un computer acceso con una pagina Word aperta, una bottiglia di Scotch semivuota e un posacenere da cui ancora si alzava una sottile linea di fumo ondeggiante.L’osservatore avrebbe continuato a guardare con attenzione e si sarebbe soffermato sul bagno anonimo che compariva alle spalle di quello strano individuo con la Beretta in mano ma soprattutto avrebbe concentrato la sua attenzione sul viso di quel uomo: barba lunga, non trascurata però, perfettamente modellata sulle sue guance e rasata sul collo in modo da non rovinare il colletto di una ipotetica camicia e della conseguente cravatta, i capelli radi che, sebbene rasati, rivelavano la calvizie incipiente e quegli occhi blu. Freddi e indifferenti. Come se guardassero una realtà posta aldilà dello specchio e ne fossero così catturati da non riuscire più a destarsi. Avrebbe voluto, probabilmente l’osservatore attento, vedere quella realtà che stava oltre lo specchio e che quell’uomo di certo in quel momento stava osservando. Tuttavia, per quanto si fosse sforzato, avrebbe continuato a vedere solo un uomo, un appartamento e un pistola Beretta pronta a uccidere.L’osservatore si sarebbe presto stancato di questa scena e indifferente alla sorte di quell’uomo avrebbe rivolto la sua attenzione ad altro, magari a due amanti felicemente innamorati che celebravano la loro unione con uno scambio sudaticcio di umori, oppure avrebbe osservato beato il miracolo della vita che viene alla luce dal grembo fecondo di una donna e avrebbe presto dimenticato quella persona che continuava a fissarsi allo specchio premendosi una pistola alla tempia.Credo che anche io avrei rivolto lo sguardo altrove tuttavia essendo proprio io quell’uomo che stava per far danzare il proprio cervello nell’aria circostante, non potevo che concentrare lì la mia attenzione. Se sono le immagini a colpire l’attenzione con più forza (non vi era qualcuno che diceva che la vista è il senso più amato dall’essere umano?) sono spesso le sensazioni tattili a creare un impatto emotivo superiore.La goccia di sudore che lentamente scese lungo la fronte per essere poi deviata dal sopracciglio destro e, lambendo la canna della pistola premuta contro la tempia quasi a volerla accarezzare, percorse tutta la guancia fino a cadere sul petto nudo fu un’agonia di sensazioni, di fastidio, di passiva umiliazione. La mano sinistra, mollemente ripiegata lungo il fianco, si agitò all’improvviso e solo a stento trattenni l’impulso di pulire quella goccia con un gesto di violento fastidio. Quella immagine che vedevo riflessa nello specchio non poteva e non doveva essere in alcun modo disturbata o modificata e così, come una violenza, come una sorta di stupro, accettai passivamente quella dannata gocciolina attraversarmi il volto e cadere, ormai esausta, sulla peluria del mio petto. Sentii la mia mano destra umida di un sudore viscido e molle stringere il calcio metallico della Beretta, premere le nocche sul freddo acciaio e sentire quasi il dolore di quella presenza pesante tra le mie dita: la realtà che nasce dalla fisicità degli oggetti è l'unica esistenza a cui riusciamo a donare l'attributo del vero. Quella pistola che, viscida del mio sudore, si opponeva alla mia stretta era vera, esisteva e non era il prodotto illusorio di una fantasia deformata.La stessa canna della pistola che premeva dolorosamente sulla molle tempia lasciando un alone rossastro di capillari rotti mi inebriava di una verità tattile e fisica, mi ancorava a una realtà che si rifletteva, vera ed esistente, nello specchio che avevo di fronte. Le sensazioni tattili che avvolgevano il mio corpo erano l'ancora che mi agganciava a un piano reale che stavo per abbandonare ma che per l'ultima volta volevo provare, volevo vivere, volevo sentire come mio.La leggera brezza che da chissà quale finestra aperta proveniva, sfiorava il mio corpo sudato e mi donava una sensazione di freddo, una serie di brividi che mi permettevano di percepire il mio corpo, nella sua interezza, sentendolo finalmente vivo. Vivo e sovraccarico di sensazioni.La gola secca, la lingua setosa, le labbra segnate dalla mancanza di saliva, gli occhi umidi