18 ottobre 2008

Dialogo

Dialogo
Meraviglia,
Il muro è dunque giunto, la fine arrivata
Il tempo folle di uno statico
Perfetto e surreale momento concluso
E io sento la tua voce oltre la siepe
E ricordo che su questo colle sono ancora solo
Ad osservare il mondo e tutti gli altri
Ma nell’aria riecheggia ancora la tua risata
Il tuo sorriso e la tua saggezza
E piano che mi convinco
Che forse non è stato tutto
Un ridicolo sogno

Disperse Poesie

Disperse Poesie
Ancora una volta sono qui
Fermo nello stesso luogo
Tra medesime trame
Di morte
E parole e sapori
Inutilmente
Anestetici.
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Il vecchio camminava lungo il selciato
Il vento a scompigliargli i radi capelli
E lo sguardo perso in altri orizzonti
Figure di un passato troppo presente
E ricordi che non se ne vogliono andare.

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Napoleone stette sul colle ad osservare l’esercito andare incontro alla morte.
Napoleone desiderò come mai altre volte nella sua vita
Di essere là, con i suoi soldati, nella battaglia
A morire.

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Scrivo parole cercando di ricordare come si fa poesia.
Non l’ho dimenticato,
Solo non ho per chi scrivere
E a me stesso non basto.

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Le tende sono abbassate
E il mondo nero resta nascosto
Le luci e le stelle spente
E la casa rosa di fronte a me
Scomparsa.
Esiste solo questa stanza
La musica
Io e il dolore.
Niente altro.

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Il viandante chiese al giovane uomo
Le ragioni del suo viaggio
Del suo incessante
Peregrinare
E il giovane uomo non rispose
Perché risposte non ne aveva
Se non la solita
Ripetuta
Angosciante
Assurda
Inutilità.

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Andare per la strada e stare fermo
Camminare e correre su se stessi
Per anni e decenni
E rendersi conto che ogni cosa muove
Tranne il dolore
Che resta lì, immobile.
Vivo solo nella mia
Stolta mente.

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Eccomi finalmente qui
Nel luogo che ho desiderato
E visto riflesso nelle macchie
Di un Rorschach segreto.

Una piccola casa
Una scrivania accucciata
E i monti, le piante e i prati
A circondarmi
Invalicabili mura a difesa della mia
Eterna solitudine.

Perché non sento le risate?
Perché solo una cantante
Urla Schubert dal grammofono
Senza spezzare il silenzio
Che mi ronza nella testa?

Dove sei?
Chi sei?
Addio.

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La finestra che riflette una debole luce rossastra
Sembra fissarmi mentre ascolto note
Di un lieder romantico.
Ricambio lo sguardo e le voce nelle casse
Si alza, urla, sbraita
Io e la finestra illuminata e il canto.
Niente altro.
Poi, qualcuno che resta nascosto
Buio e segreto
Abbassa pigro la tapparella
E la finestra si spegne,
Come un occhio
La cui palpebra cade
A nascondere il mondo
E ogni altra cosa.

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Autostrada Deserta

Autostrada Deserta
Le luci si spengono
e la velocità decresce
L’auto si ferma e io mi guardo intorno
Solo sul rettilineo d’asfalto
Di un’infinta autostrada.

Un sibilo del vento fende l’aria
È l’unico rumore per chilometri
E chilometri di grigio asfalto
E per la strada solo la mia auto
Silenziosa e in panne.

Alberi e arbusti ed erba
Dilagano intorno
Straripano sulla striscia sottile
Di cemento morto
E urlano ribellione
Oltre ogni confine.

Il sole è spento
La luce del mattino debole
Scendo dalla mia vettura inutile
E osservo il paesaggio.
Le poche nubi nel cielo
Scivolano via, lontane.

Ho smesso di fumare
E non mi accendo una sigaretta
Seduto sul cofano ancora caldo
Cercando di pensare
E ricordare dove stavo correndo.
Il tabacco è rancido.

Un gabbiano. Lo sento.
Stridulo e noioso
Con il verso identico
Ripetuto e assillante.
Mi ricorda il mare
E la stessa tristezza.

Getto la cicca che non ho acceso
E osservo il rigolo di fumo spegnersi
Salendo al cielo in spirali
Non ho nulla che mi trattenga
E lento mi incammino
Sull’autostrada deserta.

Fischietto un motivo
Ascoltato da ragazzo
Un suono antico
Poche solitarie note
Melodie vane
Per rompere il silenzio.

