27 agosto 2006

La scelta

LA SCELTA
Non vi era stata scelta. Non vi è mai scelta. Tra la morte e qualunque cosa non vi sono dubbi. Qualunque cosa. E lì era qualunque cosa.
Boris fece scorrere lo sguardo tutto intorno, l’espressione dei suoi occhi tradiva il ribrezzo, l’odio, lo schifo per ciò che vedeva. Sputò per terra. Il grumo di saliva marrone raschiata dalla gola finì sul pavimento tra i segni di altre e vecchie sputate. Fissò la macchia per un po’, poi si voltò e tracannò una lunga sorsata da una contenitore di plastica poggiato sul tavolo.
A fatica ingollò il liquido del contenitore, ne conosceva il sapore a memoria ma allo stesso modo ogni volta gli faceva salire violenti spasmi e feroci conati di vomito. Concentrato proteico. Stampato in chiare lettere occidentali sul dorso della bottiglia e poi, più sotto e in piccolo, a caratteri cirillici tutte le tabelle dei valori alimentari. Li aveva letti un’infinità di volte ma ogni volta si chiedeva come potesse sopravvivere un uomo bevendo un litro di quella cosa al giorno. Nonostante l’alto contenuto proteico, vitaminico, minerale concentrato in quella specie di denso brodo giallognolo Boris si meravigliava che ad un corpo potesse bastare così poco.
Non importava del suo sapore, del suo odore mefitico, putrescente, un odore che Boris aveva sentito solo nei cadevi putrefatti al sole del deserto, non importava della sensazione di viscido lungo l’esofago che si provava ogni volta, non importavano le feci gialle e liquide che Boris era costretto a cacare ogni giorno, non importava che quel preparato sarebbe stato il suo unico nutrimento di qui a.. a chissà quando. Non importava. Tra la morte e qualunque cosa non vi è scelta. Qualunque cosa.
Boris si sdraiò sulla branda, tentò di chiudere gli occhi e di pensare ma la scarica di adrenalina che la caffeina contenuta nel liquido lo contrinse a tenere le palpebre spalancate. Fissò il soffitto. Osservò la lamina metallica un paio di metri sopra di lui. Il suo cielo, il suo orizzonte da tanti di quei giorni che neppure si ricordava. Bestemmiò con violenza. Un urlo inutile, rivolto ad un dio che non lo aveva mai ascoltato, sia nelle preghiere che negli insulti.
Mise le mani sul petto e attese con pazienza che il suo corpo digerisse il preparato. Mezz’ora, non ci sarebbe voluta più di mezz’ora perché il suo avido corpo assimilasse tutte i composti nutritivi presenti in quella merda.
Fece scorrere gli occhi lungo le pareti di quel luogo. E vide il suo qualunque cosa.
Una stanza. Una sola stanza, grande non più di tre o quattro metri per ogni lato, le pareti di un ferroso color grigio scuro, illuminato da un’unica lampada al centro del soffitto. Un lampadina perenne che attingeva la luce dal complicato sistema di alimentazione esterna che dava energia a tutti gli impianti presenti nella stanza.
Sul lato destro la branda, dalla parte opposta uno scaffale ripieno di manuali di funzionamento, sugli altri due lati, una scrivania con un computer accesso e altri aggeggi elettrici, illuminati da led intermittenti e colorati e, opposta a questa, la dispensa, colma dei contenitori per il liquido proteico. Migliaia di identiche bottiglie, numerate da 1 a… Boris non lo sapeva fino a che numero. Una bottiglia di garantiva la sopravvivenza per due giorni. Sapere quanti contenitori vi fossero nella dispensa significava sapere la data della fine. O quantomeno la data in cui sarebbe terminata la speranza.

Quella era la sua casa. Lo era da circa otto anni, da quando il giudice lo aveva condannato alla non-scelta. La morte o quel luogo. Boris aveva fatto l’unica scelta possibile.
L’avevano beccato in un bordello di Vladivostok mentre si scopava una puttana. Una morettina niente male. La Feder-pol aveva fatto irruzione nel palazzo in tenuta da combattimento, poliziotti armati di mitragliatori automatici, bombe a percussione e di un’infinità di gas letali. L’avevano trovato nudo come un verme mentre si agitava freneticamente tra le gambe della puttana. Sarebbe bastato un poliziotto di quartiere a catturarlo. La Feder-pol aveva preferito mandare la squadra d’assalto per catturare il famoso Boris Ivaschenko. Accusato di dodici omicidi su commissione, sospettato di altre ventitre, killer prezzolato al soldo della mafia russa, della jakuza giapponese e delle tradi cinesi. A Boris non importava da chi veniva l’ordine, a lui interessava solo che il suo conto corrente cifrato sulla banca on-line presentasse l’accredito stabilito e il destino del tizio, della tizia, o anche del bambino raffigurato sulla fotografia che gli spedivano al suo e-mail era segnato. Di solito preferiva risolvere le sue pratiche con un fucile d precisione, una sola, singola pallottola calibro 12 a spappolare il cuore. Gli era capitato però che qualche cliente gli chiedesse un trattamento speciale per gli obiettivi. Aveva ucciso a mani nude, con ogni tipo di arma bianca, con cannoni così potenti da rendere irriconoscibile il cadavere anche alla madre. Una volta si era persino servito di un serpente velenoso. Non aveva mai fallito Boris. Amava il suo lavoro. L’ordine, la semplicità, la ripetitività. Mail, acconto, esecuzione, saldo finale. Non aveva mai ucciso per piacere. Era capitato che provasse piacere nel eseguire un contratto. Ma ciò che gli dava soddisfazione era la sua stessa efficienza. Il suo essere professionale. Sempre. Non era uno di quei maniaci che finiscono per farsi beccare perché si masturbano sulle loro vittime. Boris era un colletto bianco. Pulito, preciso.
Il sistema giudiziario della Federazione dei Paesi Commerciali lo riconobbe colpevole di ventitre omicidi su commissione, atti di brutalità e violenza su tre bambini e su dodici donne, collusione con la mafia russa, giapponese, cinese, italiana e inglese. Fu condannato, inoltre, per una lunga lista di violazioni fiscali, contributive e persino per un’effrazione stradale.
La F.P.C. si vanta che le sue carceri sono tra le più pulite e vivibili del pianeta, omette però che il suo sistema giudiziario prevede il carcere solo in casi particolari e piuttosto rari. La pena capitale è considerato nella F.P.C. un valido strumento di repressione del crimine, o quantomeno, del criminale.
A Boris però venne data una chance, venne offerta una scelta. Da un lato l’iniezione endovenosa continuata di un barbiturico ad azione rapida in combinazione con un agente chimico paralizzante, dall’altro la possibilità di contribuire al progresso dell’uomo e alla sua conoscenza dell’universo. Boris comprendeva il significato della prima frase e non della seconda. Proprio per questo scelse la seconda.
Niente ago in vena, in cambio quella stanza. Questa la sua condanna. Questa la sua scelta.
Fu sottoposto ad un breve addestramento: immersioni, giri sulla macchina centrifuga, palestra per rafforzare il tessuto muscolare e fu imbottito di farmaci antibiotici fino a scoppiare. Tre mesi dopo era pronto. Fu caricato di peso sulla prima astronave della F.P.C. in partenza dallo spazio porto militare di Edimburgo e, ancora senza sapere il significato della seconda frase, sparato nello spazio.
Il viaggio durò circa un mese, era confinato nella sua stanza e poteva uscirne solo per i pasti, sempre tenuto sotto stretta osservazione da due Feder-pol e senza mai mischiarsi con il resto dell’equipaggio.
Una sera, mentre era a cena, sentì uno dei due suoi cani da guardia scherzare con il collega.
-Speriamo che se la goda questa cena del cazzo. Sarà l’ultima volta che ingurgiterà qualcosa di solido. Da domani ce ne liberiamo.-
Si addormentò rimuginando sulle parole del Feder-pol e quando si risvegliò si ritrovò in una stanza nuova. Allora la osservò con sorpresa ora la conosceva sin troppo bene. La sua prigione. La sua casa. Il suo centro ricerche per l’esplorazione spaziale della F.P.C. Questa stanza.
Sul tavolo un foglio. Una stampa direttamente dal centro ricerche spaziali della F.P.C., poche righe per dargli finalmente il senso di quella seconda frase.
Boris lesse quella pagine cento volte senza capire realmente ciò che vi era scritto. Conosceva il senso delle parole, delle frasi e in generale, a parte qualche termine tecnico su cui aveva dei dubbi, riconosceva la lingua comune della F.P.C che parlava sin da bambino. Ma lo stesso non gli era molto chiaro come ciò che ci fosse scritto potesse riguardarlo. Che cazzo c’entrava lui con l’esplorazione dello spazio, con la ricerca di nuove forme di vita, di nuove razze intelligenti nell’universo, che cosa era una diavolo di cometa ad orbita aperta, che cosa un centro permanente di trasmissione dati ciclici?

