17 agosto 2009

Il cancello a sud del mondo

IL CANCELLO A SUD DEL MONDO

Il cancello era chiuso. Le inferriate metalliche consumate dal tempo ricordavano serpenti in un’innaturale posa, squamose superfici verticali spinte verso l’alto, possenti tronchi di una foresta allineata, soldati di un esercito ubbidiente e disciplinato. Tra le sbarre nere e melliflue non vi era spazio, horror vacui estremo, persino la luce pareva essere un intruso da tenere lontano, serrato e sbarrato, al di fuori di ciò che vi era oltre il cancello. O da intrappolare, rinchiudere all’interno, affinché non fuggisse via, prigioniera di se stessa oltre le fitte grate.
Qualche rumore, uno scalpiccio di cavalli o di qualche animale simile, un grido soffocato e poi un pianto, di bambino, di nascita. Vi era vita oltrepassato il cancello, aldilà di ogni concepibile possibilità. E di ogni inimmaginabile speranza.
Venne un profumo, uno spiraglio di vento portò con se un aroma sincero, sapore di cibo, di pentoloni ramati ribollenti, di grano, di carne, l’aspro sentore di verdure bollite e di spezie colorate. Oltre il cancello vi era un caldo familiare, una sensazione di domestico abbandono, di languore campestre.
Alzò gli occhi e fissò lassù, in alto, confuse con le poche nuvole grigie, le cime e gli spuntoni acuminati con cui terminavano le sbarre, come se mai qualcuno avesse potuto tentare di arrampicarsi, di scalare il cancello, di passare oltre.
Il cancello era il limite.
L’uomo si voltò e fissò intorno a sé. Vide la terra battuta, le pietre, i radi fuochi che ormai erano poco più che braci rossastre, ciuffi d’erba grigia e morta, suppellettili consumati e riconobbe la sua gente. Scorse fagotti sommersi da unte e rovinate coperte scolorite, ammassi di un’umanità che aveva concluso il viaggio e che ora attendeva. Fece un passo nella direzione del fuoco che aveva lasciato acceso e dove sapeva di poter ritrovare le sue poche cose, un piatto freddo di carne essiccata, una borraccia di acqua putrida e il ricordo di una donna. Non si mosse. Tornò a voltarsi verso il cancello e per la prima volta lo toccò. Strinse con entrambe le mani il metallo nero e ruvido, vi poggiò la fronte, quasi a volerlo venerare e attese in silenzio. Continuò a pregare.

Era giunto alle porte del cancello dopo aver attraversato il mare prosciugato. Un’eterna distesa di terriccio secco, fine e polveroso. Vi era stato un mare una volta lì. Lo sapevano dai racconti dei vecchi e dalle conchiglie che incontravano al loro passaggio. Cataste di gusci colorati e frantumati mossi dal vento in piramidi scomposte e pericolanti. Ricordò come all’inizio del cammino i bambini corressero a raccogliere ogni forma di conchiglia per poi scambiarsele, per confrontarle, per svelare il mistero di una mare svanito. Non passò molto che la stanchezza fece dimenticare ai bambini la prima meraviglia e le conchiglie tornarono ad accatastarsi in cumuli senza memoria.
Il cancello sorgeva poco oltre il mare prosciugato, appena dopo un’altura. L’uomo condusse la sua gente su per il pendio e nessuno prestò attenzione alle vettovaglie che cadevano lungo il sentiero e che rotolavano indietro, testarde, riottose ad ogni prosecuzione del viaggio. Lungo il crinale videro tombe, piccoli ammassi di terriccio smosso e una lapide in pietra. Nessun nome vi era inciso, nessuna preghiera, solo un silenzioso sfondo bianco a ricordare parole che non erano mai state pronunciate. Sentì la sua gente chiedersi inquieta di chi fossero le tombe, chi vi giacesse ma lui ignorò la muta richiesta di spiegazioni, così come fece finta di non sentire la propria paura.
Svalicarono una mattina poco dopo l’alba e videro il cancello di fronte a loro. Imponente, nero, massiccio, denso, un’unica pennellata di metallo sullo sfondo azzurro del cielo che si stava illuminando. Un nuovo silenzio calò sulla sua gente, erano sul margine di un nuovo mondo e il loro viaggio era prossimo alla conclusione.
A fianco del cancello, alla sua destra e alla sua sinistra sino alla fine del mondo, vi era il muro di pietra. Un muro che era una montagna, alto sin che la sommità diventava bianca sporca di neve e di freddo, profondo chilometri e chilometri di pietre ordinate, perfettamente cubiche, poggiate l’una sull’altra, l’una di fianco all’altra, ovunque. Pietre a dividere il mondo. Aldiquà del cancello e aldilà del cancello. Nord e sud.