Sulla mia strada non c’è nulla
E anche se corro
Sbraito ed urlo
Nessun si fa incontro
E la strada resta deserta.
E io mi guardo intorno.

E io mi guardo intorno
E mi sembra di vedere
Vaghe figure
Spettri diafani e misteriose creature
Ricordi e speranze mischiati
In un’identica illusione.

Continuo a camminare
Su questa vecchia autostrada
Che si fa sempre più stretta
E non vedo la fine
E non vedo nessuno
E non vedo me stesso.

Potrei fermarmi
Sedere stanco su un gradino
Di una qualunque piazza
Attendendo
Ma non vi sono piazze
Né gradini, solo asfalto
E strada.

E allora cammino
Come non avessi altra scelta
Che andare avanti
Avanti piano e veloce
Camminando o correndo
E nel cielo il sole
Resta immobile. Indifferente.

Aspetto la notte
Forse arriveranno le stelle
E il buio
E la luna che altrove avevo incontrato
Ma che ormai
Di me non si rammenta.

Smetto di pensare.
Smetto di non scrivere
A penna pensieri che corrono
Persino più lontani
Dei miei soliti passi.
E anche nella mia testa
Finalmente si fa
Silenzio.

07 ottobre 2008

E per nessuno c’è scampo

E per nessuno c’è scampo

Suona la sirena
E nei bunker ci si stipa
Ancora un po’
Voci di donna, pianti di infanti
E urla di uomini
Pare d’essere su una qualunque
Metropolitana all’ora di punta.
Puzzo d’umano, quel fetido sentore
Di vita, paura e un po’ di morte.
La nuova guerra è scoppiata
E per nessuno c’è scampo.

Nel cielo i fischi
Di caccia guidati
Da software
Semi intelligenti
Progettati in java per uccidere
Opensources.
Bombe intelligenti nella loro banalità
Di sterminio.
Il fragore spezza il muro
Del suono, uno, due,
Un milione di volte
E il programma accende led
Intermittenti e colorati
Ad illuminare abitacoli
Deserti.
Luce verde, luce gialla,
Luce rossa e giù lo sgancio
Grappoli densi di chicchi di bombe
Cadono dal cielo a fecondare di morte
Quel campo, la strada
Ed ogni singola casa.
E per nessuno c’è scampo.

01 ottobre 2008

Morgue

MORGUE

Si apre il sipario. Il palco è buio. Con un flash rumoroso un fascio di luce fredda si accende e ne illumina il centro. Un po’ spostato dietro, verso le quinte, un tavolo lungo, largo, di metallo su cui è steso un corpo coperto da un lenzuolo verde, simile a quelli usati negli ospedali. Dal lenzuolo spuntano solo i piedi e all’alluce del destro è appeso un cartellino rettangolare. Il cadavere è posto perpendicolare alle file del pubblico, lo si vede disteso per tutta la sua lunghezza.
La luce aumenta la sua intensità estendendosi circolarmente oltre il tavolo. Vengono illuminati due uomini vestiti da infermieri. Camice bianco, berretto bianco. Sono ai lati del tavolo, le spalle di traverso al pubblico. Di entrambi si vede parte del profilo illuminato dall’alto.
Benn a destra. Gottfried a sinistra.
I due parlano rivolgendo lo sguardo al corpo sul lettino, come se parlassero con lui. Non si muovono, immobili. Il tono di Benn è dimesso, quello di Gottfried deciso, un po’ brusco.