Boris si alzò dal letto e svuotò la vescica nel buco che spuntava a fianco dello scaffale dei manuali. Non voleva saperlo ma era ben consapevole che il suo piscio sarebbe stato riciclato, purificato e rimesso nel circolo dell’acqua potabile della struttura. Erano anni che ormai beveva le sue urine distillate. Nella stanza non vi erano orologi a scandire il tempo. Non vi era tempo da scandire in quel luogo. Solo un unico, interminabile, identico presente. Seduto alla scrivania, Boris fece il back-up delle operazioni delle ultime ore, controllò che tutto fosse regolare e che non vi fossero strane sorprese. Tutto identico. Ogni volta. Gli stessi numeri. Le stesse cifre. Un solo significato: niente. Nulla. Solo il vuoto dell’universo intorno a lui, solo il nero dello spazio cosmico davanti alla cometa ad orbita aperta e a quel suo bitorzolo grigio scuro che da circa dieci anni abbelliva la sua superficie di biossido di carbonio, metano e acqua ghiacciati, con aggregati di polvere e vari minerali.
Nessuna risposta al continuo, incessante, martellante, ossessivo invio del segnale radio a frequenze radio cicliche. Ogni frequenza un nuovo inizio del segnale, della sua sequenza. Il sistema era automatizzato da un software e Boris aveva il solo compito di verificare che le antenne ricettive non avessero captato qualche specie di risposta alle sequenze inviate.
Due erano le sequenze numeriche che venivano sparate utilizzando un codice binario di acceso/spento, di on/off, di intermittenze duali. Da un lato la successione di Fibonacci dall’altro la sequenza dei numeri primi. Due codici numerici facilmente riconoscibili e, queste erano le speranze degli scienziati della F.P.C., riconoscibili da qualunque razza extraterrestre con un minimo grado di evoluzione.
Il sistema di invio dati era piuttosto banale, lo spettro radio era stato scandagliato e diviso in frequenze differenti. Ad ogni frequenza partiva un impulso radio in codice binario con la sequenza dei numeri primi, alla frequenza successiva, sempre in codice binario, la successione di Fibonacci e così via. L’etere intorno al cometa era letteralmente invaso dal messaggio proveniente da quella scatola grigio scuro sparata e incastonata anni fa sulla superficie ghiacciata della cometa. In quella scatola aspettava Boris, attendeva che qualcuno o qualcosa rispondesse al segnale e si avvicinasse alla cometa. Lì lo avrebbe trovato, rappresentante della razza umana, pronto ed istruito ad iniziare immediatamente una trattativa di carattere commerciale tra la F.P.C. e la nuova razza aliena.
Questo era il significato della seconda frase, questo era il qualunque cosa che Boris aveva scelto. Attendere. Aspettare sino a che le scorte di liquido proteico non si fossero esaurite, una risposta, un segnale, una razza aliena che lo tirasse fuori di lì e che magari lo riportasse da eroe sulla Terra. E lì quante se ne sarebbe scopate di puttane alla faccia della F.P.C.
La condanna infatti parlava chiaro, se fosse, in un qualunque modo, tornato sulla Terra con la prova di un contatto con una civiltà extraterrestre intelligente sarebbe stato libero e tutti i suoi crimini perdonati e dimenticati. Avrebbe persino ricevuto una rendita vitalizia pari a tredici transizioni commerciali standard. Una montagna di soldi. Una catena montuosa di soldi!

Non ci credeva molto la F.P.C. in questo progetto. Il governo centrale della Federazione aveva acconsentito al programma sperimentale presentato dal Centro Ricerche Spaziali solo perché presentava dei costi irrisori rispetto alle solite richieste degli scienziati. Sarebbe bastato una struttura autoreciclante ad energia dinamica, un’astronave da cui lanciarla sulla prima cometa ad orbita aperta individuata ed infine, ma questo era il problema più semplice da risolvere, un candidato volontario ad essere il terminale di ricezione in caso di contatto positivo con una civiltà aliena.
Il Governo centrale della Federazione in seduta plenaria voto all’unanimità l’approvazione del progetto del Centro Ricerche Spaziali. In un colpo solo il Governo si sarebbe levato dalle scatole sia dei pericolosi “volontari” sia quelle sanguisughe degli scienziati.
Gli astrofisici, felici come dei bambini il giorno di Natale davanti ai pacchi da scartare, cominciarono a lavorare al progetto e tutto fu pronto in soli sei mesi.
Furono costruite tre strutture autoriciclanti ad energia dinamica e Boris fu il candidato ideale per la seconda. Non gli dissero che la prima si era distrutta nell’impatto con la cometa e che i resti del “volontario” ora gravitavano in un’orbita semiellittica fra Giove e Saturno. Boris fu scelto sia per la sua solidità fisica che per quella psicologica. Era anche un killer professionista ma aveva superato brillantemente i test che di nascosto e in segreto gli avevano sottoposto. Il responso degli psichiatri non lasciava dubbi, Boris avrebbe potuto sopravvivere in totale isolamento per anni senza dare segni di follia e continuando a svolgere, meticolosamente, le ripetitive mansioni che gli erano state affidate. Tutto purché vi fosse una, seppur infinitesimale, possibilità di sopravvivere. E almeno sulla carta quella sarebbe rimasta per circa trentacinque anni. Tanto sarebbero durate le scorte di liquido proteico. La struttura autoreciclante ad energia dinamica avrebbe continuato ad inviare il segnale sino a che la cometa si fosse mossa, dalle previsioni a modello matematico si ipotizzava che la traiettoria della cometa l’avrebbe portata a scontrarsi contro una nana bianca non prima di 4 milioni di anni. Per tutto quel tempo sarebbe stata la tomba spaziale delle ceneri di Boris.

Qualcosa di sbagliato. Una sensazione. La vaga percezione di un errore. Di Una rottura della monotonia. Nel sonno Boris ebbe la sentore che qualcosa stava accadendo. Fu dapprima il suo inconscio a registrare dei dati assurdi. Non li comprese. Non poteva farlo. E allora li tradusse. I rintocchi di una campana lontana. Tlong Tlong. Un ritmo lento, prolungato a invadere il sogno di Boris. L’annuncio di una morte, di un funerale. L’inconscio di Boris aveva scelto quel suono per tentar di comprendere ciò che stava accadendo. Campane che suonavano a morto. Il sogno di Boris fu disturbato dal suono lugubre, ripetitivo, angosciante e pian piano Boris risalì verso lo stato cosciente di veglia. Finchè si destò del tutto.
Non capì subito da dove veniva quello scampanellio assillante che sentiva. Ancora un po’ intontito dal sonno non si rese conto di ciò che stava accadendo. Poi capì. Comprese.
L’attesa era finita. La speranza era lì, annunciata da tutti i sensori della struttura autoreciclante, un trillo continuo che aveva un unico, solo, inequivocabile significato. Qualcuno aveva captato il segnale radio in codice binario e aveva risposto. Là fuori, a distanza di impulso radio, vi era qualcuno o qualcosa abbastanza intelligente da interpretare un segnale radio e rispondervi. Là fuori c’era una civiltà extraterrestre, là fuori c’era la speranza di Boris.
Si alzò di corsa e si precipitò alla consolle di controllo della struttura e dei suoi impianti ricettivi. Nella fretta fece cadere a terra un contenitore di concentrato proteico che si riversò sul pavimento. Una macchia giallognola che si ingrandiva e che copriva le vecchie macchie di sputo. Boris non se ne curò, se il computer non era impazzito aveva finalmente finito di vivere cibandosi di quella roba.
Attivò tutti i sensori, sia quelli perimetrali che quelli esterni della struttura riciclante, molti si erano attivati automaticamente ma Boris sapeva che era necessario il suo intervento manuale per rendere la struttura operativa al cento per cento. Una scelta dei progettisti per risparmiare energia e per responsabilizzare il volontario. All’inizio ciò che captò fu un debole lamento, ciclico, ripetuto. Un segnale trasmesso su una frequenza così bassa che dovette regolare manualmente le antenne di ricezione e il commutatore radio. Ruotò la manopola del ricevitore con grande attenzione finchè all’interno dei pochi metri quadrati della struttura autoreciclante non si diffuse un suono ritmato, un beep scandito in sequenze palesemente ordinate. La voce degli alieni. La loro melodiosa voce che annunciava a Boris la salvezza. La vita.
Digitando i tasti freneticamente, Boris lanciò il programma di interpretazione di codici alfa-numerici. Era un programma studiato da uno specializzando della facoltà di informatica di Coventry che raccoglieva tutti i codici di decriptaggio conosciuti dall’uomo e li implementava su di un software preso a prestito dalla facoltà di matematica che era in grado di rilevare sequenze numeriche ordinate da un qualunque insieme casuale di cifre.
Osservò lo schermo e la finestra che si era aperta nel centro con la scritta – Now Matching – e la barra bianca sotto che pian piano si colorava di un rosso vivo.
Dieci minuti. Solo dieci minuti per interpretare il segnale radio ricevuto dalla struttura autoreciclante e per avere i primi dati.
Numeri. Un insieme di numeri che si srotolavano sullo schermo: 1.6180339887 4989484820 4586834365 6381177203 0917980576 2862135448 6227052604 6281890244 9707207204 1893911374 8475408807 5386891752 1266338622 2353693179 3180060766 7263544333 8908659593 9582905638 3226613199 2829026788 0675208766 8925017116 9620703222 1043216269 5486262963 1361443814 9758701220 3408058879 5445474924 6185695364 8644492410 4432077134 4947049565 8467885098 7433944221 2544877066 4780915884 6074998871 2400765217 0575179788 3416625624 9407589069 7040002812 1042762177 1117778053 1531714101 1704666599 1466979873 1761356006 7087480710 1317952368.
Uno virgola sei, uno, otto e un’infinità di altri che continuavano a scorrere sullo schermo. Finché una finestra non si aprì sullo schermo. Una sola scritta. Due parole. Semplici. - INTELLIGENT ANSWER – E di seguito una formula matematica: x = .
Boris non ci capì molto. Non era la matematica ad interessargli. Ciò che voleva era che quel maledetto computer rivelasse una qualche intelligenza in quel rumore radiofonico. E l’intelligenza era stata annunciata.
Boris si gettò indietro sulla sedia e sorrise. Mise le braccia dietro la testa e si mise ad ascoltare quel ritmico beep che dagli altoparlanti della consolle si diffondeva per tutta la struttura autoreciclante. La sinfonia più bella, la musica più dolce, le note più armoniose. Il suono della libertà. La musica della vita.
Socchiuse gli occhi e lasciò che il ritmo cadenzato lo cullasse. Non doveva far altro che attendere ancora un po’, poi sarebbero arrivati e chiunque avrebbe aperto il portello ermetico della struttura, umanoide o mostro che fosse, non importava. Non c’era scelta, tra la morte e qualunque cosa. Qualunque cosa.
Accadde però una cosa che Boris non aveva previsto. La musica si interruppe. Il modulato suono emesso dalle onde radio captate si fermò e il silenzio tornò a regnare all’interno della struttura. Boris si levò di colpo e controllò i sensori. Niente più segnale. Niente più onde radio da raccogliere nell’etere e decifrare. Nessun numero a scorrere sullo schermo in quella sequenza intelligente. Solo silenzio. Il vuoto. Chiunque aveva lanciato il segnale ora si era fermato. Aveva trasmesso per non più di una ventina di minuti e ora si era interrotto.
Boris non ebbe il tempo di chiedersi che cosa fosse successo, per quale ragione il segnale si fosse troncato, quale significato potesse avere quel nuovo silenzio. La cosa lo colse completamente all’improvviso. Inaspettata e incredibile. Tanto da fa vacillare la mente gà sovraeccitata di Boris.
Una palla di luce. Perfettamente sferica, lì, all’improvviso in mezzo alla struttura. Comparsa così, dal nulla. Di fronte a lui. La fissava con gli occhi sgranati e la bocca aperta.
La sfera rimase immobile per un lungo, interminabile, eterno secondo. Poi si mosse, si trasformò, mutò. Lentamente si estese, sino a formare una patina sottile grande quanto la struttura. Un’evanescente, microscopica, lastra di luce, a dividere la stanza in due blocchi. Identici. La lamina si mosse, lentamente. Si spostò dalla parte opposta a dove stava Boris sino alla parete in fondo. Poi tornò al centro. Ancora un attimo ferma. Come a voler computare, digerire, le informazioni che aveva raccolto al suo passaggio (l’altra parte della branda, la metà dello scaffale con i manuali e la dispensa dei contenitori del concentrato proteico). Si mosse nuovamente. Questa volta verso Boris e verso l’altra metà della struttura. Pigramente. Boris non si mosse. Dove sarebbe potuto fuggire? Dove scappare in uno spazio grande un paio di metri quadrati? La luce lo attraversò senza provocargli alcuna sensazione particolare, arrivò sino in fondo alla parete, analizzò (o qualunque altra cosa fece) la console di comando e di ricezione e ritornò al centro della stanza. Al punto da cui era partita. Qui si ritrasformò con una specie di guizzo repentino nella sfera di luce e, così come era apparsa, scomparve. All’improvviso.
Boris restò ammutolito, incapace di comprendere ciò che era successo, sovrastato dalla assurdità, dall’enormità, di ciò che aveva vissuto. Un contatto. Una razza aliena, qualcuno o qualcosa fuori di lì aveva scandagliato e esaminato la struttura autoreciclante, lui stesso, ogni cosa. Per quale motivo? Era un esame? Una prova? Una forma aliena di curiosità? Di tutela? Volevano sapere chi stava disturbando il loro etere con messaggi radio di sequenza numeriche intelliggibili? Cosa era accaduto? Perché?
Ancora domande. Ma ancora una volta non gli diedero il tempo di formularle con chiarezza e ad alta voce. Un suono metallico dalla consolle di ricezione. Di nuovo. Le antenne stavano ricevendo un segnale radio. Lo captarono, lo convertirono in suono e lo tradussero.
Quattro identici, scanditi beep. Beep – Beep – Beep – Beep. E sullo schermo comparve l’immediata traduzione di un linguaggio matematico e binario che era davvero universale. Oltre lo spazio, oltre le diversità biologiche, l’on/off, l’acceso spento, il si/no, rappresentava la via di una comunicazione teoricamente possibile. Sullo schermo apparve la traduzione numerica di quei beep. Quatto numeri identici. Un solo significato. 0 – 0 – 0 – 0. Una scritta: - RESULT: 0.
E poi più nulla.

