16 febbraio 2009

Futuri Connessi - Dal Futurismo al Connettivismo

Sabato 28 Febbraio 2009 - ore 21.00 - Spazio Polaresco - Bergamo

Un orrendo e nauseante identico pasto.

Rami di Verdi Lame (14)
Jabash entrò nel cubo-merci vincendo il ribrezzo e lo schifo.
I suoi uomini avevano imballato il meccanismo di trasporto merci della gilda e lo avevano trasportato nell’hangar deposito della torre K-43.
Un enorme capannone di metallo chiaro, color panna. Un semplice prefabbricato costruito dai droni da lavoro in poco meno che una giornata. L’intera struttura era composta da un polimero metallizzato scoperto da alcuni ricercatori di un pianeta centrale. La scoperta era valsa l’assimilazione del pianetucolo all’Impero e lo sterminio della razza locale. Scienziati compresi. Come una schiuma il polimero si lasciava modellare in forme e fattezze molteplici. Un semplice processo di solidificazione chimica permetteva poi la stabilizzazione della sagoma. Altamente tossico il polimero metallico poteva essere maneggiato solo da droni da lavoro o al massimo da schiavi ormai inutili.
Il color panna con cui si presentava lì era frutto della combinazione con qualche elemento dell’atmosfera del pianeta della foresta. Forse un batterio locale.
L’hangar era immacolato. Era stato sgombrato e igienizzato il più in fretta possibile all’ordine del comandante. Nessun elemento locale doveva alterare l’analisi del cubo-merci.
Jabash conosceva già il contenuto dell’oggetto. Aveva letto il puntuale e preciso rapporto del sergente che per primo era entrato nel cubo. Le parole con cui aveva descritto ciò che vi aveva visto erano fredde e militari ma Jabash sapeva leggere fra le righe. E vi aveva letto tutto l’orrore e lo schifo, la totale incredulità del tenente. Non lo biasimava. Come era possibile anche solo pensare che un uomo avesse potuto vivere lì dentro per otto cicli standard? Seduto fra i suoi stessi escrementi, cibandosi solo di un composto semiorganico che colava dalla pareti del cubo. Come poteva non impazzire un uomo nel buio e nel silenzio di una solitudine intersistemica lunga otto cicli? Perché non lo avevano messo in sospensione criostatica? Che insano e folle motivo si nascondeva nel fare viaggiare un uomo lì dentro?
Jabash desiderò poter alterare i suoi ricettori olfattivi come di certo aveva fatto il tenente metallizzato entrato nel cubo-merci per primo. Ma Jabash non poteva impedire al suo naso di sentore l’odore che ristagnava intorno al cubo, il fetore che emanava dalla parete spalancata. Lì, oltre la soglia del cubo-merci Jabash sapeva di trovare l’immondo.
Fece un passo ed entrò.
All’interno del cubo era stati posizionati dei faretti; la loro luce bianca si rifletteva sulle pareti interni rimbalzando da un angolo all’altro. Jabash socchiuse gli occhi. Nella luce artificiale si guardò intorno. L’interno del cubo-merci era piccolo, più piccolo di quanto si sarebbe detto osservandolo da fuori; le pareti erano, infatti, molto spesse e rubavano spazio prezioso. Il cubo-merci era però pressoché vuoto. Solo sulla parete di fronte al lato aperto era messa una specie di poltrona. Un sedile ritagliato ergonomicamente sulle forme del passeggero. Dai lati spuntavano delle corde, legacci di una sostanza metallica e fibrosa, probabilmente le cinture che avevano ancorato il monaco lungo il viaggio. Dalla parete dietro la poltrona un semplice tubo raccoglieva i liquami densi che vi colavano e li lasciava fluire sino ad una cannuccia posta più o meno all’altezza della testiera del sedile. Jabash immaginò il monaco suggere il mefitico liquido. Un orrendo e nauseante identico pasto lungo otto cicli.
Nel cubo-merci non v’era null’altro. Vuoto. Uno spreco enorme di spazio. Nei viaggi intersistemici la cosa più preziosa era lo spazio di stoccaggio merci. Ogni angusto anfratto doveva essere riempito di merci per bilanciare il costo stratosferico di un viaggio. Far viaggiare fra sistemi un cubo-merci quasi completamente vuoto era folle. L’intera economia di molti mondi non sarebbe stata in grado di compensare le spese di un viaggio di una nave intersistemica.
Cosa aveva spinto l’Ordine a far viaggiare il monaco dentro un cubo-merci lasciando così però tanto spazio vuoto? Jabash si avvicinò al sedile. Sapeva che il cubo-merci era stato pulito dai suoi uomini. Il pavimento era ora intonso e lui poteva camminare osservando il nero della superficie riflettere le luci dei fari ma sapeva che fino a poche frazioni di ciclo prima lì era pieno di escrementi solidi e liquidi lasciati dal monaco durante il viaggio. Nel cubo-merci non c’era nessun sistema di riciclaggio, che senso avrebbe avuto per un oggetto creato per fungere da semplice magazzino mobile. Gli scarti biologici del monaco erano stati la sua unica compagnia per gli otto cicli, ammassandosi uno sull’altro.
Jabash trattenne un conato di vomito e vinse il desiderio di uscire da quel luogo immondo. Vide ciò che cercava a destra del sedile. Uno scomparto chiuso e infossato nella parete nera. Per un momento sperò che l’oggetto fosse ancora lì dentro ma sapeva che non lo avrebbe trovato. Si avvicinò e vide sulla parete, un poco sopra al pavimento, un piccolo bottone. Lo premette e subito un piccolo sportello si aprì rivelando una nicchia incassata e poco profonda. Vuota.
Il monaco l’aveva portato con sé. Era libero sul pianeta e aveva le istruzioni. Jabash soffocò un’imprecazione. Doveva trovarlo.
Richiuse il piccolo vano e uscì dal cubo-merci. Alcuni suoi uomini erano fermi ad aspettarlo. Immobili ed impettiti. Fieri nel loro essere meccanizzati.
Jabash li guardò e come sempre li invidiò. Si ricolse al tenente.