di lacrime, un'assurda sensazione di fame allo stomaco, il dolore del braccio piegato e rivolto verso la mia testa, le gambe rigide, tese in una posizione statica, tutto questo era il mio aggancio alla realtà che mi circondava, che era descritta solo vagamente dallo specchio di fronte a me. A pochi minuti dalla mia morte potevo quasi urlare: sono vivo! Esisto! Faccio parte di questa realtà che mi circonda e ne sono attore consapevole! Da quanto tempo non provavo più questa consapevolezza… Erano ormai anni che vivevo su un piano differente della realtà, chiuso in una bolla di pensieri che mi attanagliavano la mente dal primo, ovattato risveglio mattutino, sino alla soglia del sonno, quando non si capisce ancora se si sta solo pensando o si sta già sognando.Era come se avessi vissuto gli ultimi due anni un passo indietro rispetto al piano del reale che tutti – fortunati! – vivono ogni giorno. Un piano che mi aveva permesso di osservare la realtà da fuori e di interrogarmi sulla vanità delle preoccupazioni, delle ansie, delle paure del resto della razza umana.L’affannarsi quotidiano alla ricerca di un denaro che non verrà mai poi speso per paura di perderlo, la bramosa ricerca di corpi da possedere per provare un attimo di piacere non così diverso da quello che si può provare al chiuso di una stanza sfogliando una rivista, il preoccuparsi di ciò che la gente pensa di noi e del nostro comportamento quando alla fine tutto ciò che rimane è l’oblio del passato e solo la contingenza del presente. Tutto viene dimenticato, tutto il passato si scolora sino a diventare un nulla lontano e ciò che rimane sempre è l’immediatezza del presente, dell’attimo attuale, di ciò che ora e qui stiamo vivendo. Siamo condannati al presente, amiamo, odiamo, giudichiamo, lottiamo, solo per quello che il presente ci propone e dimentichiamo gli infiniti presenti che sono stati o quelli che verranno. Prendete una persona a voi cara, ricopritela di attenzioni e di affetto per anni, poi un giorno fatele male e diteglielo. Non vi perdonerà. Dimenticherà in un attimo tutti gli infiniti presenti felici che avete passato con lei e resterà solo questo specifico presente di ora, fatto di dolore e di rabbia e su quello (come se quello fosse l’unico momento che voi avete passato con lei) vi giudicherà. E la sentenza di condanna è garantita.Restate poi con lei altri anni, datele altri presenti felici e chiedetele nel mezzo di un nuovo presente sereno di giudicarvi: sarete la cosa più bella che le sia capitata; e tutti gli insulti che vi aveva detto? Tutta la rabbia che vi aveva gettato addosso? Semplicemente dimenticati!Siamo condannati all’oblio della nostra stessa vita nel momento stesso in cui la viviamo. I ricordi non sono che pallide immagini annichilite dalla vivacità e dalla forza emotiva del presente. Esistiamo solo nell’attimo dell’ora e tutto ciò che è stato si perde, per sempre. A me il destino infame aveva riservato un’altra strada. Quella di poter vivere da fuori questo vostro presente e di percepirne la fugacità, l’inutilità e lo spreco. Quante volte mi sono quasi messo ad urlare nei luoghi più assurdi: “Fermatevi!”. A quante persone ho cercato di spiegare l’inutilità di infiniti presenti che si accavallano uno dopo l’altro annullandosi vicendevolmente. Nessuno mi ha mai ascoltato, tutti mi hanno preso per pazzo. Forse sono pazzo davvero ma ciò che so è che il mio unico desiderio è quello di tornare a ingannarmi come voi, a illudermi di questa vita del presente che non riesco più a vivere, vorrei solo davvero illudermi e nell’illusione tornare felice. Non è la felicità che cerco in realtà, ho smesso di credere in questa chimera molti anni fa, prima che mi capitasse questa follia, vorrei semplicemente smettere di percepirmi come un’unicità e tornare beato ad immergermi nel mare della massa perdendomi in esso. La mia evoluzione particolare verso una forma di umanità superiore è stata un vero fallimento e ora la Natura, utilizzando il mio dito indice premuto contro l'elegante grilletto della Beretta, porrà fine a questo ramo evolutivo inutile. Ma prima, prima che tutto sia finito, prima che il mio