29 giugno 2008

Frammenti di tempo essiccati

Pensa a Phleba (12)
Phleba continuò il cammino all’interno delle Montagne, si inerpicò lungo stretti sentieri, passatoie artificiali, esili viottoli a strapiombo su abissi che parevano senza fine. Il vento fendeva l’aria e scolpiva la roccia ritagliando sottili appigli a cui Phleba si aggrappava disperatamente per andare avanti, faticosamente.
Il bianco del granito non cambiava e le venature serpeggianti si facevano sempre più contorte, il delirio urlava intorno ai suoi stanchi passi; non v’era alcun sole nel cielo innaturale del pianeta ma la luce era accecante e Phleba sentiva il caldo torrido persino attraverso la tuta protettiva. Gocce di sudore gli colavano sul viso, le seguiva scendere lungo le guance e cadere sotto il mento dove venivano minuziosamente raccolte dalla tuta che provvedeva a riciclarle e rimetterle nell’organismo, depurate di sali inutili e delle scorie corporee. Phleba aveva sete, l’acqua era un desiderio vivo, costante, perenne, un dolore, una sofferenza riverberata in ogni cellula del suo corpo, coro stonato di disperazione.
Intorno agli stretti sentieri e alle gradinate scavate dal vento tagliente Phleba non vedeva nulla se non il bianco delle montagne e il rossiccio della sabbia che calpestava ad ogni passo. Solo roccia. Non c’era nulla se non roccia e polvere di pietre. Phleba continuava ad avanzare.
Dentro le viscere delle Montagne.
Giunse allo spiazzo dopo aver voltato uno stretto angolo, le mani aggrappate furiosamente ad uno spuntone di roccia aguzzo come una lama e gli stivali in un precario equilibrio su pezzi di pietra malamente intagliati da bizzosi agenti atmosferici. Phleba mise piede sulla spianata apertasi di fronte a lui e per un lungo momento restò immobile a godersi la stabilità della pietra, l’equilibrio concreto di una radura tagliata nelle montagne, il miracolo di una stabilità orizzontale contro l’effimero richiamo verticale dell’abisso.
Respirò a lungo, stanco, il fiato pesante, neppure il severo allenamento religioso a cui si sottoponeva da anni riusciva a lenire la fatica della scalata sulle montagne della follia. Neppure il potenziamento metallico del suo corpo e la post-umanità della sua tuta offrivano a Phleba una consolazione contro il dolore dei muscoli, lo stridore delle ossa, il sudore, il desiderio di acqua, il silenzio, la solitudine. L’insensatezza del cammino nel mondo alienato e insano rimaneva indifferente alla sua postumanità. Le parti metalliche, la tuta protettiva, ogni impianto neuroaddizionato dell’encefalo, ogni altro singolo artificio impiantatogli nel corpo non erano che vani strumenti, utensili inutili e inutilizzabili di fronte all’assurdo che trionfava sul pianeta desolato e che ovunque urlava il suo dominio.
Phleba era un semplice essere vivente, creatura solitaria di fronte al mistero e alla insensata agonia della ragione. Nudo nella sua unicità di fronte ad un’ontologia contaminata.
Osservò il luogo in cui era giunto, la piana era larga una decina di metri, racchiusa da pareti di granito alte alcuni metri, corruzione della perfezione rocciosa delle montagne, o forse una tregua. Fece un passo verso il centro della distesa e di fronte a sé notò qualcosa di insolito. Sulla parete a nord sembravano esserci incisi dei tratti, dei segni. Phleba aggrottò la fronte e regolò lo zoom dei bulbi oculari a 50x. Osservò le incisioni. Si guardò intorno cercando altre tracce del cesello ma non vide nulla, zoomò a 100x ma a parte la parete intagliata lo spiazzo non presentava altre stranezze, solo identiche pareti granitiche. Si avvicinò e sfiorò le incisioni. La tuta registrava furiosamente ogni dato. Miriadi di gigabite venivano archiviati sul sopporto bioware, mitocondri straripanti informazioni catalogate e settate.
Osservò. Sul muro di granito contemplò frammenti di tempo essiccati, forme attonite di irreali creature, paesaggi mai neppure fantasticati, invocazioni silenziose di bocche innaturali, deliri strascicati di disumana disperazione.
Minuziosi intarsi, bassorilievi chini verso il basso sporgevano dalla superficie della pietra, disordine di fogge incise nella roccia da artisti deliranti e folli. Phleba scrutò la parete ma non capì, non riuscì a dar neppur senso a ciò che i suoi bulbi registravano, tutto rimaneva semplice allucinazione, quasi che fosse frutto della sua mente sovraeccitata. Si chiese per un attimo se la parete che aveva di fronte fosse davvero reale o solo un ennesimo parto della sua mente contaminata ma non riuscì a darsi alcuna risposta. Poi giunse il mormorio. Un suono alto nell’aria, uno stormire di materna lamentazione e Phleba guardò in alto e comprese che non v’era solitudine nella Montagne.
Li vide. Rosse facce arcigne ghignavano e ringhiavano fissandolo dall’alto.