L’uomo chiamò a raccolta i vecchi. Ormai erano ben pochi coloro i quali potevano chiamarsi vecchi. Il viaggio, la desolazione, il cammino e soprattutto il luogo da cui provenivano ne avevano ridotto il numero e nella memoria di ognuno di loro vi erano troppi cadaveri.
L’uomo si guardò le mani, un tempo erano chiare, pulite, mani di chi aveva dedicato la vita allo studio e al pensiero, ora le vedeva sporche, callose e scalfite dalla fatica e della vecchiaia che sembrava rincorrerlo troppo veloce.
Parlò con i vecchi. Avevano camminato per un tempo così lungo da non ricordare più neppure il giorno in cui erano partiti. Ma non avevano dimenticato la ragione del loro viaggio, il peregrinare silenzioso tra foreste, lungo fiumi limacciosi e mari deserti di sabbia.
Erano migranti. Migranti da un luogo che avevano chiamato casa ma di cui avevano orrore, terre immonde, consumate da malattie silenziose, da creature fameliche, da popolazioni sanguinarie che avevano saputo adattarsi alla desolazione e alla brutalizzazione della terra. Popolazioni che avevano scelto di rinascere nel sangue e nella ferocia pur di non soccombere, pur di non morire. La sua gente non ne era stata capace e si era nascosta, di rifugio in rifugio lungo una strada disseminata di attacchi e di morti, di urla di uomini e donne catturati che invocavano la morte piuttosto di ciò che li avrebbe attesi. Fuggivano lungo un immaginario itinerario scolpito nella pietra col sangue in attesa della fine, dell’ultimo rifugio e dell’oblio.

Decisero di dar ascolto alla leggenda. L’uomo aveva ascoltato l’antica storia un’infinità di volte ma l’aveva sempre creduta un favola per bambini, un idillio immaginato da una mente triste e fantasiosa. Narrava di un oltre, di una terra fertile, di un mondo diverso. Narrava di vita, di famiglie, di bambini, di ricordi piacevoli e persino di amori. Ripensava spesso alla sua donna ascoltando la leggenda e ogni volta si malediva.
I vecchi ripetevano la favola la sera, davanti ai fuochi, dopo la consueta conta dei morti e dei dispersi, forse vi credevano davvero o forse speravano che le loro parole ripetute incessantemente la rendessero vera, reale. Un magico incantesimo.
Narrava la leggenda di un sud lontano, rinchiuso e protetto da un muro alto come montagne e da un cancello nero. Oltre quel limite un’altra vita. Oltre quel limite più nessuna fuga.
Si erano messi in marcia una notte. Non avevano raccolto nulla se non i propri piccoli fagotti, qualche striscia di carne secca, fiaschette d’acqua marrognola e, seguendo una stella, si erano diretti a sud. A sud di ogni sud di cui avevano mai sentito, a sud del mondo conosciuto, a sud di tutto.
Avevano camminato ogni giorno, i vecchi erano morti per strada e i bambini si erano fatti adolescenti, gli adolescenti uomini e amanti e i gli adulti nuovi vecchi. Avevano attraversato terre insepolte, guerre eterne combattute con sassi e bastoni, silenzi da annichilire la mente e rendere pazzi. Avevano proseguito il viaggio inseguendo una favola in cui credere e fuggendo un realtà che non erano più in grado di accettare. Avevano deciso di creder vera una leggenda e ritenere fasulla la loro realtà. Nell’inganno desiderato avevano continuato ad avanzare.
Sino a che un mattino, poco oltre un’altura, era giunti al cancello. Avevano raggiunto la loro leggenda. L’illusione si era fatta reale.