Boris restò ad attendere, davanti alla console, un suono, un beep. Qualunque cosa. Attese che quel chiunque che aveva inviato il segnale tornasse a farlo, che lo liberasse da quella prigione, lo tirasse fuori, che lo riportasse trionfante sulla Terra, da quelli stronzi della F.P.C e dalle sue amate puttane.
Quel chiunque non trasmise più nulla.
E Boris restò in piedi ad aspettare un segnale che non sarebbe mai più arrivato mentre la cometa su cui viaggiava proseguiva il suo cammino nello spazio cosmico.


Logos
26/08/2006

22 agosto 2006

Il senso del mondo

Il senso del mondo
(dalle "Cronache del Signor Jacopus B.)

Una mattina di un freddo novembre di qualche anno fa Jacopus B. scoprì che il mondo non aveva senso. A dire il vero lo aveva sempre sospettato ma solo quel giorno ne ebbe l’assoluta certezza. Tutto gli fu evidente, ogni cosa andò al suo posto e per la prima volta vide chiaramente che tutta la realtà che lo circondava era semplicemente assurda. Volse lo sguardo intorno a sé e, quasi magicamente, tutte le domande che si era posto sul senso della vita, sui perché e i percome dell’esistenza, dell’essere e di ogni altra cosa trovarono la loro semplice, immediata, manifesta risposta. Fu come se Jacopus B. si fosse svegliato per la prima volta in vita sua e, aprendo gli occhi al mondo, come un mugugnante neonato, avesse visto. E ciò che vide non lo sorprese neppure molto.
Ma non affrettiamo troppo, una storia come quella di Jacopus B. merita di essere raccontata, magari senza entrare troppo nei dettagli e non annoiando il povero lettore ma di certo non può essere ignorata dal narratore.
Stavamo dicendo che in una fredda mattina di un novembre di qualche anno fa il signor Jacopus B. (l’anonimato è qui necessario per proteggere la riservatezza del nostro protagonista) ebbe un’intuizione. In realtà molti dubitano che si tratti davvero di un’intuizione, c’è chi parla piuttosto di una visione, un’epifania sospesa tra il magico e il religioso, chi, invece, parla di effetti secondari (e immagino sgraditi) di qualche sostanza stupefacente non meglio identificata, chi ancora di una sorta di miracolosa autoevoluzione delle facoltà percettive e intellettive del signor Jacopus B. che gli permisero di vedere ciò che agli altri esseri umani non è dato vedere e capire.
Su questa questione, io che sono il narratore onnisciente e in quanto tale dovrei sapere ogni cosa, mi riservo di mantenere la mia opinione. Non è affatto importante sapere quali furono i motivi che consentirono al nostro protagonista di vedere oltre, magia, evoluzione, visioni, ecc. ciò che importa è che il signor Jacopus B. vide (in realtà il lettore più smaliziato avrà già intuito quali sono le convinzioni di un narratore che racconta di un mondo insensato e assurdo).
Ma non divaghiamo. I fatti in questo caso sono importanti tanto quanto i ragionamenti e le intuizioni che da essi scaturirono.
Il signor Jacopus B. quella mattina, come quasi ogni mattina della sua vita, si era alzato di buon ora, si era fatto una rapida doccia bollente per scacciar via dalle ossa l’umidità della notte e del suo piccolo appartamento, si era concesso un’abbondante colazione e, vestitosi, era uscito.
La destinazione era la medesima di sempre: il teatro della città. Il signor Jacopus B. era un attore. Oh, non di certo un grande interprete e un grande calpestatore di palcoscenici del mondo. No, potremmo forse dire meglio che il signor Jacopus B. era una comparsa, un interprete di personaggi minori. Nella, seppur lunga, carriera del nostro protagonista si ricordano si e no tre o quattro ruoli degni di nota: uno Jago, un Orazio e anche un Caligola. Ma furono soprattutto i personaggi minori ad essere interpretati con maggior frequenza dal nostro protagonista. E non si creda che sia più facile impersonificare un Rosencrantz rispetto ad un Amleto, o un Creonte rispetto ad un Edipo! Per poter entrare in questi personaggi secondari l’attore deve fare un sforzo notevole, un lavoro di caratterizzazione ulteriore, deve riuscire, dalle poche o pochissime battute assegnate dall’autore, a capire come il personaggio pensa, come si muove, come vive la vicenda e come in essa si inserisce. E’ proprio nella parti minori che l’attore mette più arte drammatica, più sforzo, più riflessione.
Una volta, parlando con un collega il signor Jacopus B. tentò di spiegare questa difficoltà avvalendosi di una metafora:
- Per me è più difficile. Cerca di immaginare, io sono come una sorta di archeologo che ha pochi frammenti di una pergamena o di un papiro su cui restano confuse scritte di una lingua non perfettamente decifrata e da questo poco materiale devo trarre il senso e il significato dello scritto. Devo dire cosa l’autore ha voluto trasmettere, comunicare. Mentre tu, mio caro amico, che interpreti sempre i grandi personaggi sei facilitato. Tu hai di fronte un libro fresco di stampa, con le note a piè di pagina e non devi far altro che leggerlo per capirlo. Certo, il testo potrà essere difficile, ma almeno tu un testo completo ce l’hai! Io neppure quello. Capisci allora che io devo mettere tutto me stesso per cercare di intuire il senso, il messaggio di quello scritto frammentato che ho fra le mani. Io quando recito sono costretto a creare, ad immaginare, a mettere tutto il me stesso possibile nel dare al personaggio un senso, un ruolo, un significato plausibile all’interno del dramma rappresentato sul palcoscenico.
Abbiamo voluto riportare questo particolare aspetto della vita del signor Jacopus B. per mostrare come in lui la ricerca di un senso e di un significato fosse una sorta di deformazione professionale e che, quindi, non deve stupire se anche per ciò che lo circondava, il mondo appunto, mettesse in campo questo meccanismo di attribuzione (o tentativo di attribuzione) di senso.
Vorrei quindi, credo che sia doveroso, tranquillizzare il lettore, non tema di giungere un giorno alla stessa assoluta, limpida certezza del nostro protagonista, si pasci delle sue tranquille e godibili illusioni. Non verrà per caso, all’improvviso la rivelazione che ha colpito il signor Jacopus B. Essa colpisce solo chi ad un certo punto della propria vita (chissà perché poi?) si pone una domanda laddove tutti gli altri hanno certezze. Si interroga su ciò che per tutti gli altri è manifesta verità.
Si dice che vi siano della categorie più predisposte a questa deriva dubbiosa, i filosofi, gli attori, i comandanti di eserciti e i seduttori ma aldilà di queste tipologie vi è senza dubbio un qualche gene mutato o un germe di follia nell’uomo che ad un certo punto della sua vita, fissando un albero in fiore, ha come principale reazione quella di chiedersi perché? Quella di interrogarsi sul senso di quella cosa di fronte a lui. E difatti, mio caro lettore, come ben saprai, tu che vivi nella cieca felicità delle certezze, l’uomo che si interroga (non importa se giunga ad una rivelazione oppure no) è un uomo triste, solo, spesso disperato, forse malato ma senza alcun dubbio messo ai margini della società e, semplicemente, ignorato.
E così era di certo il nostro signor Jacopus B.
Viveva solo in un piccolo appartamento all’ultimo piano di una vecchia casa semidiroccata. La pioggia e l’umidità disegnavano sulle pareti strani ghirigori e inconsuete forme, le tubature perdevano e le moderne invenzioni tecnologiche (dal telefono in poi) erano lussi che in quelle stanze non erano mai entrati. Ma al signor Jacopus B. andava tutto sommato bene così. Il suo unico intrattenimento era una vecchia radio, una montagna di libri e le sue tragedie. In questo caso la parola tragedia ci viene in soccorso per descrivere un po’ meglio il nostro protagonista. Il linguaggio dell’uomo è cosa meravigliosa, dice e non dice allo stesso tempo, significa una cosa e al contempo ne significa un’altra, tanto da non sapere più a cosa ci stavamo riferendo, all’una, all’altra? O forse ad entrambe?
In questo caso la parola tragedia vogliamo intenderla nei due suoi significati principali: da una lato nel senso di dramma rappresentato su di un palcoscenico, dall’altro di vicenda triste, dolorosa, disperante.
Il signor Jacopus B. viveva in compagnia della tragedia. Da un lato passava le giornate a recitare, studiare, leggere i vari drammi che per lavoro o per diletto gli capitavano tra le mani, dall’altro si pasciava di un antico ricordo doloroso che, insanamente, cullava e coltivava dentro le tortuose vie della sua memoria e della sua coscienza. Ma di questo dramma preferiamo non dir nulla, ogni lettore saprà di certo che di alcune cose è meglio tacere e lasciare che il dolore resti cosa personale.
Il signor Jacopus B. non era sposato e non era neppure fidanzato, la sua vita sociale era ridotta così a minimi termini che spesso si accorgeva di essersi dimenticato del suo compleanno senza che nessun altro avesse fatto lo sforzo di ricordarglielo, inviandogli gli auguri.
Si associa spesso la solitudine alla tristezza, come se fosse naturale e necessario che un uomo (o una donna) solo sia anche un uomo triste. Il signor Jacopus B. non era certo un uomo triste (a parte quella piccola parte di coscienza in cui albergava un antico ricordo), parlando di lui con i suoi colleghi di teatro emerge la figura di un uomo spiritoso, dalla mente acuta, pronto alla battuta mordace e mai volgare. C’è chi lo descrive come riservato, chi come pacato e paziente, chi come semplicemente distaccato.
E’ difficile dire quale fosse la caratteristica emergente, peculiare del nostro protagonista, ciò che però più di ogni altra cosa lo definiva (e faceva si che, a volte, fosse ritenuto un po’ strano) era il suo sguardo. Gli occhi spesso indugiavano intorno fissando un qualche non ben precisato punto fra l’orizzonte e la persona con cui stava parlando e in quel punto si perdevano. Dava l’impressione il signor Jacopus B. in quei momenti di smarrirsi nella contemplazione di un qualche mondo, di uno strano paesaggio che solo lui poteva vedere, come se i suoi occhi potessero guardare cose agli altri precluse.