Etichette:

15 giugno 2008

Le Montagne

Pensa a Phleba (11)
La strada si snodava su per le montagne, montagne di roccia senz’acqua, roccia e nient’altro, lì non v’era acqua ma solo roccia, roccia e una strada polverosa che saliva verso le cime. Cime sempre troppo lontane. Phleba proseguiva lungo lo stretto sentiero sabbioso, intorno pareti di marmo, granitiche, possenti. Ovunque venature sottili a dipingere serpenti orripilanti accovacciati l’uno sull’altro, grovigli brulicanti di bisbigli e sibili. L’orrore si rinnovava ad ogni passo e intorno trionfava.
Le montagne erano una tappa obbligata del suo percorso sul pianeta desolato. Phleba ricordava quando la corteccia molle del suo encefalo aveva ricevuto l’impulso wetware del computer di bordo della nave su cui stava viaggiando. Era in orbita intorno alla stazione spaziale mercantile in attesa di concludere uno scambio di schiavi sub-umani, denaro sonante per le casse dell’Ordine. Improvvisa era arrivata la comunicazione. Non lo aveva creduto possibile. Quanto tempo era passato da quel segnale? Mesi, o forse una vita intera. Nel wet-file vi era dettagliatamente e minuziosamente descritta la sua nuova missione. La sua ultima missione. L’esplorazione del pianeta sbagliato, il cammino lì dove l’ontologia si accartocciava su se stessa formando grumi di assurdità concreta, viva, pulsante. Indagine di ciò che era per definizione inindagabile, razionalizzazione di un errore tanto profondo da raggiungere il fulcro stesso della realtà facendosene beffe.
Il cammino che il wet-file descriveva era semplice, il tono come sempre religiosamente formale. Tiresia, il Priore del monastero fortificato a cui Phleba obbediva, non aveva fatto trasparire nessuna emozione. Partenza prevista a sette cicli standard, esplorazione individuale, tappe obbligate: la Città, le Montagne e, infine, il Fiume, sopravvivenza dell’esploratore non prioritaria. Missione di recupero del corpo dell’esploratore e della tuta protettiva già pianificata. Importante: ogni dato raccolto veniva salvato sulla base bio-storage delle fibre della tuta, ogni informazione catalogata come riservata, la priorità era la salvaguardia della tuta e di tutto il materiale informativo raccolto dall’esploratore. Il Priore Tiresia si era preso pure la briga di salutarlo sbrigativamente. Null’altro era stato aggiunto.
Phleba si era chiesto tante volte perché proprio lui. Era stato un soldato e un monaco fedele all’Ordine per decenni, aveva servito in mille battaglie, aveva comandato plotoni militarizzati di incursione bellica, aveva gestito burocraticamente lo sterminio di stirpi sgradite all’Ordine, si era fatto carico di genocidi di razze aliene non compatibili con alcuna dottrina religiosa. Era sempre stato un buon soldato e un buon monaco. Aveva fatto profitto nelle sue attività di mercante e aveva versato nelle casse dell’Ordine sino all’ultimo guadagno, aveva viaggiato e sempre aveva riportato con sé schiave da donare alla lussuria dei suoi superiori. Aveva servito ed obbedito umilmente, perché allora lui?