cervello impazzito colori la stanza, voglio tornare per un momento a vivere questa realtà, a esserne parte. Eccomi allora lì, di fronte a uno specchio a osservarmi tornare a far parte – lentamente – della realtà che mi circonda.Vi sono alcuni momenti nella vita dell'uomo che potremmo chiamare limite. Come se ci trovassimo di fronte a un muro invalicabile ma proprio grazie a questa impossibilità, a questa barriera insormontabile, potessimo evolverci e superare e conoscere, nella dolorosa scoperta dei nostri limiti, che qualcosa oltre quell’ostacolo esiste: un uomo nuovo capace di superare queste pareti, continuando ad evolversi, scontrandosi contro infiniti ostacoli, scomparendo contro di essi e rinascendone superiore.Quello specchio e quella pistola sono il mio muro. Finalmente posso percepire che esiste un “altro da me”, una evoluzione di me stesso oltre questo momento, oltre questo ostacolo: posso sentirne quasi la presenza qui di fianco, come una sorta di emanazione del mio stesso essere, di apparenza impalpabile che da me fuoriesce e facilmente attraversa quell’ostacolo che per me è ora insormontabile. La sua nascita è la mia fine, la mia fine è la sua nascita. Solo nel morire contro il muro di una situazione limite io consento a quella creatura che è un “oltre-me” di diventare potenziale e quindi, prima o poi, di venire alla luce. Diventando atto. Io ho fallito, sono stato schiacciato e sconfitto da un destino che non ho saputo affrontare, ma ora che ho deciso di morire ficcandomi una pallottola nella testa, voglio beffare questo fato che mi ha riservato questa vita di dolore e di tristezza. Voglio morire ponendo di fronte al muro che non ho saputo valicare quel nuovo me stesso che, invece, è in grado di vedere oltre e, guardandomi, sorridere. Quasi stesse ringraziandomi e rassicurandomi della sua vittoria.Nel momento in cui il mio dito premerà il grilletto e tutto sarà compiuto, io saprò vedere il senso di questa realtà fatta di infinti presenti che si rincorrono scalzandosi e, in quel momento, sarò una forma evolutiva superiore. In quel brevissimo attimo io vedrò oltre il muro e capirò.
Testo la resistenza del grilletto, non ho una grande esperienza in armi da fuoco ma non faccio fatica a immaginare che con una piccola spinta ancora il proiettile esploda e tutto finisca.
Manca poco, lo so. Tra brevi istanti il mio dito porterà a compimento il destino che ho deciso. Sono i lenti, dolorosi momenti di un travaglio, gli urlanti istanti in cui una nuova creatura viene alla luce. È la sofferenza della nascita che ci si attanaglia e non ci lascia sino alla morte. Vorrei quasi urlare, vorrei sbattere contro il muro della mia vita con un grido finale, di vittoria e di rabbia.
E allora urlo! URLO!!! E la mia voce risuona come una fragorosa esplosione, le mie corde vocali vibrano come solo il tamburo di una pistola che sbatte contro un proiettile può fare; l’aria esce dai polmoni come polvere da sparo che esplode dal bossolo; la mia bocca è piena di suoni come gas compressi all’interno di una canna.
E allora mi vedo/lo vedo. Sta di fronte a me, sono io e non lo sono allo stesso momento. Mi fissa e vede impietoso la mia morte. Vedo nei suoi occhi che la mia fine è il solo veicolo con cui si compie il travaglio della sua nascita. Non è il mio doppelgänger, non è un altro identico me stesso. Lui è qualcosa di ben oltre me, lui è la mia evoluzione che mi fissa, mi osserva e mi mostra tutta la sua infinita superiorità.
È il momento zero, l’attimo in cui due strade che portano a realtà differenti si incrociano e per un momento si fondono: io e quella creatura che è l’oltre-da-me fissi di fronte a uno specchio, a guardarci da due lati di realtà che presto prenderanno cammini completamente differenti.
Da quale parte dello specchio è la mia realtà? Dove è il qui e ora e dove il là e poi? Io sono quello che uccidendosi crea oppure quello che, nascendo, supera? Di chi sono queste confuse parole che vengono pronunciate? Sono mie, sono sue? Cosa è mio e cosa è suo? Io sono il passato oppure il futuro?
In questo singolo, solitario, unico momento non vi è separazione: io sono lui, lui è me.