- Il monaco ha con sé l’oggetto.
- Lo stiamo cercando.
- No. Non dovete cercarlo. Dovete trovarlo!
- Stiamo perlustrando il quadrante intorno al luogo del ritrovamento.
- Risultati?
- La foresta è fitta…
- Ho detto: risultati?
- Nessuno, sinora. Signore.
- Voglio un rendezvous sullo stato della ricerca tra 1\20000 cicli standard.
- Affermativo.
- Tenente…
- Si?
- Dobbiamo trovarlo.
- Lo troveremo, signore.

Per la prima volta in vita sua Jabash ebbe paura. Paura di fallire. Paure delle conseguenze del suo fallimento. Paura dell’uomo a cui doveva tutto. Paura dell’Imperatore.

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10 febbraio 2009

Sentì l’odore ferroso. Il profumo.

Rami di Verdi Lame (13)
La foresta era silenziosa. Per la prima volta nella sua vita la donna ascoltò il silenzio e non le piacque. Nessun suono nell’aria. Tenne gli occhi chiusi cercando di concentrarsi meglio per cogliere i rumori che negli anni aveva imparato a riconoscere. Il trillo di qualche insetto, il gracidare acido degli uccelli neri, lo spezzarsi di rami vecchi e misteriosi ma così comuni scalpiccii nel buio del sottobosco. Ora sentiva solo un bianco, denso, imprescrutabile silenzio. Cosa stava succedendo alla foresta?
Aprì gli occhi. Il sole bianco stava tramontando oltre le cime degli alberi più bassi e un cupo crepuscolo scendeva lentamente sulla superficie del pianeta. Il buio era ancora lontano ma entro poche ore tutto sarebbe stato nero. Era distesa sul muschio, scomposta in una posa innaturale. Percepì il dolore degli arti, il formicolio feroce lungo il braccio piegato sotto il corpo. Non si mosse. Lasciò che gli occhi si abituassero alla penombra. Piano riconobbe lo spiazzo dove aveva visto atterrare il cubo-merci. Girò di scatto il viso e lo vide. Là, nero nel nero incipiente. Lo vide aperto, una parere posata per terra, come una passatoia. Si guardò intorno ma non notò nient’altro. Il pianoro era deserto.
Faticosamente cercò di alzarsi. Il braccio destro era insensibile, come un tronco morto attaccato al suo corpo. Lo prese con la mano sinistra e lo scosse. Era come toccare un oggetto estraneo. Attese che il sangue defluisse di nuovo nelle vene e nei muscoli. La sensazione di formicolio era insistente ma cercò di non farci caso. Tentò di levarsi sulle gambe e scoprì di riuscirci. Quasi se ne stupì. Fece due passi. Le gambe le tremavano. Dovette appoggiarsi ad un tronco per non cadere. Respirò a piani polmoni. L’aria fresca della sera la invase, riempiendola. La trattenne a lungo e poi espirò piano. Ripetè l’operazione alcune volte sino a che non sentì che il corpo cominciava a rispondere ai comandi delle sue sinapsi.