Phleba sapeva che poco importavano le ragioni e le spiegazioni politiche, la ribellione non era possibile, il rifiuto semplicemente impensabile. L’assoggettamento, la sottomissione, la perdita stessa dell’identità individuale, la distruzione di ogni capacità di desiderio, queste le regole della vita monastica a cui era stato destinato.
Dopo sette cicli standard dal momento della ricezione cortecciale del wet-file Phleba era partito a bordo della nave. Il pilota l’aveva condotto sul pianeta guasto ed ora era lì, immerso nella desolazione insensata di montagne crudeli.
Phleba urlò. Un urlo senza significato, arcaica forma di ribellione, protesta insensata contro ogni cosa lo circondava. Il caldo massacrante che la tuta protettiva faticava a lenire con l’alterazione ormonale dei ricettori, la solitudine, l’assurdo strisciante che avvolgeva tutto e che pian piano si stava facendo strada dentro di lui, nella sua mente. Le voci, le mille voci che sembrava sentire dai recessi del suo cranio, grida e pianti, echi di un palazzo costruito per essere una prigione. In lontananza un tuono, un tonfo sordo che giungeva direttamente dall’orizzonte, un poco oltre le cime appuntite delle montagne. Phleba si volse in quella direzione cercando di scorgere qualcosa ma là solo luoghi pietrosi.
Scosse il capo e proseguì.
La tuta raccoglieva informazioni e Phleba la lasciava lavorare. Dati, affannosa ricerca di dati che potessero spiegare, analiticamente descrivere ciò che popolava quel deserto pianeta di ontologia deforme. Phleba non era nulla, lo sapeva bene. Baluardo a tempo di una realtà non contaminata. Doveva solo proseguire, camminare, andare oltre e consentire alla tuta di raccogliere informazioni, di immagazzinare, schedulare, stoccare; offrire materiale sufficiente a spiegare l’orrore che ogni cosa lì avvolgeva. Sorrise Phleba e pensò all’inutilità del suo compito, alla vanità di chi voleva dar ragione dell’irragionevole, alla tracotanza di dar senso all’errore di dio. Nessun dato avrebbe svelato il mistero di quel pianeta.
Intanto Phleba avanzava, lungo il cunicolo scavato da venti antichi dentro le stesse montagne, i piedi nella sabbia, polvere di montagne, e il sudore secco appiccicato al viso. Dentro di sé desiderio di acqua, l’odore dell’acqua, il rumore dell’acqua, lo scroscio di fontane, la carezza dell’acqua, l’uterino retaggio dello sprofondare nel mare e in esso perdersi, quasi affogare. Pregava Phleba e mormorava spastiche litanie: se non vi fosse solo roccia, ma anche acqua, una fonte, una pozza tra le rocce di questo maledetto pianeta, il suono dell’acqua e non solo tuoni lontani e echi di deliri. Immerso in una bocca montuosa di denti cariati senza neppure saliva per sputare, Phleba camminava, non poteva neppure fermarsi, sedersi, restare, giacere ma solo incedere, andare avanti e neppure le invocazioni di sbavanti desideri riuscivano a lenire la sua sofferenza e l’orrore restava a guardare.
E acqua non c’era.