A noi piace pensare che più che una strana follia che colpiva il nostro protagonista, più che una sorta di delirio allucinatorio si trattasse di una sorta di intenzione, di proposito, di intento. Come se quel volersi abbandonarsi in un punto imprecisato verso l’orizzonte fosse il tentativo costante e continuo da parte del signor Jacopus B. di vedere l’oltre. Un oltre che di certo non intendeva come una sorta di mondo fantastico aldilà del velo di Maya, abitato da creature fantastiche, fate, draghi, principesse ed orchi ma semplicemente di vedere oltre la trama del reale e di scorgere la sorgente da cui si irraggia il mondo intorno. Jacopus B. cercava quello strappo nell’ordito della trama del reale da cui sbirciare oltre e vedere ciò che stava dietro.
A questo proposito, uno degli episodi più curiosi della vita del nostro protagonista accadde in un museo della città; in quei giorni vi era ospitata una mostra itinerante dedicata ad un artista piuttosto noto.
Molte erano le opere esposte: quadri, sculture, disegni. Tuttavia fu una di esse in particolare ad attrarre l’attenzione del nostro protagonista. Il quadro era a dir poco semplice: una tela dipinta di un rosso sangue al cui centro spiccava un taglio. Uno squarcio. Una ferita da cui emergeva l’ombra, il nero che stava dietro il dipinto. Un invito, forse, a prendere i lembi della fessura e spalancarli per poter vedere oltre. Il signor Jacopus B. non conosceva questo, seppur noto, artista. Era andato alla mostra più che altro per ingannare il tempo in quel pomeriggio afoso di un’estate interminabile ma non appena giunse di fronte a quadro ebbe un sobbalzo. Lo vediamo sgranare gli occhi, emettere un sorpreso Toh! e rimanere imbambolato di fronte alla tela. Come il lettore avrà già intuito il signor Jacopus B. era un tipo tranquillo, non avvezzo a comportamenti eccessivi ed esagerati. Quella volta però si smentì. Arrivato di fronte all’opera, dopo un primo momento di sorpresa, rimase a contemplare il quadro come ipnotizzato, mesmerizzato dal potere misterioso dell’arte, restò per più di due ore fisso, immobile, cementizzato di fronte alla tela, tanto che gli altri sparuti visitatori dovettero desistere dal guardare il quadro che era, di fatto, colonizzato dal nostro signor Jacopus B.
Ma la cosa strana dovette succedere a cinque minuti dalla chiusura della mostra, gli inservienti del museo, già fissavano preoccupati quel bizzarro signore che si era mummificato di fronte a quel quadro, si scambiavano occhiate terrorizzate per decidere chi sarebbe stato il prescelto per andare a scuotere (svegliare?) quel tizio. Quando all’improvviso, il signor Jacopus B. alzò le mani, volse lo sguardo al cielo (al soffitto sarebbe meglio dire) e poi si mise ad urlare. All’inizio fu un suono disarticolato, un grido liberatorio proveniente dai meandri di una memoria ancestrale viva, come retaggio di un passato animalesco, in tutti gli esseri umani. Poi l’urlo si modulò in qualcosa di più intelligibile, finché non furono facilmente riconoscibili le parole, ossessivamente ripetute - Non sono il solo! Non sono il solo!
Dovettero trascinarlo via di peso e a forza, mentre continuava a gridare di non essere il solo (a far che cosa loro di certo non potevano saperlo, noi ora lo possiamo intuire, mio paziente lettore). L’episodio, per fortuna, finì per passare inosservato: la direzione del museo non sporse denuncia, consapevole che i musei sono luoghi che, chissà per quale motivo, attirano i matti di tutti generi ma fu comunque vietato al signor Jacopus B. di mettere piede di nuovo nelle sale del museo. Il nostro protagonista ne fu molto dispiaciuto perché, sebbene non fosse un intenditore, l’arte lo aveva sempre affascinato e passare le giornate a vedere mostre era un buon modo di far passare il tempo (e, ma questo non lo avrebbe mai ammesso, di tributare una ricordo, una sorta di celebrazione cultuale della memoria di una persona).
Si chiese più volte il signor Jacopus B. che cosa gli fosse preso e molti gli fecero questa domanda, lui rispose sempre che era stato un momento di pazzia, forse dovuto alla stanchezza o allo stress di un personaggio difficile che aveva da interpretare, ma in cuor suo sapeva che erano banali scuse e la vera motivazione era una sola, semplice e chiara. In quella tela aveva per la prima volta in vita sua capito che i pensieri, i dubbi, le domande, i perché, i percome, i ma, i se, i però, i forse, le incertezze che avevano trovato dentro la sua mente territorio fertile per attecchire e prosperare non erano solo sue, ma vi era qualcun altro nel mondo che ne sopportava il peso e, forse allora non era così pazzo come a volte credeva quando la sera si addormentava tra pensieri e ansie. C’era qualcun altro nel mondo che si chiedeva cosa vi fosse dietro lo schermo su cui veniva proiettato il mondo. E per quello stano meccanismo della mente umana il saper di non essere i soli a portare un peso, a soffrire di un male, a piangere lacrime rende tutto meno doloroso; nella condivisione vi è una compassione reciproca che è, senza alcun dubbio, un mutuo sostegno e soccorso.
Dopo l’episodio del museo la vita del signor Jacopus B. cambiò, anche se in modo quasi impercettibile, tanto che solo le poche, pochissime persone a lui vicine se ne accorsero. Di questo cambiamento ne fu particolare testimone una sua collega. Era nella compagnia da non molto tempo, indubbiamente molto brava e molto dotata per l’arte drammatica ma sfortunatamente ancora senza grande esperienza e questo la costringeva ad accettare ruoli marginali che, oltre a sminuire il suo talento, non le consentivano di percepire uno stipendio onorevole. Si sa che gi attori vengono ben poco pagati e che la loro professione è tra le più insicure e precarie che vi siano, tuttavia dopo anni di onorata carriera un attore riusciva a raggiungere uno stipendio degno di questo nome e così campare decorosamente, almeno così era per il signor Jacopus B. I giovani attori e le giovani attrici, sfortunatamente, dovevano però pagare il prezzo di una crisi generalizzata del teatro; era un dato di fatto ma ormai la gente non andava più molto a teatro, preferendo forme di intrattenimento differenti, dal cinema in poi. Così un giovane attore era costretto ad accettare stipendi bassi, a volte vergognosamente bassi, pur di poter continuare a lavorare nel teatro seguendo i propri sogni e le proprie aspirazioni. Ebbene, questa collega del signor Jacopus B., che per comodità chiameremo L., nella busta di fine mese trovava davvero ben poche banconote e, naturalmente, se ne doleva. Sarebbe però scorretto raccontare di questa collega del nostro protagonista solo per le sue lamentele economiche, il signor Jacopus B. si era affezionato a questa giovane attrice e l’aveva molto a cuore. Caso vuole che L. e il signor Jacopus B. per rientrare dal teatro alle rispettive dimore, facessero un tratto di strada insieme e durante quella breve mezz’ora si scambiassero impressioni sui colleghi, sulle recite in programma e un po’ su tutto il resto. Il signor Jacopus B. era sempre molto attento e ascoltava con grande curiosità i progetti di matrimonio della giovane collega con un ragazzo di provincia, gran lavoratore, che aveva avuto il coraggio di chiederla in sposa, nonostante le loro finanze (mala tempora!) non fossero proprio rosee. Il nostro protagonista ammirava il coraggio e la determinazione alla vita di questa giovane collega e del suo fidanzato, chiedendosi se lui una così grande voglia di vivere l’avesse mai avuta. E poi tornava indietro col pensiero, ricordava. Ma subito ne fuggiva, troppo dolorose quelle lande da percorrere, abitate ancora da creature mostruose e tremende, pronte a ghermirlo e ad avvolgerlo nelle spire di un sofferenza folle. Volgeva lo sguardo oltre allora il signor Jacopus B., guardava davanti a sé, osservava il mondo, se ne interrogava, come se questa spinta di cui continuiamo a dire non fosse altro che una estrema, forse vana, fuga da qualcosa rinchiuso dentro di sé che non riusciva ad affrontare e a vincere.
L’amicizia fra il signor J. E la giovane L. crebbe e si consolidò, tanto che, a volte, il nostro protagonista, solitamente chiuso e riservato, si lasciva sfuggire qualche riflessione personale, qualche considerazione di sé che mai prima avrebbe osato pronunciare. Fu proprio dopo quello strano episodio al museo, circa una paio di mesi dopo, che il signor Jacopus B. in un momento di particolare confidenza con la giovane L. si lasciò scappare una frase che da subito apparve quantomeno sibillina: - Comincio a vedere. A volte con la coda dell’occhio mi sembra di cogliere un movimento repentino, come di un ombra che si spostasse al limitare del mio sguardo. Mi volto per afferrarla ma non riesco ancora a coglierla. So, ne sono ormai certo, che c’è. E’ lì ad attendermi. Non sono ancora completamente pronto ma lo sarò presto. E’ come quel quadro, la realtà si sta squarciando e piano ciò che vi sta dietro sta emergendo e fra poco lo potrò vedere. Mi sono documentato, ho letto molti libri in questi mesi, ho fatto delle ricerche fra i maggiori pensatori della storia, alcuni osannati, altri ritenuti dei folli. Credo che qualcun altro abbia visto, qualcuno probabilmente ha frainteso ciò che sta oltre, ciò che sta aldilà. Sono certo che uno scrittore americano ha visto oltre la ferita della realtà ma si è autosuggestionato e nell’ombra e nel buio ha immaginato, creato direi, un pantheon di creature e divinità bizzarre provenienti dagli eoni della storia dell’universo, ma non è questo ciò che sta oltre, ne sono certo. Sarebbe troppo semplice,troppo… romanzesco. Dietro il velo del reale non vi può essere un’altra realtà, simile a questa anche se deformata e maligna, infinitamente maligna. Dietro la patina di questo – e così facendo distese le braccia a comprendere ciò che lo circondava – vi deve essere la risposta. Si, la risposta finale a tutto. Quanto mi piacerebbe che fosse la parola. La singola parola in grado di rappresentare, di dire, di significare ogni cosa. E nel farlo donare la comprensione. Ma di questo non ne sono ancora certo.
L. fissò il signor Jacopus B. con fare stranito. Non comprese (e come avrebbe potuto?) le strane parole pronunciate da quel suo simpatico e affettuoso collega. Diremmo anzi che si preoccupò e che forse cominciò a dar credito alle voci che volevano le rotelle del nostro protagonista non completamente a posto, un po’ fuori fase. Trovò il coraggio di rispondere semplicemente – Ma cosa stai dicendo Jacopus, spiegati meglio.
