01 dicembre 2007

Incipit

Incipit narrativo
Stava alzando il calice di vino, osservando ammirato i riflessi rubino che il liquido ondeggiante all’interno sembrava emanare, quando qualcosa gli attraversò la mente e lo costrinse a stravolgere i seppur pochi progetti della serata e affrettarsi verso un’altra, imprevedibile, avventura.
Ma non affrettiamo. Lasciamo il tempo al lettore di comprendere il dove, il quando e il come, necessari ad ogni buon incipit narrativo. Anzi, a voler bene guardare ciò che manca a questo precipitoso inizio è addirittura la risposta alla domanda principale che l’uomo si pone, ovvero “chi”?
Chi è dunque questo tale che, in estasiata ammirazione, se ne sta immobile a fissare un bicchiere mezzo pieno (o mezzo vuoto?) di vino rosso? La risposta non sorprenderà il nostro consueto lettore, ben abituato alle nostre lunghe narrazioni su quel personaggio eccentrico e straordinario che è il signor Jacopus B. Ed ecco che appunto, ancora una volta, protagonista delle pagine che seguono e, nel caso in questione ammiratore del rosso d’un vino, è il nostro affezionato signor Jacopus B.

Il Corvo Nero

Il Corvo Nero
Il corvo lungo la strada gracchiò
E io sobbalzai riconoscendo la voce
Delle sue note stonate e ascoltai
Il suo muto discorso
Che d’altre vite parlava
Sinchè non me ne stancai
E oltre me ne andai.

Ma per un momento davvero credetti
Che il nero corvo fosse il mio spirito
Finalmente liberato.

Il giorno in cui la Morte mi sorrise

Il giorno in cui la Morte mi sorrise
Il giorno in cui la Morte mi sorrise
Stavo camminando lungo una striscia di sabbia
Circondata da due mari eternamente attratti l’un con l’altro
Ed io proseguivo ignorando e non sapendo
Il dolore che nelle onde e nella risacca si nascondeva,
La disperazione di una separazione inflitta
Dal lembo infinito di uno sterile deserto.

Dietro di me le orme dei passi restavano disegnate
L’una dopo l’altra a tracciare il sentiero della mia biografia
Che inconsapevole avanzava in itinerari confusi
Ed io osservavo i mari, il nero delle acque che si cercavano
Urlandosi la disperazione di un’incomprensione assurda
Ed non mi avvidi della musica che mesta
Nell’aria sembrava ristagnare, melanconica.

Fu solo quando mi fermai, stanco a riflettere
Sul dove, il perché e il libero arbitrare
Che udì le note pastose e collose che del cielo s’impregnavano
E vidi la donna che lenta e altezzosa a me s’avvicinava
Col ghigno di chi sa un segreto da svelare e sorprendere;
Lei a me si apprestò e maligna sorrise al mio volto.
La stetti ad osservare, sinchè compresi che era la Morte
Venuta a farmi visita e a parlar con me del più e del meno.

Mentre la calda musica annunciatrice andava spengendosi
Con un gesto la invitai a sedersi, sulla calda sabbia
E lei cortese s’accomodò e attese che le parlassi,
certa che molto avevo da dirle e da lagnarmi della vita,
del destino che non esiste e del caso che ogni cosa governa;
Lungo fu il mio silenzio, abitudine imposta, e immobili c’osservammo
Lasciando che il tempo fasullo su nessun orologio scorresse.

Lei era bella, il corpo magro, scheletrico e le ossa ferenti,
La pelle immacolata, quasi trasparente, come una provocante lingerie,
I capelli neri e radi che le cadevano in ciocche disordinate sul viso
E i denti bianchi ed affilati che s’affacciavano dal sorriso senza labbra
Le mani ossute e nervose che accarezzavano la lunga veste e la piccola falce
Frivola concessione a iconografie antiche e a femminili vezzeggi.
Mai avevo visto tanta simmetrica imperfezione farsi meraviglia.

E lei sorrise e io in lei mi persi, ancora una volta nei suoi occhi neri
Agognando il colore che silente pareva promettere
La fine lenitiva del patire e del sopravvivere
E del continuo camminare lungo il deserto
Affannosamente infuocato senza inizio o interruzione
E persino le impronte dietro i miei passi invocarono pietose
L’alito freddo di vento che le avrebbe cancellate per sempre.

A lungo restammo seduti in quell’angolo di deserto
E la sabbia sotto di lei si ghiacciò e morì
E io restai ad osservare i granelli spegnersi
Come infiniti semi di senapa essiccati ad un sole nero
Invidiando la miriade di nascoste divinità che con essi periva,
E chiusi gli occhi ripercorrendo la vita vissuta, gli errori e le dolorose speranze
Che ogni giorno cercavo di dimenticare e strappare dalla mente che ostinata sogna.

Ogni lancetta s’interrompe al cospetto della donna che porta il nome di Morte
E il mio tempo divenne il suo tempo: eterno ed immobile, momento identico.
E lei continuava a sorridermi, aspettando che le chiedessi di portarmi via con sé
Di porre fine agli strali oltraggiosi di un folle principe di Danimarca
E nessun dubbio, nessun sogno nel sonno di un oblio che è solo nero,
Nessuna colpa da scontare tra le sue braccia.
Lei attese e io restai in silenzio ad osservarla.

Poi mi alzai, le porsi la mano e le chiesi di camminare con me ancora lungo un tratto
Di quella deserta spiaggia, lembo sadico di disperata solitudine marina,
verso l’orizzonte che identico si staglia un poco più in là.
Lei smise di sorridere, il volto si scavò di mille nuove rughe,
E si deturpò in forme deformi di geometrie impossibili,
Prese la mia mano e con me accettò d’avanzare, lentamente.
Verso l’orizzonte che identico si staglia un poco più in là.

Mano nella mano della Morte che più non sorride
Io uomo avanzo nello sterile deserto della vita
E intorno osservo la solitudine a cui la sabbia confina
I mari che si cercano senza mai trovarsi e sogno la gente
Che altrove s’è persa e mi chiedo dove la mia speranza
E un poco triste mi faccio, finchè la Morte mi stringe le dita
In un freddo gesto materno e sussurra le sue uniche parole:

il tuo essere, amore mio.

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