Etichette:

11 giugno 2008

La Sepoltura dei Morti

Pensa a Phleba (10)
Conosceva la topografia della Città, la conosceva come si può conoscere la mappa di una Città che cresce continuamente, che prolifera di abitazioni sorte dal nulla e che scompaiono distrutte da altri edifici poche ore dopo.
Phelba era sulla strada principale della Città, una stradina stretta, larga poco più di un metro e intorno a lui case, costruzioni, palazzi, torri, mostruosi edifici che salivano ricurvi fino al cielo piegandosi sotto il loro stesso peso. La luce del sole quasi non riusciva a filtrare fino al suolo e tutto restava avvolto in un grigio cupo, come l’alba di un inverno cupo. Phleba avanzava esitante, i servo-sensori della tuta erano attivati ma non rivelavano nulla, inutile strumento della sua post-umanità in un mondo che nulla aveva di umano.
Camminò a lungo, la nebbia sembrava farsi più grigia, più densa e i contorni dei palazzi intorno si facevano indistinti, vaghi, come se fossero indecisi fra l’esistenza e la non esistenza, in perenne dubbio di fronte ad un uomo che avanzava.
Fu così che giunse al ponte e vide la folla. La folla dei Morti.
Phleba non riuscì a credere che la Morte tanti ne avesse presi, disfatti. Sospiri brevi, radi e la moltitudine continuava a camminare lungo il ponte scendendo dal centro della Città. Ognuno fissava gli occhi davanti, immobili sui propri piedi che andavano avanti, passo dopo passo, ripetutamente, incessantemente. Il Ponte era un unico serpente di cadaveri che lentamente, ciondolando, fluiva giù dalla collina, là in alto, dove c’era il cuore della Città.
Un campanile all’improvviso si mise a suonare, Phleba immobile contò i rintocchi, nove. E l’ultima ora fu suonata con un suono esanime, pesante, cimiteriale.
Phleba restò a margine della strada e senza riuscire a dire una parola osservò la folla passare e andare oltre, la vedeva perdersi, fiumana umana, dietro un angolo poco più in là, defluire lenta, indifferente a tutto. Esseri dalle sembianze umane mormoranti, metro dopo metro.
Nessuno fece caso a lui, neppure lo videro, e Phleba se ne restava al limitare, le braccia a penzoloni lungo il corpo, ad osservare e a chiedersi chi fossero, da dove venivano e perché non erano mai stati rilevati dal satellite. Gli sembrava impossibile, la folla formava una colonna lunga decine di chilometri, non poteva non essere stata vista dalle nanotelecamere dei satelliti geostazionari. Chi erano quelle creature?
Phleba interrogò i sensori esterni che risposeso ciò che lui già sapeva, erano cadaveri. Corpi di esseri umani che avanzavano, come non sapessero di essere defunti. E tutto intorno regnava l’assurdo.
Tentò con un braccio di afferrarne uno ma quello neppure si voltò e continuò a camminare, scivolando oltre. Provò ad urlare qualcosa, a richiamare la loro attenzione ma nessuno gli fece caso e Phleba restò solo, immobile sul ciglio della strada.