L’uomo si acquattò al suo freddo focolare e si sommerse sotto una ruvida coperta. Chiuse gli occhi e si addormentò pensando a lei. Sapeva che l’avrebbe sognata di nuovo ma era stanco e non poteva permettersi di restare sveglio. Sperava solo che al mattino non avrebbe ricordato nulla del sogno. Dormì nel silenzio della sua gente che attendeva.
Non fu l’alba a destarlo, neppure il mormorio che si stava diffondendo fra i vari fagotti che nascondevano i pochi uomini e donne che erano arrivati sin lì.
Nell’aria c’era qualcosa di insolito. Prestò attenzione e in un primo momento non gli parve di sentire nulla. Si alzò e si guardò intorno. Ogni cosa era come la ricordava. La strada da cui erano giunti e si inabissava giù dal pendio, il piccolo spiazzo in cui si era accampato il suo popolo, qualche focolare ormai spento e un po’ di disordine qua e là. Si volse verso il cancello, era là, immobile e altezzoso a fissarlo nel suo imponente nero. L’uomo gettò via la coperta che aveva avvolta sulle spalle e si scosse.
Fermo, cercò di capire che cosa l’avesse destato, da dove derivasse la sensazione di allarme che percepiva lungo tutto il corpo. Qualcosa stava accadendo ma non riusciva a comprendere cosa. Tornò a fissare il cancello e finalmente lo vide. Un puntino bianco stava scendendo lungo la parete nera, giù lungo le sbarre possenti e metalliche. L’uomo corse e man mano che avanzava riuscì a cogliere qualche dettaglio in più sino a che, a pochi passi, dal cancello riconobbe il puntino. Era un cesto. Un ampio cesto intessuto veniva fatto calare dalla cima del cancello giù, verso il basso, lentamente. L’uomo vide una corda che scivolava consentendo al cesto di proseguire la lenta marcia. Era ancora molto alto ma l’uomo riuscì a intuirne le dimensioni e si immaginò che dentro quel canopo vi potesse essere un uomo. Forse addirittura due.
Nel frattempo anche la sua gente si era accorta del cesto che veniva fatto calare. Nessuno parlò ma ognuno di loro sapeva cosa stava avvenendo. Chi stavano per incontrare. Erano gli altri. Coloro che abitavano il sud del mondo. Si chiesero se aver paura, o forse esultare nella speranza. Sui chiesero cosa sarebbe stato di loro dopo quel cesto.
L’uomo attese. Il sole si mosse lento nel cielo accorciando le ombre.
La gerla toccò terra con un sobbalzo. Il cesto era intessuto finemente, piccole strisce di stoffa e vimini annodate con pazienza e maestria. Bianco e pulito non era più grande di due braccia e dentro vi era un uomo solo. Un uomo del colore del cancello. Nero. La sua pelle era scura come la notte. Liscia e lucente. Pareva riflettere la luce del sole ormai fisso nel cielo. L’uomo era alto e possente. Ben nutrito. Il viso glabro e i capelli arruffati in riccioli ordinati e simmetrici. Piccole trecce cadevano dalle tempie sulle orecchie. Era vestito di una tunica variopinta disegnata di strani ghirigori colorati e in vita portava una fascia rossa dentro cui erano fissati strani amuleti e un lungo coltello ricurvo. Al polso portava catenine di legno arrotolate che pendevano disordinate e che scuotendosi producevano un suono ovattato, ritmico.
L’uomo nero stringeva tra le dita una lunga lancia acuminata, modello in piccolo delle sbarre del cancello.
Scavalcò il bordo del cesto e mise piede a terra. Portava dei sandali bassi allacciati sulle caviglie.
Piantò la lancia nel terriccio molle della spianata facendola penetrare per ben una spanna e restò in silenzio.

Ai margini della spianata gli uomini e le donne stavano indietro cercando un inutile rifugio avvolti nelle coperte bisunte, mentre i vecchi e i bambini, un po’ più spavaldi, fecero un passo avanti per osservare. L’uomo nero, l’uomo del sud che era stato calato dalla cima del cancello, era là, in piedi, alle sue spalle il cancello come a sostenerlo, sorreggerlo maestoso con l’imponenza del metallo.
Di fronte all’uomo nero il loro capo, l’uomo che lì li aveva condotti. Vestito di stracci stracciati, il corpo gobbo per la fatica e la fame, la pelle pallida, bianca, cadaverica dipinta su un corpo scheletrico, ossa in rilievo su membra deboli e senza vigore. Gli occhi azzurri, acquosi, diluiti in fiumi di lacrime versati nel ricordo di una donna, la barba bionda sporca e appesantita da insetti e parassiti, i capelli fulvi, arruffati, annodati fra loro in naturali trecce di sporcizia. Lo videro alzare la mano, le dita lunghe e nodose, le unghie nere e malate. Il più antico segno di pace.
L’uomo del sud restò immobile. Osservò l’uomo pallido che aveva di fronte e la gente nascosta dalle grigie coperte al margine della radura.
Tornò a fissare l’uomo bianco che gli stava di fronte. Socchiuse gli occhi neri per cercare di cogliere qualche dettaglio che non era riuscito a scorgere al primo sguardo. Poi si scosse.
Senza fretta afferrò la lancia acuminata e la sfilò dal terreno, fece come per muoversi ma restò fermo ancora per un momento. Poi tornò a scavalcare il bordo del cesto e vi risalì. Afferrò la corda che lo legava alla cima del cancello e le diede due possenti strattoni. Subito dopo la corda si tese con uno scrocchio e il cesto si mosse. Risaliva.