B- E’ morto.
G- Certo che è morto.
B- Ne sei sicuro?
G- Si. E’ morto. Ne sono sicuro.
B- Come sta tua moglie?
G- Bene, grazie.
B- E i piccoli.
G- Non ho figli.
B- Ah.
G- Tua moglie? Sempre alla prese con quella fastidiosa sciatalgia.
B- Non sono sposato.
G- Davvero?
B- Si. Devi esserti confuso con qualcun altro.
G- Già. Ma avrei giurato che tu fossi sposato con una donna con problemi di sciatalgia.
B- Ed io invece che tu avevi due figli piccoli. Un maschietto e una femminuccia.
G- No. Mia moglie è sterile.
B- Ne sei sicuro?
G- Si. Abbiamo fatto i test.
B- No.
G- No? cosa?!
B- No. Intendevo sei davvero sicuro che sia morto?
G- Ti ho già detto di si. È Morto.
B- Cosa ti rende così certo?
G- E’ steso lì. Sul tavolo. Ha un cartellino appeso al piede. Lo vedi? Lì, proprio lì. E poi non si muove.
B- Vuoi dire che…
G- Si, Benn. Voglio dire che è steso. E’ morto.
B- E se mi mettessi steso con lui. Lì. Al suo fianco con un cartellino appeso all’alluce sarei morto anch’io quindi?
G- Perché lui?
B- Lui chi?
G- Esso.
B- Esso cosa?
G- Il cadavere! Quel corpo steso sul tavolo.
B- Lui. Dici che forse era una donna? Lei?
G- No. Né lui, né lei. E’ morto.
B- Sei sicuro? (interrompendo Gottfried)
G- E se è morto non è più né un lui né una lei ma solo un esso.
B- Una cosa.
G- Esatto. Una cosa. Un oggetto.
B- Ma cosa lo fa essere morto?
G- Non lo so. Una malattia. Un incidente.
B- Tu come stai?
G- Bene grazie.
B- Anche io. Lo sai che non era il mio turno questo.
G- Di chi era?
B- Di quello di T. ma ha avuto un incidente in macchina e non è potuto venire. Allora hanno chiamato me.
G- Quello di T.
B- Si. Lo conosci?
G- Di vista. Una volta me ne hanno parlato. Dicono che è bravo. Ho sentito dire che ha una storia con quella del settimo. Quella che si faceva anche il tizio del secondo.
B- Non lo sapevo. La bionda?
G- No. Quella è dell’ottavo. Si faceva quella del settimo. La morettina.
B- Non la conosco.
G- Ma dove vivi?
B- Qui dentro.
(Silenzio. Gottfried non risponde subito a Benn. Resta fra loro un momento di sospensione. Non si osservano.)
G- Qui dentro.
B- Qui dentro.
G- A che ora stacchi.
B- Non mi ricordo. Devo guardare la tabella appesa nello spogliatoio.
G- Io alle quattro.
B- Sei sicuro?
G- Si. Ho controllato prima.
B- Sei sicuro che è morto?
(Muovendosi per la prima volta Benn alza lentamente il braccio e indica il cadavere)
G- Sei testardo! Certo che quella cosa è morta!
B- Ma chi era?
G- Dicono uno scrittore?
B- A me hanno detto un impiegato.
G- Ho sentito dire che aveva scritto anche dei saggi.
B- Io che viveva da solo. Nessuno lo ha reclamato.
G- E chi lo vuole un cadavere che sa di formalina?
B- Perché è qui?
G- Perché è morto.
B- La vita.
G- Il tempo, Benn. Prima poi passa.
B- E finisce.
G- E finisce.
B- Se mi stendessi con lui sul tavolo sarei morto anche io?
G- No.
B- No? Perché no? Perché mi manca il cartellino?
G- Tu sei vivo. Parli, respiri. Hai la vita.
(Benn non risponde. Gottfried resta immobile per un minuto abbondante. Poi, per la prima volta si muove e fissa Benn)
G- Perché non parli più.
B- Non parlo. Sono un po’ morto allora?
G- Ma che ti prende? No. Non sei un po’ più morto!
B- Hai ragione. Serve dell’altro.
(Benn si leva il camice bianco da infermiere, le scarpe, le calze e resta in maglietta e pantaloni bianchi. Si avvicina al tavolo, scosta il corpo e vi si distende. Sool dopo che si è disteso Gottfried parla)
G- Che fai?
(Benn alzando il capo disteso e rivolgendosi a Gottfried risponde)
B- Muoio.
(E con un gesto si mette il lenzuolo sul viso. Spuntano solo i piedi. Senza cartellino)
G- Non sei morto. Non si muore così. Non si muore vivi. E tu sei vivo!
(Una terza voce. Profonda. Cavernosa. E’ il cadavere a parlare ma il volto resta coperto e la voce sembra arrivi da Benn o da nessuna altra parte)
C- E cosa lo fa essere vivo?
G- E’ vivo perché è vivo!
(Gottfried non è sorpreso. Come se fosse naturale parlare con i corpi stesi sul tavolo metallico)