La folla era un mondo a parte, separato; Phleba capì che poteva solo osservarlo, poteva forse solo continuare a desiderare la condivisione di una comune esistenza, di un identico inebetito avanzare, di un perdersi in una comunità sorretta da illusioni venerate. Ma tutto questo non sarebbe stato altro che un sogno, una insana fantasia irrealizzabile. Phleba sapeva di essere solo un osservatore, una sorta di eremita e, dalla sua altura, silenzioso e solitario costretto ad osservare i cadaveri passare, eternamente sull’orlo dell’incertezza fra l’andare e il rimanere.
Phleba guardava i volti, tratti sconosciuti di essere umani, a volte ne intuiva l’origine, cercava di immaginare quale fosse il loro pianeta di provenienza, o quanto meno da quale sistema solare provenivano. Non era così difficile, Phleba aveva viaggiato molto e ormai sapeva riconoscere le caratteristiche di quasi tutte le razze umane sparse per la galassia. A volte erano macroscopiche differenze, altre volte solo sfumature della pelle o delle forma del naso, l’altezza, piuttosto che la corporatura. Minimi particolari testimoni di nascite lontane anni luce. Cacofoniche forme per raccontare un codice genetico pressoché identico.
Si ricordò delle guerre che aveva combattuto, delle trincee che aveva difeso, di ogni singolo colpo sparato dalle armi che aveva sin lì impugnato. Monaco, guerriero, mercante, Phleba si chiese che cosa fosse in quel momento. Esploratore? Condannato? Colpevole? Redento? O forse era solo un vagabondo dentro l’assurdo di un mondo che non comprendeva. Sorretto da un’ontologia deforme e deviata, lontana. Phleba pensò a sé come ad un confronto. La sua presenza su quel pianeta dove ogni cosa era guasta, desolata, era l’evidenza della deformazione, la normalità ontologica di Phleba urlava l’assurdo che in ogni luogo albergava. Non vi poteva essere comprensione alcuna fra Phleba e quella landa desolata. Irriducibilità assoluta. Phleba osservò la folla che continuava a fluire, esseri completamente diversi che parevano identici nel loro defluire oltre l’angolo là in fondo. Indistinguibili l’uno con l’altro. E Phleba pensò che su quel ponte, ai margini di una strada stretta, l’unica creatura diversa, estranea, aliena era lui.
Chinò il capo e smise di guardare.
Alzò gli occhi e vide Stetson. Era tra la folla che fluiva. Pochi metri indietro, stava scendendo trascinando il passo, lentamente come facevano gli altri cadaveri. Lo riconobbe subito. Stetson, il guardiamarina Stetson. Erano stati commilitoni, avevano prestato servizio su così tante navi che Phleba non se ne ricorda neppure più. Battaglie, guerre, invasioni, assedi, Stetson era stato un buon soldato e Phleba l’aveva spesso voluto nelle sue truppe scelte per le missioni più difficili. Stetson che era morto su un pianetucolo insignificante difendendo un’inutile postazione militare dai predoni locali, una banda di straccioni armati di armi a percussione. Erano passati venti, o forse venticinque anni, ed ora Stetson era lì, nella folla su quel pianeta assurdo. Cadavere che scendeva lungo un ponte in una Città di metastasi.
Era di fronte a lui, camminava fissando i piedi consumati, Phleba allungò un braccio, come per volerlo chiamare, un filo di voce.