Ma il signor Jacopus B. restò chiuso in un mutismo assoluto per tutta la durata del viaggio verso casa e il giorno seguente si comportò come se nulla fosse successo. L. non fece parola con nessuno delle farneticazioni (così lei le giudicò) del signor Jacopus B. ma in cuor suo serbò il dubbio e il timore che qualcosa non andasse in quel suo caro collega.
E fatti successivi non la smentirono.
Ma non affrettiamo le cose e procediamo con quel minimo di ordine che la narrazione impone.
Siamo ormai a poche settimane da quel fatidico giorno di novembre di qualche anno fa, data in cui il nostro signor Jacopus B. scoprì che il mondo intorno a lui (e intorno a tutti noi) non aveva alcun senso. Ma prima di arrivare a quella mattina e tutti i fatti che ne conseguirono, ci resta ancora qualcosa da raccontare. Non certo per il gusto della curiosità morbosa che a volte assale il narratore e che gli impone di dire tutto, anche quello che non importa e non riguarda lo scopo della narrazione, del suo protagonista. Noi vogliamo semplicemente dare ancora qualche altro indizio, qualche dato in più per capire il signor Jacopus B. e per rendere la sua vicenda chiara e limpida agli occhi del lettore.
Il bravo narratore a questo punto si sarebbe dedicato ad una sorta di rapido riassunto, riepilogando e tornando sui fatti e sulle considerazioni salienti sino ad ora emerse. Un modo per scrostare tutto ciò che nella narrazione è superfluo e lasciare solo quelle due e tre cose che sono effettivamente necessarie per il racconto. Noi questa operazione non vogliamo farla, non saremo noi a dare le dritte per attribuire un significato ed un senso a questo breve resoconto. Vorremmo che fosse il lettore, con le sue specifiche peculiarità, le sue valutazioni, il suo vissuto a dire ciò che questo scritto vuol dire. Badate bene! Non ciò che il narratore voleva intendere (di lui, consentitemi, non curatevi e dimenticatelo presto) ma ciò che l’insieme, più o meno caotico, delle parole, delle frasi e dei periodi che state leggendo significano. Non è il narratore il depositario del Senso (la maiuscola è voluta) di queste macchie d’inchiostro sulla carta ma è il singolo lettore che ne coglie un significato (uno fra gli infiniti possibili) plasmando una sorta di personale amalgama fra sé stesso e il contenuto. Il modo di cogliere ciò che è scritto, il modo di farlo proprio, di categorizzarlo, di masticarlo, di digerirlo è un’operazione che compete al solo lettore e di cui il narratore (bontà sua) non c’entra nulla. Ipotizziamo che questa cronaca, una volta completata, verrà letta da tre o quattro persone (ammettiamo una certa immodestia in questa stima), è facile ora immaginare che ogni lettore, approcciandosi al teso con tutto sé stesso ne coglierà, ne creerà, ne farà emergere un significato suo proprio che sarà differente, forse completamente differente, da quello di un altro lettore. Potemmo anche proseguire su questa via, se è vero che il senso nasce dalla fusione (una sorta di impasto ben amalgamato) fra il fruitore e le parole del testo, allora potremmo ipotizzare un passo ulteriore. Se un senso emerge (ed emerge sempre) questo andrà ad inserirsi nella riflessione della persona che l’ha colto. E inserendosi in essa non potrà che apportare delle modifiche alla persona stessa che risulterà arricchita, o impoverita, da ciò che ha letto. Questo tanto da farci dire che una volta letta questa cronaca il lettore non sarà più la stessa persona. Ma sarà stato modificato (in meglio o in peggio io non lo ipotizzo) da queste parole che impresse sulla carta. Se, allora, sarà una persona nuova e, insanamente, deciderà di tornare a rileggere questa strana cronaca innesterà il medesimo meccanismo di fusione creatrice: tutto sè stesso e il testo mescolati insieme. Ma il lettore sarà qualcuno di diverso, di nuovo, di accresciuto rispetto alla prima lettura e allora ciò che ne risulterà sarà un significato ancora nuovo, differente dal precedente. Un ulteriore significato che ancora una volta si inserirà nella riflessione del lettore modificandolo, cambiandolo. Credo che ha questo punto sia facile immaginare che se il fruitore dovesse, ancora più insanamente, ritornare a queste pagine per la terza volta il meccanismo sarebbe il medesimo. Nuova lettura, nuovo significato, nuova persona e così via. Ad ogni lettura un senso nuovo. Ad ogni lettura una persona nuova. E il narratore in tutto questo non c’entra nulla. Resta a guardare, sperando che le sue parole, in qualunque modo verranno lette e interpretate, non creeranno cattive persone.
Dopo aver chiarito quanto poco conti chi passa le sue giornate ad osservare ciò che gli accade intorno per trovare spunti con cui occupare il resto del suo tempo con una penna in mano, imbrattandosi le mani di inchiostro, possiamo procedere nel raccontare altri particolari del cammino che portarono il signor Jacopus B. alla sua fantasmagorica scoperta.
Vi sono alcuni altri aspetti della vita del signor Jacopus B. che meritano di essere riportati in questa cronaca e vorremmo chiedere l’attenzione del lettore ancora per un po’.
Per comprendere meglio la natura della scoperta del nostro protagonista credo che sarà doveroso compiere un breve viaggio, una breve trasferta e giungere al suo appartamento, sbirciando fra le sue cose e i suoi averi per osservare quelle famose ricerche di cui il signor Jacopus B. accennava con la sua collega.
In punta di piedi dovremmo salire le scale del vecchio condominio per non disturbare gi altri inquilini e, silenziosamente, entreremmo nelle piccole stanze che compongono la casa del nostro protagonista.
Non sarà necessario soffermarci sulle dimensioni ridotte o sulla semplicità dell’appartamento, ognuno vive secondo le proprie possibilità economiche e sui propri bisogni: un uomo solo, riservato e modesto, non necessita certo di una reggia o di una villa.
Vorremmo, invece, invitare il lettore a far scorrere lo sguardo sulle mensole e sull’ampio tavolo al centro dell’appartamento per osservare i fogli e i libri lì appoggiati. Approfitteremmo per questa nostra visita dell’assenza del nostro protagonista, impegnato nelle prove di una tragedia di un drammaturgo norvegese, che dovrebbe protrarsi ancora per alcune ore. Potremmo compiere questa nostra visita allora con tutta la calma necessaria, soffermandoci sui particolari importanti che queste disordinate stanze offrono.
Scorrendo la camera principale si potrà notare al centro un grande tavolo rotondo sormontato da una montagna di libri e da un’infinità di carte pasticciate. Volendo potremmo concentrare la nostra attenzione sui titoli dei libri accatastati alla bell’e meglio a formare una specie di piramide, apparentemente molto instabile. Dubito, tuttavia, che anche il lettore più acculturato, divoratore di libri e topo di biblioteca potrebbe riconoscere qualche titolo o qualche autore. Per esempio, prendiamo quel volume piccolo che sembra pendere in precario equilibrio dalla pila di libri, sfilandolo con attenzione senza far cadere tutto il resto, potremmo osservare che è una raccolta di poesie di un poeta sconosciuto e anche il titolo ci direbbe ben poco: “Anacronismi”, tuttavia aprendolo e sfogliandolo lo vedremmo sottolineato, appuntato, annotato dalla calligrafia minuta e scarsamente comprensibile del signor Jacopus B., tanto da farci supporre che si tratti di un testo importante per la sua ricerca. Un testo da noi però ignorato. O ancora se osservassimo meglio il libro che giace aperto nell’unico spazio libero del tavolo e, che già da qui vediamo martoriato da scritte e strani simboli, scopriremmo che si tratta di un trattatelo di filosofia scritto da un autore dal nome tedesco o austriaco il cui titolo non lascia presagire una facile lettura: “Sulla non conformità della natura umana ovvero il solipsismo gnoseologico”. Qualche dubbio sulla natura e sugli esiti della ricerca credo che cominci ad attraversare la mente del nostro paziente lettore, tuttavia non affretti i tempi, se già ora nutre delle perplessità, queste saranno rafforzate dai vari fogli sparsi presenti sul tavolo, per terra, sulle mensole e persino nel bagno del piccolo appartamento.
Prendiamone uno a caso e cerchiamo di scorgervi qualcosa di intelliggibile. Ancora la fitta scrittura del nostro protagonista, pressoché indecifrabile, troviamo solo una frase, ripetuta due volte e scritta in stampatello che ci consente una seppur minima interpretazione: E’ PROSSIMA – E’ PROSSIMA, e poi ancora frasi fitte, quasi una sopra l’altra, numeri e simboli, strani intrecci di linee, arabeschi di schemi, scheletri di reticoli esplicativi. Nulla che abbia un qualche senso condivisibile, come se la ricerca del signor Jacopus B. fosse personalissima, in qualche modo unica e non trasmissibile, come se dalla stesse fonti ai primi risultati, alle analisi compiute il percorso fosse proprio, assolutamente specifico di quella persona che lo affronta, come se questa ricerca non fosse commutabile ad altri ma si realizzasse in modalità e strade esclusivamente esplorate dal ricercatore stesso.
Il signor Jacopus B. per chissà quale strana ragione, sta compiendo la sua ricerca seguendo questo schema ma uno qualunque di voi lettori avrebbe certamente seguito vie differenti che avrebbero, di certo, prodotto risultati altrettanto vaneggianti, folli ed incomprensibili.