L’uomo nero non smise mai di guardare negli occhi pallidi e diluiti l’uomo bianco. Lo vide immobile osservare il cesto che cominciava a salire. Indifferente. Si chiese se avesse compreso la sua sorte.

Il cesto si era appena staccato da terra, un palmo o forse più, guardò l’uomo del sud che lo osservava tenendo stretta la lancia. Lo fissava dritto negli occhi e nel suo sguardo nero non vi era nulla. L’uomo bianco seppe che il viaggio era finito. E che era stato inutile.
Logos

10 agosto 2009

Sono sull’orlo di un viaggio

Sono sull’orlo di un viaggio

Se e quando il tempo smetterà di correre
Io deciderò di fermarmi e un poco aspetterò.
Non ho nulla da dire né tanto meno da fare,
Cammino e tra città vago andando
E girovagando, oscillando in strade
E piccole piazze vive della mia
Immaginosa memoria. Altri tempi.

Un camion scorre, lo sento rullare sul pendio
Si disperde oltre e non ne resta traccia nel paesaggio.
Foglie, sembrano esserci foglie ovunque,
verdi, marce, marroni, putrescenti e vive,
un vento si insinua e canta una storia che non conosco
altri linguaggi, altre guerre. Tempi che non mi appartengono.

Una collina, vedo beduini urlanti vociare tra spari nel cielo
E grida bellicose. Sono solo nel deserto.
Non scorgo più nemmeno la base del campo, l’edificio
Rosso e circondato da tappeti di preghiera. Acqua fresca.
Questo è un ricordo di un’altra mia vita?

Ho nel naso un odore e sulla lingua un sapore
Negli occhi un colore e nelle orecchie una voce.
Sulle mani ancora impressa la forma.
E la sensazione. Sono un’esperienza vissuta,
un Erlebnis. Frantumati momenti, hic et nunc,
amalgama di un qui ed ora perfetto.
Io sono quel momento?

Un valzer nell’aria, scivola il fiume limaccioso
lungo un intero continente, e non sono solo.
Ragazzo, neppure un giovane uomo assaporo una diversa esistenza
Un’altra vita, un barlume di appartenenza e forse di speranza.
La mia felicità. Perla dentro uno scrigno inespugnabile,
trasparente ai miei occhi e al mio dolore.
Ricordi. Un vita antica.

Opalescenti, diafane e ombrate, frammenti di memoria
Diverse esistenze di una comune biografia.
Sono sull’orlo di un viaggio, oceano blu, freddo
E guerre civili di anacronistici conflitti fra religioni.
Il selciato del Gigante mi aspetta, oltre lo stretto braccio di mare
E le piazze affollate mi accolgono e non posso far altro
Che andare e camminare e parlare al mio silenzio.

Io sono là, ad attendermi come la Morte a Samarcanda.
Ora in quel caffè, o forse sul quel ponte, magari sotto quel monumento
Nella mappa della città io esisto e nel suo srotolarsi come un canone antico,
segreto linguaggio di una sconosciuta scrittura, io vivo. Io sono lo scriba
e traccio il segno lungo le vie, i vicoli e i viottoli.
Ad ogni passo il mio nome. Ovunque il mio nome.
Nella città leggerò il mio nome.
La città, il mio nome.

Là in fondo non c’è nulla. Non smetterò di dare giudizio a me stesso
E, ascolto Eliot, dirmi che le chiavi della prigione sono nelle mie dita.
Guardo il palmo, è vuoto e come un abisso mi fissa.
Resterò qui, curioso, a camminare su e giù dal crinale
Sino a che il tempo si fermerà e io potrò aspettare.
Sdraiato, seduto o in piedi. Attenderò.
Prima o poi il tempo avrà fine.
E il mio nome si cancellerà come tutte le vite che ho vissuto.

Buon viaggio.

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