- Stetson.
E Stetson si voltò e riconobbe Phleba. Lo fissò e con occhi spenti parlò.

- Phleba! Sei tu? Tu che eri con me sulle navi, a Mylae? Ti ricordi? E quel cadavere che l’anno scorso hai seminato in giardino ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno? O il gelo improvviso ha danneggiato l’aiuola? Oh… mi raccomando… tieni il cane lontano se no con le sue unghie lo dissotterrerà!

E Stetson fu trascinato via, le sue parole si persero nella folla che incessante defluiva via. Phleba non lo rincorse. Restò ancora immobile, osservando il vecchio amico perdersi dietro l’angolo. Stetson aveva smesso di guardarlo, continuava a borbottare fissando davanti a sé, camminando, passo dopo passo.
Phleba si voltò, prese un’altra direzione e si affrettò ad uscire dalla Città. La Città che era disabitata.

Etichette:

08 giugno 2008

La Città

Pensa a Phleba (9)
La Città si profilava all’orizzonte oltre un boschetto di alberi rinsecchiti e piegati su se stessi, rami sterili e accartocciati, tronchi svuotati da un vento maligno e nessuna foglia a ricordare la vita che lì non era mai stata.
Costruita sul fianco di una collina sembrava pendere da un lato, in bilico sull’orlo di un impensato baratro. Qualche casa bassa, vicoli di strade labrintiche, un campanile, altre torri o cime indefinite di monumenti dedicati a nessuno. Pareva posata lì dall’alto, quasi perfettamente calata dalle dita di un architetto onnipotente, demiurgo di schizofrenica creatività. Una leggera nebbia l’avvolgeva, come un manto cesellato, un mosaico di tessere opache, finemente accostate l’una all’atra, cesello maniacale di gradazioni di grigio. La Città era irreale, ennesima prova di un’ontologia depurata di ogni logicità quotidiana, parto surreale di un poeta delirante.
Phleba si fermò. Osservò oltre le cime degli alberi secchi della radura e rimase a contemplare oltre. La Città era stata uno dei primi centri urbani fotografati dai satelliti; erano passati ormai cent’anni dalle prime rilevazioni satellitari. Un ammasso indistinto di edifici accatastati l’uno sull’altro, metastasi in espansione geometrica. Phleba ricordava perfettamente la prima fotografia scattata, ritraeva poche case, costruzioni basse, semplici, i tetti rossi a spiovente, i muri di mattoni rossastri, una superficie di poche centinaia di metri quadrati. Bastò già la seconda fotografia a capire che anche la Città era manifestazione dell’immonda assurdità del pianeta. Le case erano aumentate, laddove prima vi erano piazze e parchi, comparivano ora edifici, grandi, imponenti, prepotenti, opprimenti. La proliferazione non si era più fermata, le case continuavano a sorgere, a crescere, a conquistare ogni singolo, minuto spazio vitale. Nessun abitante visibile, le costruzioni apparivano quasi sorgere da sole, come sbocciassero dal terreno, venefici funghi in un prato contaminato.
Solo le mura parevano essere il limite estremo dell’espansione, come se oltre quel confine la Città non potesse andare; confinata malignamente in poche centinaia di metri quadrati. La proliferazione era continuata, casa dopo casa, casa su casa, edifici che schiacciavano altri edifici e che a loro volta venivano calpestati da altre costruzioni. La dodecafonica ridda di un formicolante delirio di vita, desiderio di una insperata autoaffermazione; fame, feroce brama di autoconservazione.
La Città era una pustola che si nutriva di se stessa senza poter neppure spurgare il proprio fetido marciume. Phleba represse un brivido di disgusto e si incamminò verso la Città, il passo sempre più lento.
Erano passate diverse ore dalla sua morte, dal momento in cui la tuta di protezione l’aveva indotto ad uno stato di coma semi-controllato. Non ricordava molto di ciò che era successo, delle ragioni che avevano costretto la tuta ad un intervento così massiccio. Gli sembrava di ricordare un urlo, o forse migliaia di urla ma era più una sensazione, un groviglio nelle viscere. Phleba aveva la strana sensazione di essere stato per un lungo momento sul bordo stesso dell’universo, equilibrista goffo ad osservare l’abisso che si spalancava e lo invocava. Non avrebbe mai più potuto ricordare che cosa era realmente successo all’ombra della roccia rossa, durante il coma la tuta era l’aveva imbottito di composti organici modificati il cui unico scopo era stato colpire le sue sinapsi e cancellare, distruggere ogni possibile traccia memnonica di quanto accaduto. Gangli devastati, connessioni neuronali divelte, sinapsi bruciate da reticoli amminoacidi mutati, Phleba aveva perso il tempo stesso oltre che i ricordi, come non fosse mai esistito. Nessuna esperienza, nessun insegnamento. Solo la memoria organica della tuta tratteneva il dettaglio di ogni singolo secondo antecedente al coma, la tuta lo conservava dentro di sé, racchiuso nel nucleo cellulare di mitocondri di stoccaggio. L’informazione esisteva ma nessun mai ne avrebbe avuto accesso.
Prima che potesse rendersene conto, Phleba giunse all’ingresso della Città. Un sentiero polveroso e biancastro l’aveva portato al di sotto delle mura, le osservò da vicino. Alte, possenti, nere. Pietre scavate grossolanamente da una montagna che forse non esisteva più, granito lucido, massi disordinati accatastati gli uni sugli altri a formare una muraglia gibbosa, protuberanze caotiche. Di fronte a Phleba una grande porta, uno squarcio nella continuità delle mura, un foro i cui contorni sembravano intagliati minuziosamente nella roccia, arabeggiante ingresso al delirio.
Le mura si estendevano a vista d’occhio per centinaia di metri, Phleba non riuscì a capire se erano state costruite per impedire a qualcuno di entrare nella Città o per scongiurare che qualcosa ne fuoriuscisse. Erano anni che gli scienziati e i religiosi del suo ordine si interrogavano su cosa potesse contenere la Città, o su chi ne fossero gli abitanti. Nel decenni di osservazione satellitare non si era mai trovata la seppur minima traccia vitale, nessun uomo, niente di vivo, neppure un topo. Deserta, come il resto del pianeta anche la Città sembrava essere disabitata. Senza pensare a nulla Phleba attraversò la porta araba ed entrò nella Città.