C- E’ una condizione statica dunque la vita. Si è vivi perché ci si trova in uno stato particolare di esistenza. Opposta all’altro stato particolare che è non esistenza della morte.
G- Una cosa del genere. Lui è vivo. Ben è vivo. Tra poco si alzerà.
C- E se non lo facesse.
G- Lo farà. Prima o poi. Potrà smettere di parlare. Potrà anche smettere di pensare ma non può smettere di respirare. Tra un’ora, due ore. Dieci ore la fame lo costringerà al alzarsi e ad andare a mangiare qualcosa. Tra un’ora, due ore. Dieci ore lo stimolo a defecare sarà così forte che si alzerà e correrà in bagno. E’ vivo. Se ne ricorderà.
C- Benn è vivo perché mangia? Perché defeca? Perché il suo corpo ha degli stimoli? Benn allora non è altro che questo. Un corpo mangia-defeca-mangia!
G- Benn pensa. Benn parla. Benn è sposato con una donna con problemi di sciatalgia.
C- Benn non è sposato.
G- E’ vero. Me lo aveva detto. Avrei giurato però che…
C- Io ero sposato. Lo ero con una donna con la sciatalgia. Ne soffriva molto.
G- Mi spiace.
C- Ormai non importa. Io sono morto.
G- Ti hanno pianto molto?
C- Lei si. I nostri figli erano troppo piccoli per capire.
G- Hai figli?
C- Ho avuto due figli. Una bambina e un bambino.
G- Che coincidenza.
C- Che cosa?
G- Nulla. Pensavo a prima.
C- Prima.
G- Tu ora sei morto.
C- Lo sarò anche dopo.
G- Non si guarisce dalla morte.
C- No. Fortunatamente non si guarisce.
G- E strano, sai? Viviamo una vita così lunga ma che è nulla rispetto al tempo in cui saremo morti. Un granello nel deserto del tempo.
C- E al tempo che lo siamo stati prima di venire alla luce.
G- Da quanto tempo sei qui?
C- Da due settimane.
G- Da così tanto? Nessuno ti reclama?
C- Ci sarà qualche problema burocratico.
G- Come sei morto?
C- Come è morto questo corpo? Solita malattia incurabile diagnosticata tardi.
G- Deve essere stata dura.
C- Affatto. Io ero morto da molto tempo prima.
G- Che vuoi dire?
C- Io ero come Benn. Ero vivo solo perché il mio corpo si ostinava ad esserlo. Io ero come lui, un mangia-defeca-mangia. Ma la mia volontà. Il mio voler esser vivo. Il mio esser vivo volontariamente, come una condizione che ad ogni secondo si rigenera, si rafforza. Come una decisione alla vita che viene presa ogni attimo, ogni battito del cuore. Il dire ad ogni tum io sono vivo. Io voglio essere vivo. No. Quello non c’era. Io ero già morto.
G- Già morto.
C- Ero un vivente morto. Un nosferatu al contrario.
G- Un nosferatu al contrario.
C- Smettila di ripetere ciò che dico.
G- Perché eri già morto?
C- Non avevo nessuna ragione per essere vivo. Tutto intorno a me era sbagliato.
G- Sbagliato? Cosa c’era di sbagliato?
C- Tutto. Io volevo essere tutto. Io volevo essere Dio. Io desideravo. Ma come potevo accettare l’idea che io fossi capace di volere, di agire consapevolmente verso un fine senza che le mie azioni potessero modificare davvero il mondo. Che il mio fare potesse davvero ripercuotersi sulla realtà deformandola, cambiandola secondo la mia volontà? Come potevo accettare di essere uno solo e confinato in un luogo? In un tempo? Finito. Mortale. Piccolo e debole. Inutile. Esser lì ed ora. Come si può donare ad un cieco il desiderio di vedere un’opera d’arte? Come si può desiderare di volare se non si hanno le ali? Come potevo accettare di non poter sottomettere il mondo, ogni cosa, ogni persona alla mia volontà? Io volevo essere il mondo!
G- E che ne avresti fatto?
C- L’avrei reso a mia immagine e somiglianza. Potevo volere una cosa, potevo muovermi, affaticarmi ma tutto restava vano perché il mondo non è stato creato per me. Il mondo è lì ma non è il luogo in cui il mio agire si può realizzare. La mia volontà resta annichilita. Io resto un essere a metà, un uomo che ha il potere di desiderare ma non ha il potere di realizzare i propri desideri. Io avevo la volontà di Dio ma non la sua onnipotenza.
G- E cosa avresti realizzato?