Non credo vi sia molto altro da vedere nell’appartamento del nostro protagonista, ancora una rapida occhiata al disordine e alla mole di libri sparsi un po’ dovunque, ai fogli di appunti che giacciono, come colombe deturpate, sul pavimento impolverato, la cucina, scarna e apparentemente poco utilizzata, la camera da letto, copia in piccolo del caos del salotto ma qui, attento lettore, noteresti un particolare nuovo, differente, inaspettato. Nella confusione che sembra regnare incontrastata, beffarda di ogni tentativo di ordine e armonia, noteresti un piccolo angolo, là, raccolto in un angolo della scrivania. Lì sembra quasi che lo stesso disordine abbia paura ad avventurarsi e rimanga a debita distanza, come se si trattasse di una zona tabù o forse incontaminata. Al centro di quel piccolo spazio, non più largo di una cinquantina di centimetri di diametro, un portafoto, la foggia semplice, un delicato bordo color amaranto, forse di legno o di plastica che imita il legno e all’interno una fotografia. La fotografia, ingiallita, raffigura un paesaggio marino, un cielo ormai di uno sbiadito color seppia che si confonde con la tinta giallognola di una mare che, probabilmente, una volta era di un blu vivo e possente. Tra il cielo e il mare, in piedi su una piccola altura, una donna. Il volto sorridente, i lunghi capelli corvini mossi da un vento bizzoso e capriccioso, gli occhi allegri anche se quasi cancellati dal tempo che si è abbattuto impietoso sulla pellicola. La donna con una mano tenta di riportare all’ordine i capelli impazziti nel vento, e con l’altra lancia un cenno un saluto o forse qualcosa di più profondo, all’improvvisato fotografo.
Quel portafoto e la fotografia che custodisce sono l’unico, l’ultimo angolo di ordine ed armonia nel caos di tutto quell’appartamento e della ricerca del signor Jacopus B. Ma ora, vi prego, allontaniamoci, lasciamo che quel luogo resti cosa personale del nostro protagonista, lasciamo che quella specie di altare eretto a memoria e a celebrazione del dolore di un antico ricordo resti inviolato anche ai nostri occhi troppo curiosi. Non profaniamo oltre questo luogo.
Questa breve scorribanda nelle stanze dell’appartamento del signor Jacopus B. ci ha permesso di fornire alcune (e forse anche troppe) informazioni sulla sua ricerca, ne è emerso il carattere unico, specifico, assolutamente irriproducibile e ci ha mostrato come l’impegno che ad un certo punto il nostro protagonista mise in questa sua missione fu molto, tanto da costringerlo ad abbandonare l’ordine a cui un tempo era così legato e a dedicarsi anima e corpo nel carpire astrusi segreti celati chissà dove.
Sperava il signor Jacopus B. di poter giungere alla soluzione dell’enigma, l’enigma supremo, attraverso il ragionamento, la lettura e lo studio, svolgendo questa ricerca con la sua arte più alta, più importante: l’intelletto, come se si trattasse di un qualche problema logico o matematico che andava risolto. Dava l’impressione, il signor Jacopus B., di approcciarsi a questa ricerca in modo non dissimile da chi affronta un rebus o un qualunque altro gioco enigmistico che ogni settimana viene proposto dalla famosa rivista. Studio, metodo, impegno, costanza e il risultato arriva. Una sorta di ricetta per una torta, basta seguire fedelmente i passi indicati e l’esito non potrà che essere goloso e gustoso. Certo il signor Jacopus B. applicava una ricetta che si era, come visto, creato da solo, ne aveva scritto i passaggi e gli ingredienti; una ricetta ermetica, potremo dire, di cui solo era il solo a possedere la chiave di lettura, ma pur sempre un percorso a tappe definite, un cammino stabilito, come se già nel primo passo vi fosse la soluzione. Sembrava che il signor Jacopus B., in fondo in fondo, sapesse già quale era la soluzione che cercava, quale era la scoperta che doveva ancora compiere e avesse creato così un itinerario per arrivare sin là.
Ormai la nostra narrazione è andata avanti molto e qualche anticipazione possiamo lasciarla emergere, sicuri che il buon lettore a questo punto della cronaca qualche idea precisa se la sarà pur fatta. Il signor Jacopus B. si sbagliava. Forse non lo avrebbe ammesso, ma di certo tutto il meccanismo di studio, lettura, approfondimento messo in campo per giungere a conoscere il senso del mondo nasceva dalla profonda convinzione che da qualche parte, nascosto dietro le tende, sotto un cumulo di macerie diroccate, fra le pagine di qualche polveroso tomo un significato ci fosse. In cuor suo serbava questa grande, enorme, accecante speranza e, seguendola, si comportava come se quel senso esistesse davvero e lui, tutto sommato, lo avesse già intuito o l’avesse proprio lì, a portata di mano. Si comportava in quel modo, il signor Jacopus B. perché desiderava con tutto sé stesso che un senso ci fosse e, se doveva esistere, allora l’unico modo per scoprirlo era quello: studiare, applicarsi, seguire un metodo. Ma era una speranza, era una semplice illusione. Siamo certi (concedeteci questa certezza da narratore onnisciente) che nei momenti di lucidità, quando la mente non è impastoiata alle redini di una felicità sognata, sperata, desiderata ma quando si staglia libera nella sua tagliente disperazione, nella lucente freddezza della consapevolezza triste e solitaria, in quei momenti, siamo certi, il signor Jacopus B. sapeva che si sbagliava, ne era consapevole, sicuro. Ma nonostante questa luminosa evidenza preferiva continuare ad illudersi, ad ingannarsi, coscientemente vinto da una malafede che era una menzogna, una fandonia che però gli consentiva di continuare a vivere come se la felicità fosse possibile, come se là in fondo un senso lo attendesse, un senso che potesse attribuire alla sua vita, al mondo, alla realtà, al suo dolore, ai suoi fallimenti e finalmente convincersi che una ragione c’era per tutto. Il signor Jacopus B. si ingannava, lo faceva ogni giorno alzandosi dal letto e ogni sera coricandosi, sinchè, una mattina di una freddo novembre mentre era seduto sulle panche scomode di un tram che lo portava al teatro non riuscì più ad ingannarsi e aprì gli occhi a guardare il mondo, gli altri e anche sé stesso. E non si mentì.
Quella mattina fece la scoperta, non dovette far altro che smettere di illudersi, gettar via quell’orrenda lente colorata che aveva deciso di portare davanti agli occhi e aprirli al mondo. Gettare lo sguardo al mondo intenzionalmente. E fu così che vide, vide con chiarezza assoluta che il mondo, il reale, l’universo e tutto quanto, non aveva senso. Semplicemente, assurdo.
Ma cosa effettivamente vide quel giorno il signor Jacopus B.?
Questa è una domanda importante ma siamo certi che non fu così determinante il cosa vide, quanto piuttosto l’interpretazione che egli vi diede. Immaginiamo che se uno dei pochi lettori di questa vaneggiante cronaca dovesse (Dio non voglia!) un giorno lontano giungere alla medesima conclusione e scoprire allo stesso modo che il mondo è assurdo, lo farebbe non solo seguendo strade diverse da quelle percorse dal signor Jacopus B. ma alla fine vedrebbe cose differenti. La manifestazione con cui l’assurdo decide di mostrarsi agli occhi dell’uomo è eterogenea e semplicemente un pretesto. L’assurdo non ha forma, non ha contorni e colori e ciò che ce lo rivela è un semplice ambasciatore ma che poco porta con sé del regno da cui proviene.
Tuttavia, visto che stiamo raccontando di questa cronaca tanto vale andare sino in fondo e mostrare cosa videro gli occhi stralunati del signor Jacopus B.
Era seduto su quei sedili scomodi del tram, il lungo cappotto lo avvolgeva come una coperta e la sciarpa era arrotolata fin sopra al naso come estremo tentativo di combattere il freddo che sul mezzo pubblico sembrava persino più pungente che non per strada. Leggeva dei fogli dove aveva sottolineato le poche battute del nuovo personaggio che doveva interpretare, sarebbe stato un lavoro difficile: l’autore in questa particolare tragedia aveva riservato al quel figura solo tre battute, una per ogni atto, ma sapeva bene il signor Jacopus B. che erano proprio quelle tre battute, come una sorta di motto di spirito, a dare la chiave di lettura di tutta la rappresentazione. La cadenza, l’intonazione, l’espressione del volto dovevano essere allora perfetti, studiati nei minimi dettagli, nulla doveva essere lasciato al caso o all’improvvisazione.
Fu probabilmente un rumore, un suono inaspettato e fuori luogo a destare il signor Jacopus B. dalla lettura dei suoi appunti ed a costringerlo ad alzare gli occhi. Un gesto semplice, quotidiano, che ognuno compie infinite volte senza che questo gli cambi la vita. Al signor Jacopus B. però quella volta la vita cambiò davvero.
Pensò di essere ancora un po’ assonnato, poi credette di aver lasciato a casa gli occhiali e quindi di non vedere bene, poi, accortosi che erano placidamente posati sul suo naso, pensò fossero sporchi, poi temette di avere qualche malattia agli occhi, una cataratta fulminante o cose così, poi… capì.
Alzati gli occhi dal foglio il signor Jacopus B. vide il volto delle persone che lo circondavano e non vide nulla, una semplice lastra biancastra leggermente smussata a seguire la forma arrotondata del cranio, ma null’altro. Non vide i tratti che determinano la faccia di una persona: il naso, la bocca, gli zigomi e, soprattutto, gli occhi. Una parete levigata, liscia, indistinta. Era come se una sorta di livellatrice avesse levigato le facce delle persone, tramutandole in cose identiche, uguali l’una all’altra, senza distinzione e sena umanità. Vedeva i raggi del pallido sole invernale riflettersi su quella placca biancastra e lucida e i colori delle insegne della città ancora accese dipingere riflessi ora azzurrognoli, ora rossastri, come una tavolozza disordinata di un pittore privo di talento.
Delle maschere. Sembrava di essere presenti ad una comitiva che si recava ad una festa in maschera a tema, dove gli invitati dovevano indossare quella cosa sulla faccia per non essere riconoscibili. Ciò che il signor Jacopus B. vide furono degli esseri (ormai non riusciva più a chiamarli degli esseri umani) senza volto.
Il signor Jacopus B. osservava queste cose interagire fra di loro, come sé stessero parlando, annuendo a frasi che non pronunciavano (e come potevano? Non avevano la bocca!), gesticolando a discorsi muti.
Si guardò lentamente intorno, il tram come ogni mattina era affollato, pieno di pendolari che andavano al lavoro, cercò qualcuno, cercò un viso, non un volto riconosciuto ma semplicemente dei tratti somatici, un’espressione di umanità con cui riconoscersi. Niente, nessuno aveva più la faccia, tutti erano delle cose amorfe, senza caratteristiche, delle identiche copie uscite dagli ingranaggi di una stampatrice enorme. Superfici plastificate di una strana sostanza, manichini senza tratti ed espressioni, sculture ancora incomplete. Il signor Jacopus B. rimase per un lungo tratto come basito, a metà fra lo spaventato e il sorpreso, poi con un gesto disinvolto si tastò la faccia e scoprì, rassicurato, che lui aveva ancora il naso, le orecchie, gli occhi e tutto quanto il resto del suo volto.