Etichette:

01 giugno 2008

Gli Dei Nascosti

Pensa a Phleba (8)
Restò seduto e fra le dita fece scorrere manciate di sabbia, le sentiva sul palmo della mano nonostante la protezione della tuta, ne sentiva il calore, la leggera ruvidezza. Phleba osservò le piccole montagne di sabbia che si formavano dove faceva cadere il rivolo di sabbia dal suo pugno. Si divertì a farne una qui, una là, e poi ancora una qui. Non pensava ad altro se non a quel gioco che si era inventato, come un bambino sembrava non curarsi di nulla, solo del suo nuovo passatempo. Ancora piccole montagne, ovunque piccole montagne e il tempo scorreva, nessun tramonto si profilava all’orizzonte e l’ombra della roccia rossa restava immobile, perfetta circonferenza ideale.
Poi venne l’urlo. E dopo l’urlo migliaia di altre urla. E grida disperate. E digrignate, sbavante, colante follia di latrati vocianti.
Urla. E ancora urla. Ovunque intorno alla roccia rossa urla.
Phleba si levò improvviso, tra le dita ancora una manciata di sabbia calda, scosso, sorpreso. Si guardò intorno ma non v’era nulla. Attivò i neurosensori esterni ma non registrarono nulla. In quel deserto vi era solo lui. Lui e la roccia rossa. Chi urlava?
Aprì le mani. Si guardò le palme sporche della polvere rossa del deserto. E vide.
Vide il terrore, vide la fine stessa dell’esistenza.
Vide il terrore.
Vide il terrore.
Phleba impazzì. Per un lungo momento la coscienza di Phleba implose e poi esplose in miliardi di frantumi incoscienti. Niente, nessuno poteva sopportare il solo pensiero di ciò che Phleba stava osservando sul palmo delle mani, tra i granelli di sabbia e la polvere rossa.
Phleba morì.
Perché solo la morte istantanea avrebbe potuto salvarlo.
La tuta registrò lo sbalzo endocrino, livelli oltre la soglia della normalità, la normalità stessa frantumata in esondazioni di adrenalina e intrugli ormonici che il cervello biologico di Phleba stava secernendo senza controllo. La tuta protettiva non capiva, alla tuta non importavano le ragioni dello sbalzo, la tuta esisteva solo per proteggere Phleba, quel preciso e vivente DNA. E l’unico modo per difendere Phleba era ucciderlo, interrompere artificialmente le sue neurofunzioni principali, stoppare la sua attività celebrale superficiale e indurlo ad una morte apparente. All’oblio.
Non fu complesso per la tuta stimolare i centri nervosi di Phleba, un singolo, prolungato impulso artificiale e le ghiandole sintetiche impiantate in prossimità dell’ipotalamo cominciarono a spremersi secernendo un liquido di colore nerastro, una bile cerebrale. Neuro inibitori clonati dal veleno di qualche serpente sperduto su un remoto pianeta periferico. L’effetto fu immediato.
Phleba si accasciò sul terreno rosso del deserto nell’ombra grigia e innaturale della roccia rossa, morente. L’attimo prima di decedere Phleba osservò per un ultima, folle, volta il palmo della mano e urlò. Urlo demente fra altre, infinite urla dementi che continuavano ad ammorbare il silenzio di quell’abominevole mondo.
Phleba vide. Il terrore.
Vide migliaia di divinità morire sul palmo della sua mano, dei nascosti dentro granelli di sabbia rossastra urlare la loro disperata agonia, creatori di mondi e di universi giacere ed imputridire in cumuli di sabbia, accatastati in una divina fossa comune senza nomi, senza religioni e senza venerazioni. Dei morti, divinità uccise da un’ombra perfetta e dal gioco infantile di un uomo solo.

Etichette:


adopt your own virtual pet!