Fu in quel momento che si accorse di essere diventata sorda. Formulò un suono, una parola accompagnata da un motivetto. Non lo udì. Picchiò un pugno contro il tronco ma solo silenzio. Urlò. Ma fu come essere immersi in un liquame bianco e spugnoso. Silenzio.
Chiuse gli occhi di nuovo e tentò di ricordare. Rivide il cubo planare brusco dal cielo. Devastare gli alberi aprendosi un varco luminoso tra le fronde. Sbigottita lo osservò adagiarsi a terra sul muschio, persino delicatamente. Ricordò i dettagli. Il lato che si apriva lentamente dall’alto e che si posava sul muschio. Poi il fischio. Le parve di sentirlo di nuovo. Nell’aria, intorno. Ovunque. Mise le mani sulle orecchie e ancora premette. Violentemente. Ma il sibilo era solo nella sua mente, inciso nei suoi ricordi. Marchiato a fuoco.
Si guardò le mani e vide il sangue. Rosso sulle palme sporche di terra e fango. Rosso su marrone e verde. Fece scivolare le dita sulle orecchie e sentì il sangue. Lo sentì raggrumato su tutta la guancia. Ne sentì l’odore ferroso. Il profumo.
Stette immobile. La schiena appoggiata al tronco, si fissò le dita rosse cercando di cogliere un suono nell’aria. Un qualunque suono pur di non continuare a precipitare in quel bianco silenzio in cui era scivolata. Urlò, ma non sentì nulla.

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02 febbraio 2009

Escatologia e Connettivismo

Escatologia e Connettivismo
Escatologia.
La fine del mondo si avvicina. Non è la fine di ogni mondo ma solo la fine del mondo dell’Uomo. E’ il futuro che precipita sul presente. Incombe come un’apocalisse senza redenzione.
E’ l’Uomo non può far altro che stringersi a sè ed osservare il tempo che scorre e che finisce.

Escatologia
.
Guardare i propri ultimi giorni da esseri umani e interrogarsi sull’Oltre. Su ciò che ci sarà dopo. Chiedersi se ciò che attende l’Uomo al domani del presente è la Morte oppure qualcosa di diverso, di altro. Di Oltre.

Escatologia.
Esploratori dei territori della morte, pionieri dei luogo da cui nessuno prima è mai tornato. Narratori di storie provenienti dal Nulla. Camminatori nel luogo che è un non-luogo per non fermarsi e continuare a camminare.

Escatologia.
Che la fine del presente sia solo uno degli infiniti muri invalicabili. Siepi altissime da cui emerge nascosto l’Infinito. Limite delle situazioni umane che lascia intravedere l’Oltre PostUmano. Specchio da cui il riflesso dell’Uomo continuerà a fissarci anche quando non saremo più solo Umani. Presente che cade nel futuro e futuro che diventa un nuovo presente. Posteriore. In attesa di una nuova Apocalisse. Eterna ciclicità di non-uguali.

Escatologia.
Il fine del Connettivismo. Perenne indagine senza risultato di ogni Oltre senza ragioni e spiegazioni. Epifania velata senza annunciazione.