Erano gli altri ad essere all’improvviso cambiati, tutti quanti e lui era rimasto uguale a sempre. Ma la cosa che lo stupiva (e un po’ lo faceva riflettere) era che sembrava che solo lui si fosse accorto di questo cambiamento, di questa mutazione improvvisa, per le altre persone la giornata sembrava proseguire normalmente, non facevano caso ai loro non-volti e neppure facevano caso a lui, che a quanto pareva, era diverso.
Cercò di attirare l’attenzione su di sé tossendo con forza, qualcuno si voltò dalla sua parte (nel senso che qualche ovale lucido e liscio si mosse, girandosi nella sua direzione) ma non accadde nulla, né gesti di panico inconsulto, né attacchi feroci contro il signor Jacopus B., ormai diventato una specie di alieno.
Ogni cosa sembrava procedere nella più perfetta normalità per gli altri, solo per il signor Jacopus B. ciò che gli stava intorno era completamente alterato, mutato. Ed ebbe la certezza che per lui tutto fosse cambiato per sempre.
Il signor Jacopus B. si chiese se quella specie di strano scherzo della natura fosse capitato solo sul suo tram (probabilità remota ma non impossibile) e allora si voltò e guardò fuori dal finestrino ad osservare le persone che si affrettavano sul marciapiede a lato del binario. Non si era illuso troppo, infatti, vide le persone trasformate in quelle strane cose passeggiare per strada, indifferenti e frettolose. Spedite nella direzione che probabilmente ogni mattina seguivano per i loro vari impegni, inconsapevoli del fatto che il loro viso non vi fosse più, fosse scomparso all’improvviso, sostituito da una lamina di una sostanza simile alla plastica, liscia e lucida. Nessuno sembrava rendersi conto che quella mattina non vi era più un essere umano ma delle semplice cose, dei cloni di un’identica mostruosità senza espressione, senza vita, degli automi che assurdamente imitavano il comportamento delle persone.
Il signor Jacopus B., ancora un po’ stordito, decise di comportarsi come se nulla fosse: mettendo in campo tutte le sue doti da attore e utilizzando l’arte drammatica che ben conosceva, si alzò dal sedile e, facendo bene attenzione a non toccare quelle cose in piedi sul tram, si diresse verso l’uscita. Non appena le porte si aprirono, con un passo forse un po’ più troppo veloce del solito, scese e si guardò intorno. Mancavano ancora un paio di chilometri al teatro e decise di percorrerli a piedi per osservare meglio ciò che stava capitando.
Ad un osservatore esterno sarebbe apparso quantomeno singolare questo signore che passeggiava per i marciapiedi della città, imbacuccato in un impermeabile fuori moda da almeno dieci anni, mascherato da una sciarpa avvolta fin sopra il naso, continuando a fissare la gente che incrociava ed ogni volta scuotendo il capo, con gli occhi sempre più tristi e disperati.
Mancavano circa cinquecento metri al teatro quando questo signore piuttosto bizzarro (che noi sappiamo essere il signor Jacopus B.) si fermò di colpo, come folgorato da un pensiero, da una preoccupazione o da un’idea geniale. Rimase qualche secondo immobile in mezzo al marciapiedi tanto che gli strani esseri senza volto che percorrevano la stessa strada dovettero schivarlo e molti si girarono a “guardare” quel tizio fermo in mezzo al marciapiedi. Poi, quasi di scatto, il signor Jacopus B. estrasse dalla tasca posteriore dei pantaloni un portafoglio, nero e piuttosto consumato, lo aprì con gesti frenetici e ne estrasse un piccolo foglio, lo guardò, rimase a fissarlo e poi lo lasciò cadere a terra. In quel momento qualcosa, anche un osservatore disattento se ne sarebbe accorto, era cambiato dentro il signor Jacopus B., come se una cosa si fosse rotta dentro di lui, come se una parte di sé fosse all’improvviso morta.
Il signor Jacopus B. alzò gli occhi, guardò nella direzione del teatro e poi si voltò e tornò indietro, proseguendo il suo cammino dalla parte opposta. Aveva fatto solo pochi passi nella nuova direzione che un colpo d vento improvviso e gelido lo costrinse a rannicchiarsi ancora di più nella sciarpa e nel cappotto e così non vide il piccolo foglio volar via spinto dalla folata inaspettata.
Osserviamo per qualche attimo il foglio, guardiamolo danzare seguendo le traiettorie casuali del vento, salire e scendere come mosso da una mano invisibile ma estremamente aggraziata, superare quel gruppo di esseri senza volto laggiù, proseguire veloce in un continuo sali e scendi, al limite di una tensione fra il cadere per terra e lo sparire nel cielo.
Dedichiamogli ancora un poco di attenzione: eccolo, finalmente, si posa; poco lontano sulla panchina a piedi di quello stano campanile che sembra quasi pendere da un lato, dando la sensazione di instabilità e di precarietà. Avviciniamoci e raccogliamo il foglio, sarà importante per capire lo stano atteggiamento del signor Jacopus B. e del suo repentino cambio di strada. Raccogliamolo dalla panchina su cui è placidamente poggiato; si tratta di una fotografia sgualcita e opaca. La fotografia di una persona in primo piano; ne riconosciamo i capelli corvini e lunghi ma solo da questo particolare riusciamo ad intuire che si tratta della stessa donna raffigurata nella fotografia dell’appartamento del signor Jacopus B., infatti, ogni altro tratto è sparito, non consumato dal tempo però. Anche il volto raffigurato nella fotografia ha subito lo stesso terribile destino di tutte le atre persone del mondo, il viso, quel volto che il signor Jacopus B. deve aver così a lungo contemplato, sognato e amato è svanito, sostituito dall’identica, orrenda, mostruosa lastra di plastica senza tratti, senza espressione, senza nulla di umano.
Persino quel volto che rappresentava per il signor Jacopus B. il luogo di una felicità perduta ma possibile, una sorta di prova che la felicità fosse realmente possibile, esistesse davvero e che in quei tratti, vi fosse la dimostrazione certa del fatto che un uomo potesse essere, almeno una volta nella sua vita, felice, ebbene, persino quel volto era svanito. E con essa anche la possibilità di credere che la felicità fosse possibile per l’uomo. Neppure nel ricordo il signor Jacopus B. era stato in grado di mantenere quel viso, quella donna, anche lei si era trasformata in quella specie di anormalità senza umanità, persino lei ora era diversa. Era rimasto solo. Solo nel presente e solo nel passato. Il signor Jacopus B. era l’unico. L’unico essere umano sulla terra ad essere ed ad essere stato tale.
Si rese finalmente conto, il nostro signor Jacopus B. dell’assurdità di vivere in un mondo popolato da esseri diversi, alieni, che si comportavano secondo schemi imitati l’un con l’altro ma senza un briciolo di umanità, manichini programmati a compiere reiterate azioni senza comprensione e consapevolezza di sé e degli altri. Avrebbe potuto, forse, sopportare tutto questo se almeno quel volto fosse rimasto tale, se almeno in quella donna, persa nel suo lontano passato, avesse potuto ritrovare i tratti e i segni di una somiglianza a sé, di una medesima natura umana. Ma anche lei si era tramutata in una creatura diversa, lontana da lui e da ciò che egli considerava umano; neppure quella donna, con cui aveva per l’unica volta in vita sua sperimentato la felicità, era ora simile a lui. Non era più un porto caldo e sicuro a cui tornare con la memoria e l’immaginazione, annullando il tempo e la logica di un passato che non torna, ma ora era semplicemente uno degli infiniti esseri senza volto che dominavano il mondo. Il signor Jacopus B. era escluso a questo mondo, all’oscuro delle regole che lo determinano ed emarginato dalla sua unicità.
Così, quella fredda mattina di novembre di qualche anno fa, il signor Jacopus B. scoprì che il mondo era assurdo, che non vi era senso all’esistenza e che ogni cosa era immotivata. L’aveva sempre sospettato, forse, l’aveva sempre saputo ma solo quel mattino gli fu chiaro che la sua strenue faticosa, disperata, ricerca di senso da attribuire a ciò che gli stava intorno era vana. Non vi era nulla da ricercare perché non vi era nulla da trovare. Nessun senso da attribuire ad un mondo che era semplicemente assurdo.
La nostra narrazione potrebbe chiudersi qui ma per amore di completezza vogliamo riportare ancora alcune informazioni su ciò che accadde dopo.
Il signor Jacopus B. sparì. Di lui non si seppe più nulla, quella mattina non si presentò al teatro e non lo fece mai più. I colleghi denunciarono la scomparsa alla polizia che effettuò delle rapide ricerche. Venne scandagliato il fiume che attraversa la città pensando ad un tragico gesto definitivo e venne diramato un ordinanza di ricerca alle polizie estere che però non diede alcun risultato.
Per alcun mesi dalla sua scomparsa capitava di vedere appesi sui lampioni della città dei manifesti con la fotografia sorridente del signor Jacopus B. e un’accorata richiesta di auto nel ritrovarlo, il numero da chiamare era quello del teatro. Ma nessuno chiamò. Col tempo tutti si dimenticarono di quell’attore che impersonava ruoli minori sul palcoscenico; venne preso un sostituto che poi fu assunto a tempo indeterminato dalla compagnia. L’appartamento del signor Jacopus B. restò vuoto a lungo, sino a che un lontano parente non ne pretese il possesso e lo vendette ad una coppia d giovani sposini.
L’ultima che continuò a sperare che il signor Jacopus B. una mattina entrasse dal portone del teatro e, con quella sua voce gentile e calda, augurasse a tutti il buon giorno fu la sua vecchia collega L. Poi lei cambiò teatro riuscendo ad ottenere un impiego per ruoli importanti e ben remunerati e finalmente riuscì a sposarsi. Così anche lei si dimenticò di quel suo strano collega che ad una certo punto era sparito nel nulla.
Nulla rimase a testimoniare la presenza al mondo del signor Jacopus B. e gli uomini e le donne continuarono a vivere normalmente, come se neppure quell’uomo fosse esistito, interagendo tra di loro, scambiandosi affetto e odio, nascendo, crescendo e morendo. Esseri che vivevano le loro vite inconsapevoli del fatto di non avere più un volto e di essere diventati delle cose senza umanità, irriconoscibili l’uno con l’altro.