Nell’attimo che seguirà a questo io sarò morto e lui nato. O viceversa? L’esplosione svegliò tutto il condominio, destati di soprassalto dalle loro consuete occupazioni serali i condomini pensarono a qualche petardo natalizio e a nessuno passò per la mente che potesse trattarsi d’altro. Brontolando contro quegli idioti che fanno esplodere petardi in casa tornarono alle loro attività e in cinque minuti dimenticarono lo scoppio. L’uomo fu trovato nell’anticamera del suo appartamento solo dieci giorni dopo, ad allarmare i vicini non fu tanto la sua assenza quanto l’odore di carne putrefatta che emanava da quell’appartamento. Arrivarono i pompieri e i carabinieri e trovarono quello strano individuo riverso nella pozza del suo sangue, con accanto il suo cervello.Gli accertamenti furono piuttosto veloci così come le indagini: suicidio.La data del decesso venne stabilita con precisione dal medico legale analizzando al microscopio il grado di decomposizione dei tessuti del corpo: il 15 Novembre 2005.

2014

Anno 2014

L’uomo uscì dal piccolo appartamento di prima mattina. Si era alzato presto nonostante avesse lavorato tutta la notte ad un racconto di fantascienza e tra una sigaretta e l’altra era giunto alla fine di quella storia solo quando l’alba ormai spuntava e la luce cominciava a filtrare dalle tapparelle abbassate.
Si era fatto una breve doccia calda e poi si era messo a sistemare. Il sabato era il giorno delle pulizie, l’unico baluardo contro il trionfante caos che rischiava di sommergere il piccolo appartamento in cui viveva ormai da anni. Si era imposto forzatamente dei compiti domestici ben precisi: la pulizia del bagno, la sistemazione della cucina, il riordino del letto e soprattutto una consapevole archiviazione dei libri letti, sfogliati e sottolineati durante la settimana.
Al termine di queste settimanali incombenze, restava l’ultima cosa da fare: la spesa.
Fu così che alle nove e un quarto di quello strano sabato mattina uscì di casa e si incamminò verso l’auto posteggiata in strada.
L’uomo era alto, portava degli occhiali da miope che accentuavano quella sua espressione riflessiva e intimista che in molti credevano di leggere nei suoi occhi azzurri. La barba copriva il suo volto, come una sorta di maschera dal colore bruno che un po’ faceva contrasto con i capelli chiari che ormai stavano cominciando a perdersi, rivelando ampie zone del cranio.
L’andatura dinoccolata con cui l’uomo raggiunse la sua auto era veloce e sicura, le mani raccolte nelle tasche laterali del cappotto, l’ampia sciarpa avvolta intorno al collo.
Il cielo era grigio e l’aria fredda, ad ogni respiro l’uomo emetteva una nuvola di vapore che sostava poi languidamente intorno al suo viso prima di perdersi nell’atmosfera.
Ripensò per un attimo al racconto terminato che gli era costato l’ennesima notte insonne, ne fu soddisfatto, soprattutto dal finale emerso improvvisamente nella sua mente mentre sorseggiava la quarta tisana alla vaniglia. Nel cassetto della sua scrivania giacevano ormai impolverati numerosi racconti che mai l’uomo aveva spedito a qualche casa editrice perché li vagliasse per una pubblicazione. Sapeva di non avere la stoffa del narratore e preferiva considerare quelle ore davanti al portatile come un utile e innocuo modo di far passare il tempo. Una volta aveva scritto anche poesie ma erano anni che non ne scriveva anche se a volte si sorprendeva a comporre versi nei momenti più inattesi e impensati: sul tram, mentre cenava da solo davanti ad un piatto fumante di pasta liofilizzata oppure mentre sotto la doccia canticchiava qualche aria lirica.
Aveva collaborato con alcune riviste di fantascienza ma sempre in modo molto saltuario e sporadico, nessuno tra i suoi vicini lo considerava uno scrittore, forse alcuni al massimo uno strambo intellettuale, perso tra i suoi libri.
Salì in macchina, la stessa fedele FIAT che lo accompagnava da molti anni ormai. Accese il motore che in barba ai luoghi comuni si avviò subito, inserì un cd nel lettore si avviò verso il solito centro commerciale affollato per comprare il necessario per la settimana.
Non fu senza sorpresa che scoprì, tuttavia, che il centro commerciale a pochi chilometri da casa sua era chiuso per inventario. Rimase per un attimo fermo, in auto, a fissare la saracinesca che sbarrava l’entrata del tempio del commercio. Pensò di tornare a casa e infilarsi sotto le coperte e al diavolo la spesa ma poi si ricordò della desolazione del suo frigorifero e dell’assoluta necessità di riempirlo con qualcosa, fece così inversione e si diresse ad un altro supermercato.