Escatologia.
Connettivismo.
E io muoio nella mia perenne incessante ricerca dell’Oltre.
Lì, racchiuso in ogni presente.
Là, impossibile dentro tutti i futuri.
Hic et Nunc, accartocciato mille volte nel passato.

Nero bitorzolo di microtecnologia

Rami di Verdi Lame (12)
Il dispaccio all’Imperatore era stato spedito. Jabash calcolò che sarebbe giunto a destinazione in 1\3000 cicli standard. Quel tempo era come un limbo insensato, inutile. Una frazione vuota a separare il suo presente da quello dell’Imperatore. Uno iato che Jabash faticava a sopportare. La sua sopravvivenza dipendeva dalla sottomissione all’Impero. La sua stessa vita era l’Impero.
Seduto sullo scranno della stazione planetaria K.32, il comandante fissava lo schermo nero. Aveva scritto tutto all’Imperatore. Il suo miserabile fallimento, la sua inettitudine, la sua incapacità a scovare il monaco. L’aveva perso e ora, tra la fitta foresta, sarebbe stato difficile rintracciarlo. Chiuse gli occhi e cercò di non pensare a nulla. Liberò la mente allo stesso modo in cui il suo vecchio maestro gli aveva insegnato. Respiri profondi, diaframmatici. Lui che era ancora biologia aveva imparato le tecniche per intervenire sul suo corpo, aveva appreso il controllo e conquistato la sottomissione del proprio organismo alla mente e alla volontà. Jabash e la sua coscienza consapevole avevano fatto del corpo carnale uno strumento da utilizzare a piacimento, un mezzo governabile. La via del dominio.
Il Comandante fu però interrotto nella sua immersione, lungo il percorso di catabasi verso se stesso e il lato vivo della sua coscienza. Un trillo. Ripetuto. Fastidioso. Anacronistico richiamo sonoro nell’era della connessione neuronale collettiva e perenne.
Jabash aprì gli occhi con fatica, infastidito. Toccò con un gesto sbadato il meccanismo che portava all’orecchio destro. Nero bitorzolo di microtecnologia.

- Jabash.
- Comandante, l’abbiamo trovato?
- Avete trovato il monaco?! Dove?
- No. Non il monaco. Il cubo-merci. Del monaco però nessuna traccia.
- Maledizione. Dove vi trovate?
- Quadrante 2. Coordinate 22.87.34.
- Così distante dal punto previsto d’impatto?
- Si. Non sappiamo spiegarcelo.
- Perché sergente?
- Il cubo-merci è privo di modifiche. E’ un normale cubo-merci. Nessun motore ausiliario, nessun deflettore aerodinamico.
- Come ci è finito lì allora?
- Non lo sappiamo. I tecnici sono al lavoro ma al momento nulla è venuto fuori. Quasi che si sia trattato di un caso fortuito.
- Un caso…
- Comandante, ordini?
- Concentri le ricerche a terra nel quadrante due. A raggiera dal punto di atterraggio del cubo-merci. Nessun intervento senza il mio placet.
- Ricevuto.
- Sergente?
- Si, comandante?
- Esplori personalmente il cubo-merci. Attendo un suo dettagliato rapporto sul suo contenuto.
- Devo cercare qualcosa in particolare?
- Niente. E se ci fosse se ne accorgerebbe. Passo e chiuso.
- Sarà fatto. Chiudo.

Jabash si distese più comodo sullo scranno. La ruota del suo destino stava forse girando? Pensò al monaco. Lo stavano scovando. Non poteva essere lontano. Per la prima volta nell’arco della giornata si lasciò andare ad un sorriso di autocompiacimento, non avrebbe deluso l’Imperatore neppure questa volta. Avrebbe governato la vela del suo stesso fato.
Con un gesto improvviso si alzò e si diresse all’ampia finestra che dominava la punta della torre bianca imperiale.
Fissò la distesa di alberi sotto di lui. Verde oltre ogni limite, oltre persino la linea dell’orizzonte curva a seguire la forma del pianeta. Piccolo ma immenso per un uomo solo che voleva nascondersi. L’avrebbe trovato. A qualunque costo. E con lui anche il libro.

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