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21/08/2006

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13 agosto 2006

Poesie Romane

POESIE ROMANE

Nella città

Nella città in cu il tempo non scorre,
Accartocciandosi in spire di rovine confuse,
me ne resto solitario avvolto dei miei ricordi.

Nubi di sera

Nubi di sera
Sulla città che non muore
E rade le stelle
Ad annunciare pioggia futura.

Una sonnacchiosa torre
S’adagia sullo sfondo
E attende pigra
Un’alba ancora lontana.

Ovale la luna,
Gonfia di luce,
Sopra e strade
E nei saliscendi dei volti.

Vicoli antichi
Grondanti di storie
E pieni del mormorio
D‘avventori ubriachi.

Nessun trionfo
Di re od eroi
Ma qui solo il rumore
Della vita e del suo dolore.

Cammino vagabondo
Tra i miei me stessi
In cerca ancora
Di un senso fecondo.

Parole che oscillano

Parole che oscillano
Cullate tra le braccia
Di una follia sconosciuta.

Lento movimento
Di un pensiero che n spirali
Si perde velenoso.

Voce nella mente
Non più sulle labbra
Parlo con un passato malato.

Oltre la porta
Di un presente continuo
Fatico a sperare ancora una vita.

Mi lascio condurre,
Foglia alla deriva,
Nel nero d’un sentimento.

A te che forse leggi,
un’ultima invocazione,
L’estremo epitaffio.

Ti prego nel tempo
Ricorda l’uomo
Che sono stato.

Di nascosto in una via segreta

Di nascosto in una via segreta
Ascolto note rubate
All’ombra di colonne dedicate.

Nel cielo lo stridulo richiamo
Di u gabbiano smarrito
Ad invocare lo stormo lontano.

E la voce laggiù
Triste e melodiosa
S’innalza al cielo.

Sia il mio disperato grido
A colei che per me
Un tempo, era casa.

Bianco il tempio in rovina

Bianco il tempio in rovina,
resta sola ad antico ricordo
una solitaria colonna
monito d una solitudine
Che nel tempo s’erge.

Facile metafora di un semplice poeta
Che s’affanna ad elevare costruzioni
Di conosciuta disperazione;
venga un vento rabbioso
e i fogli sparsi getti lontano.

Li vedrei nel cielo danzare,
Sinuosi gabbiani marini,
E nel nulla perdersi beati,
Resterei solitario a sognare
La loro strada e la loro fine.

Cada la colonna!
Sulle poche macerie s’alzi un’ara nuova,
a Lei porterò colorati fiori.
Spariscano le parole e le rime!
Resti solo la prosa d’un quotidiano amore.

06 agosto 2006

Dall’alto di un castello

Dall’alto di un castello

Dall’alto di un castello
Nero lo sfondo
Che sotto giace.

Qualche illuminata finestra
Come punti di un disegno
Nascosto.

Occhi aperti
Di bizzarre creature
In attesa.

Vado con la fantasia
A sognare vite e storie
Imprigionate in ogni luce.

Scorgo mondi
Sorrisi e pianti
Padri e figli.

E forse in una delle stanze
Solo socchiuse
V’è un uomo antico.

Lo vedo di lontano
Certo non scrive
Ma sembra che ami.

Si spegne la luce
E nelle tue braccia
Stanco si addormenta.

Io volgo le spalle
E rientro
Nei freddi corridoi.

Le mani imbrattate
D’un inchiostro nero,
Mia solitudine.

Ad un volto che scolora

Ad un volto che scolora

Ad un volto che scolora
In un seppia opaco,
i contorni sfocati
con lo sfondo si confondono.

Una vecchia fotografia
Che lenta dimentica il tratto
E foglio bianco s’accatasta
In un polveroso angolo.

Ma tra i resti e le rovine
Della memoria ferita
Quel volto risplende ancora
D’una luce che abbaglia.

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