Nonostante la temperatura non fosse molto alta, quell’anno non era ancora stato benedetto dalla neve e le auto potevano scorrere così ad una velocità sostenuta.
Sapeva che ad una quindicina di chilometri da lì era appena sorto un nuovo centro acquisti e, abbandonandosi alla curiosità consumista, decise di andare a vedere questa nuova meraviglia del commercio.
Arrivarci non fu un problema, molto più complesso fu trovare parcheggio e solo dopo un po’ di giri a vuoto riuscì a sistemare l’auto in uno spiazzo anche se si accorse che il centro commerciale era così lontano da essere quasi un punto all’orizzonte.
Percorse di buona lena il tratto dello sterminato parcheggio che lo separava dall’ingresso e finalmente mise piede nel nuovo tempio del dio denaro.
Fu accolto come sempre dal vociare e dalla confusione della gente che vagava meravigliata tra le vetrine, le luci, le scritte, le promozioni che promettevano felicità e risparmio, sconti e gioia e una vita lunga e serena garantita dalla magica formula del 3x2.
Schivando bambini indemoniati, mamme urlanti e padri rassegnati si incamminò piano verso il supermercato che dominava il centro commerciale.
Un osservatore esterno che avesse visto quella figura procedere a passo lento, capo chino e aria pensierosa si sarebbe certo accorto della differenza con il resto della gente che gli sfrecciava intorno, avrebbe persino potuto notare come quasi il tempo di quell’uomo scorresse più lento rispetto agli altri, simile all’effetto usato dal cinema che inquadra il protagonista e trasforma le persone che lo circondano in un semplice flusso veloce di colori.
Gli venne voglia di fumare ma nonostante le decine di governo passati e le migliaia di leggi modificate e tradite, l’unica che non era mai stata ripensata era quella sul fumo nei locali pubblici.
Si diresse verso un chiosco e ordinò un caffè macchiato che bevve addolcito dallo zucchero di canna e sgattaiolò fuori da una delle porte laterali del centro e si gusto la prima sigaretta del giorno. Aspirò profondamente il fumo, lasciando che la nicotina gli calmasse i nervi tesi dalla mancanza di sonno e dalla fiumana di gente che schiamazzava all’interno del centro. Le spire del fumo azzurrognole salivano placide verso il cielo mentre gli occhi dell’uomo fissavano il paesaggio, oltre l’enorme parcheggio, ancora un po’ nascoste della brume del mattino o forse dallo smog emergevano le montagne, le cime imbiancate e accarezzate dalle nuvole basse.
Sognò ad occhi aperti di trovarsi tra quella solitudine e di perdersi in essa. Si destò e gettò via la sigaretta e con essa le sue fantasticherie e si ributtò nel caos del commercio.
Questa volta era deciso ad affrontare la gente e le code: avrebbe fatto la spesa.
Il destino disattese le sue certezze.
La vide da lontano. In questi casi spesso si dice che non la riconobbe subito e furono necessari alcuni secondi per capire chi fosse, ma in realtà all’uomo non servì neppure un attimo per essere certo che fosse lei.
Non la vedeva da anni, da molti anni e da un preciso giorno non aveva neppure voluto più sapere cosa ne era stata della sua vita. Ora era lì, a pochi passi da lui e sorrideva ad una bambina ridente seduta in un passeggino. L’uomo si fermo, di colpo, fu quasi travolto dalla ressa e di certo fu ricoperto degli insulti di chi era sempre in ritardo.
La fissò per un lungo momento prima che lei si accorgesse di quell’individuo che la stava guardando. Era bella, lo era sempre stata e forse era abituata ad essere guardata da estranei in modo più o meno lascivo ma quella volta c’era qualcosa di diverso in quegli occhi che la fissavano. Smise di sorridere e osservò meglio quell’uomo alto, con la barba, elegante nella postura anche se semplicemente fermo; ne fissò le piccole rughe a fianco degli occhi, i capelli che andavano diradandosi, la mano destra infilata a metà cappotto alla Napoleone e ascoltò la voce profonda dell’uomo mormorare: “Ciao, Denise.”