C- Tutto, nulla. Non importa. E’ il poter realizzare che è essenziale. Non la realizzazione in sé. Ero una tigre rinchiusa nelle stritolante sbarre di una prigione. Nessuno ne aveva le chiavi. La gabbia della mia necessitazione mi ha ucciso mentre ero ancora vivo.
G- Chiavi… Ricordo quella volta che ho cercato a lungo le chiavi di casa mia e non le trovavo. Pensavo che me le avessero rubate, chissà chi pensavo. Un ladro. Lo immaginavo furtivo risalire sino al mio appartamento e intrufolarsi, rubarmi ogni cosa, depredarmi. Forse anche uccidermi. Urlavo pazzo di paura per quella persona che vedevo stringere le mie chiavi. Le chiavi della mia casa. Poi, invece, le trovai. Erano lì dove le mettevo sempre ma non le avevo viste. Sbadato. Le chiavi di casa mia erano sempre state al loro posto, con me. Nessuno le aveva, erano solo mie.
C- Nella mia gabbia urlavo furente contro Dio, il destino, il nulla, volevo essere Tutto ma non ero nulla. Niente. Una foglia scossa dal vento qui e là. E il mondo era solo il luogo della mia frustrazione. Di infinite volontà opposte alla mia. Inutili tutte quante nello scontrarsi per briciole di nullità.
(Un silenzio, Gottfried sembra pensare profondamente, poi parla come se avesse trovato la soluzione.)
G- Scusa. Tu lo conosci quello di T.
C- Quello che si fa la moretta dell’ottavo.
G- Del settimo. La moretta è del settimo.
C- Beh, si lo conosco. Deve essere stato lui ad attaccarmi il cartellino.
G- Lei è una bella donna.
C- Non l’ho mai vista.
G- Mi ricorda un po’ la moglie di Benn.
C- Benn non è sposato.
G- Me lo avevi detto.
C- Quello di T. è bravo. Anche se non se la faceva.
G- Che dice?
C- Chi, quello di T.?
G- No. Il cartellino.
C- Ah. Solo il mio nome. La data del decesso. E il numero di assistenza sanitaria.
G- Dove verrai sepolto?
C- Verrò cremato. Ho letto troppi racconti di Poe per voler essere seppellito.
G- Poe? Non lo conosco.
C- Vorrei che le mie ceneri siano sparse in giro. Ovunque.
G- E tua moglie?
C- Che cosa c’entra mia moglie?
G- E i tuoi figli?
C- E loro?
G- Hai detto di essere stato cadavere fin già da vivo. Di loro non ti importava?
C- Certo che mi importava. Ho voluto loro molto bene.
G- Ma non ti hanno aiutato a trovare un senso?
C- Non sono stati abbastanza per me. Nessuno lo era. Non potevo costruire il senso della mia vita intorno all’amore di altri. Dovevo trovarlo in me, per me e con me. Doveva essere mio. Solo, egoisticamente, mio.
G- E così sei rimasto solo.
C- Lo sono sempre stato.
G- Hai visto la tua vita?
C- Quando?
G- Quando sei morto.
C- Come in un film? No. Non ho visto nulla. Ho chiuso gli occhi e mi sono come addormentato. E non mi sono mai più svegliato. Pensavo peggio.
G- Sai. Pensavo che non è tanto normale che io sia qui a parlare con te che sei cadavere mentre il mio compagno di turno se ne sta disteso lì con te imitandoti. Come fosse morto.
C- Eggià. Non è molto normale. Potevi chiedere un compagno più vitale.
G- Stai facendo dell’umorismo?
C- Scusa. Una battutaccia.
(Un po’ spazientito)
G- Lascia stare.
C- Adesso non ti arrabbierai, vero?
G- No. Tu dici che sono malato?
C- Forse sei solo morto anche tu.
G- Morto?
C- Si. Morto.
G- Ma io sono vivo. Io ti sto parlando.
C- Anche io parlo con te. E io sono sicuramente morto. Lo hai detto tu prima. Ho il cartellino. Sono morto.
G- Ma vuol dire che…
(Si fissa le mani. Il volto è preoccupato.)
C- Gottfried, cosa ti fa essere vivo?
G- Che intendi?
C- Perché vivi?
G- Perché il mio cuore pulsa sangue al cervello, credo.
C- Come prima. Vivi perché sei una macchina biologica?
G- Vivo perché il mio corpo vive.
C- Ma perché tu, tu Gottfried, stai vivendo? Quale è la tua ragione?
G- La mia ragione. Non c’è nessuna ragione al vivere.
C- Ci deve essere.
G- No. C’è solo la vita.
C- E le cose che succedono allora? La ragione per cui io sono qui steso morto. E tu sei lì a parlare con me. E Benn qui morto-vivo-morto.