Solo allora lo riconobbe. In realtà non era cambiato molto, era solo invecchiato un po’ più rapidamente dei suoi quarant’anni ma aveva mantenuto identico il suo atteggiamento non volutamente aristocratico e quell’aria di uno che guarda gli altri con benevola superiorità, come un padre paziente che sopporta le urla dei figli mentre seduto alla poltrona cerca di leggere il giornale.
Rimase ferma, non disse nulla e anche la bambina che prima rideva si mise a fissare quell’uomo apparso all’improvviso che aveva fatto smettere di sorridere la sua mamma.
Quelle tre figure ferme nell’atrio del centro commerciale sembravano quasi una scultura contemporanea posta lì da qualche bizzarro direttore con manie artistiche.
Il tempo a volte scorre in modi strani e personali, passano gli anni senza che si abbia la consapevolezza del trascorrere delle giornate e dei mesi e ci si sveglia poi un mattino e ci si accorge di essere vecchi, altre volte pochi secondi sembrano durare un’eternità, come se il tempo si fosse cristallizzato e avesse decise di non avanzare più, fermandosi lì per sempre, chiuso in quell’attimo.
“Ciao, Alex”.
La sua voce era ferma, decisa, non c’era la minima traccia di imbarazzo o sorpresa, era come se stesse salutando un vicino un po’ antipatico che era costretta a vedere tutte le mattine.
L’uomo fece un passo verso di lei, guardò la bambina che era rimasta in silenzio e disse:
“Lei è…?”
La donna non rispose, lo guardò negli occhi e annui. Lui sorrise, per la prima e unica volta. Allungò il braccio verso la piccola che, coraggiosa, strinse tra le sue piccole dita quella mano ossuta e gli sorrise.
“E’ molto bella.”
Lei osservò quella scena, quell’uomo in atteggiamento tenero e dolce verso la sua bambina, nessuno sa cosa lei pensò realmente, il suo viso però per un attimo si addolcì e l’ombra di un sorriso spuntò tra le sue labbra. Stava forse per dire qualcosa quando un altro uomo le arrivò da dietro le spalle e l’abbracciò, mettendole una mano sulla spalla.
“Ciao, cara, tutto bene?”
Un attimo si silenzio.
“Si. Certo… questo signore è un ex collega di mia sorella e ci stava salutando”.
L’altro uomo si presentò. Era il dott. qualcosa. Strano modo di presentarsi dandosi del dottore, forse era un medico, sarebbe stata felice sua madre che aveva sempre avuto una venerazione per i medici. L’uomo era alto, capelli neri folti e viso glabro. La stretta della sua mano era fiacca e un po’ umidiccia e nei suoi occhi c’era un’ombra di dubbio sull’identità di quello strano uomo dal volto pensieroso e triste che gli stava davanti.
“Piacere mio. Non vorrei disturbare oltremodo, salutatemi Desirèe. Buon anno”.
Così, senza aggiungere altro, forse un po’ sgarbatamente si allontanò. Dopo qualche passo si voltò ad osservare quelle tre figure che si stavano allontanando. L’uomo stava parlando concitatamente con la donna che rispondeva a monosillabi e sul suo viso c’era tutto il fastidio per quello che sembrava un interrogatorio. L’uomo non ne fu certo ma per un attimo gli parve che la bambina si voltasse dal suo comodo passeggino e gli facesse un piccolo segno con la manina che prima aveva stretto le sue dita ossute. Probabilmente la sua immaginazione di scrittore fallito gli stava giocando uno strano scherzo.
Riprese a camminare.
Dimenticò completamente la spesa che doveva fare ed entrò nella libreria che magicamente gli era apparsa davanti. Si concesse l’ennesimo libro, altro colpo alle sue esigue finanze, e mentre sfogliava le pagine fitte di inchiostro per un attimo ripensò all’incontro che aveva appena avuto.
E sorrise di nuovo.
Per anni si era alzato nel cuore della notte in preda al medesimo incubo angosciante, matido di sudore e tremante, tanto che neppure una sigaretta consumata in pochi tiri riusciva a calmarlo. Sognava sempre una bambina, quella bambina, che lo accusava, piangendo gli gridava il suo disprezzo gli urlava di non averla fatta nascere. Ora era certo che quell’incubo non sarebbe mai più tornato.
Con il libro sotto braccio e con la sua solita camminata un po’ altezzosa si diresse verso l’uscita e raggiunse la macchina.
Mise in moto e tornò nel suo appartamento dove si sedette su una poltrona e si mise a leggere.

adopt your own virtual pet!