G- Succedono e basta. Nessun destino ordinato. Nessun libro che si compie. Nessuna ragione segreta. E’ capitato così. Poteva capitare in un altro miliardo di modi. Io steso morto e tu qui a parlare. Benn steso morto, io a imitare la morte e tu vivo a parlare. Le combinazioni sono infinite.
C- Ma perché questa?
G- Perché è capitata. E’ casualmente capitata questa.
C- Ma così è assurdo.
G- Si. Ma tu lo hai sempre saputo che era assurdo, vero?
C- Si. Ma non me ne sono dato pace. Io sono stato solo una volontà assoluta, ho cercato un senso inesistente per spiegare tutto, ho tentato di creare il senso di un mondo di per sé insensato. Ho voluto imporre alla realtà indifferente ad ogni cosa un significato, una ragione, un perché che fosse mio. Vanamente. Ed alla fine sono rimasto immobile. Morto. Vivente morto. Senza alcun senso.
G- Il nosferatu al contrario.
C- Il Demiurgo inutile.
G- L’essere umano.
C- Non potevo accettare che non ci fosse una ragione oltre il mio biologico vivere, il mio corporeo cibarmi e defecare.
G- Ora che sei finalmente un morto vero hai trovato il senso. C’è un senso nella morte?
C- L’essere per la morte? No. Io non esisto. Penso di essere solo frutto della tua fantasia, un parto indotto nella tue mente dallo stress per la follia di Benn.
G- O forse io sono davvero morto come te, come Benn e ciò che manca a chiudere il cerchio è stendermi con voi su quel letto di metallo.
C- Sei vivo?
(Gottfried non risponde. Si leva il camice, si sfila le scarpe e si stende sul letto di metallo. In mezzo il cadavere, da un lato Benn e dall’altro Gottfried. Cala il silenzio. Poi una voce fuori campo, un altoparlante lontano, la voce è gracchiante.)
Voce fuori campo- Si avvisano gli addetti del piano due e tre che i forni crematori dell’impianto seminterrato sono attivi. Si prega di affrettarsi con le consegne. I forni resteranno accesi per le prossime due ore.
(Silenzio. Sul palco scende un silenzio denso. La luce si affievolisce e pian piano si restringe sino a spegnersi. L’ultima cosa che illumina sono i piedi del cadavere, e l’alluce con la targhetta.
Il palco resta buio per diversi momenti. Poi si illumina. Non è più il flash freddo ma le luci calde che illuminano il palco come a giorno. Benn e Gottfried se ne stanno nell’identica posizione dell’inizio ma questa volta il tavolo non c’è. E loro fissano lo spazio vuoto che una volta era occupato dal tavolo)
G- Ti sei ricordato a che ora stacchi?
B- Si. Alle quattro e mezza.
G- Potremmo berci qualcosa. Chessò? Una birra.
B- Volentieri.
G- Ti aspetto al pub allora?
B- Si. Ordinami già una birra. Una weis.
G- Il primo giro lo paghi tu.
B- Aggiudicato. Il secondo tu.
G- Potremmo dirlo a quello di T.
B- Buona idea. Magari porta anche la morettina.
G- Aspetta. Ma non era malato o qualcosa del genere? Non aveva fatto un incidente?
B- Dici? Non me lo ricordo.
G- Mi sembrava di aver sentito qualcosa.
B- Ti sarai confuso.
G- Mah, può darsi.
(Gottfried fa per uscire. Quando è quasi fuori dal palco si volta e osserva Benn, rivolgendogli la parola).
G- Saluta tua moglie da parte mia. E falle gli auguri per la sua sciatalgia. Vedrà che si sistemerà presto.
B- Lo farò. Grazie mille.
(Benn resta solo sul palco. Si volta ed osserva oltre il pubblico. Lo sguardo si fa profondo, come se stesse pensando a qualcosa di importante. Di vitale.)
B- Non ne posso più. Ho una fame che non ci vedo. Mi sembra siano giorni che non mangio qualcosa.
(Si frega nella tasche del camice e trova una merendina.Si guarda intorno furtivo, controllando di non essere spiato o visto)
B- Non c’è nessuno. Ottimo! Non dovrò dividerla con nessuno. Solo mia!
(La fissa con bramosia, la scarta e la divora. Bestialmente.)
B- Ah! Che buona! Ci voleva proprio. Non c’è nulla di meglio di una merendina quando si ha fame. Dovrò regalarne un pacco anche ai figli di Gottfried. Come si chiama la bambina? E il piccolo?

Sipario.

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