29 agosto 2008

Ghiaccio e Guerra - terza parte

Ghiaccio e Guerra
III

Bianco.
Non vedo altro che bianco.
Bianca la casa,
I muri che non esistono
Le grandi finestre
La scrivania
Persino la guerra
Giù per strada
È bianca.

La neve non ha smesso di cadere
Neppure ora che non vi è più nulla
Da ricoprire e tutto è un soffice
Manto
Bianco
Da cui si leva
A volte
Lo scoppio
Di qualche
Anacronistica
Esplosione.
La guerra non si è accorta che il ghiaccio
Ha trionfato.

Non sento più i miei pensieri
Il ricordo si mischia al presente
E il futuro sembra così vicino da poterlo toccare
Lì, nel ghiaccio, nella neve,
Basterebbe dormire
Per un ultima volta.

Le voci. Senti le voci?
Quante voci in questa stanza
Le riconosco una ad una
Sono gli alberi
E il frutto di una perduta conoscenza
Il paradiso perduto
Il suo nome
Che non ricordo
E il mio
Che guizza
Sul ghiaccio e
Rimbomba ovunque.

Cammino nel bianco
Intorno alla casa
In circolo perfetto
E scavo un solco
Dentro o fuori
Di qui o di là
E nel cielo
Un occhio d’abisso mi osserva
E si interroga
Sulla mia follia.

Scavalcano il fosso
Le piccole formiche
D’argento dipinte
Armate di scheletri
Chitinosi e metallici
Possenti
Avanzano lente
In fila perfetta
D’indiana memoria
E arrivano a me
Qui di fronte.
Ant Army.

Guarda le vedi anche tu?
Lì, eccole lì.

Non le vedi?
Sono folle?
Chi sei tu?
Con chi sto parlando?

Sei bianco
E freddo
Come il ghiaccio
E mi rifletti
Senza pensarmi.

Le hai viste le formiche?

Mi hanno parlato
La loro lingua
È facile
È fatta di tanti silenzi
Accatastati l’uno sull’altro
E io il silenzio
Lo capisco.
L’ho imparato negli anni
Prima di questa casa.

Le hai ascoltate?
Hai udito la loro storia?

Chi sei tu?
Perché non vedi?
Perché non senti?

Sei lei?

No.
Non sei lei.

Lei chi?

Musica,
Intorno a me una musica
Note soffuse
Un canto parco
Una nenia.
Scricchiolii nel ghiaccio
E mi accorgo che le esplosioni
Sono cessate
Nessuno sparo
Nessun soldato salta
Su una mina nascosta.

Mina, amante prediletta del Vampiro.

Urlo.
La guerra è finita?
Finita?
Ita?
A?

Passa un momento
E lo sparo arriva
Risposta gracchiante alla mia stolta domanda.
Il vetro esplode intorno a me.
Sangue, schegge e sgorganti
Ferite sul volto.
Rosso sul bianco
Astratto dipinto in cui riconosco
Me stesso.
Il mio viso
Deturpato.

La guerra non finirà mai.

E la musica smette di suonare,
E l’eco della battaglia
Ritorna
Come una risacca
Stanca
Sulla spiaggia
Fredda
Della mia
Solitudine.

Il sole tramonta,
E la luna si alza nel cielo
Proprio lì
Ad una passo dalle finestre
Della mia casa
E quasi la sfioro
E ne sento
La luce
Tra le dita
Blu
Elettrica
Come una pira
Funeraria
Caricata
A dinamo.

Un funerale,
Marionette in nero
A seguire il feretro
Movimenti a scatti
E fili che pendono dall’alto
Nessuno parla
Disegnate le lacrime
Sui visi di legno
E la recita prosegue.
Tumulazione
Di una presunta
Umanità.

Allungo il braccio
Le richiamo a me
Ma non mi odono
E il sacerdote
Intesse rosari
Di assillante
Disperazione.

Ho la netta impressione
Che mi odino.
Come quel dio
Padre di dei
Nordici
E ghiacciati.

Come questo
Tutto questo
Che mi circonda.

Un brusire
Scarabei neri che affrettano le mandibole
Attraverso questa distesa
Di ghiaccio e guerra
E la neve continua a cadere.

Sento le mie ossa
Spolpate della carne
Bianche
Lisce come una tela
Su cui potrei continuare
A scrivere.

Dei passi.

Ascolto dei passi sul selciato
Sulle scale
Sulla passatoia che giunge a me
Nella stanza accanto
Qui
Sulla porta
Immobili.

Sei tu?
Sei dunque giunta a me?
Chi sei tu?

Quale è il tuo nome?

Io non lo ricordo.

Ricordo il mio.

Conosco il nome.
Il mo nome.

Una figura
Silhouette d’ombra
Sullo sfondo ghiacciato
Della neve
e del bianco
Osserva e non parla.
Non mi muovo
Alla scrivania
Continuo a tentare
Di scrivere
Del ghiaccio
Della guerra
E della neve
Che non si dà pace di cadere.

Lei mi osserva e io la ignoro.

La penna è senza inchiostro
Il foglio a pezzi
E la mia mano viola
Come il cielo
Di una sera
Che accoglie un marinaio
Fenicio
Che ritorna a casa.

E lei sulla porta
Ancora nessun suono
Dalla sua bocca
Se anche ne avesse una
Non parlerebbe
Perché nulla da dire
E ogni cosa è chiara.

Bastava solo aspettarla.
E lei sarebbe arrivata.

Samarcanda non è lontana.
Samarcanda è qui.

E lei è finalmente arrivata.

Per l’ultima volta
Guardo fuori dalla grande finestra
E vedo il monte
Seghettato
Le piccole e segrete piramidi
Il mio paesaggio.
Sono stato un buon pittore.

Chiudo gli occhi.

Non c’è più ghiaccio
Né la guerra
Anche la neve
Ha smesso di scivolare dal cielo.

Mi volto e la guardo.

Ora ricordo il suo nome.

Non l’avevo perduto.

Lo sussurro
Insieme al mio.

Qui
Non v’è niente
Altro
Che noi.

E la neve
Che giace.
Insignificante.

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27 agosto 2008

Ghiaccio e Guerra - seconda parte

Ghiaccio e Guerra
II

Quanta strada
Prima di questa casa
Quanti passi
Prima di questa scrivania.

Ho incontrato gente
Soldati
Donne e vecchi
Re e poeti
Gente in fuga
Dispersa
Nelle loro terre
E io andavo
Oltre.

Ti ho cercata dove il sole sorge
Ti ho cercata dove il sole tramonta
Ti ho cercata nel cielo
Di una casa senza muri
Ma solo finestre
E tu sei solo una memoria
E un suono che si spegne
Lontano.

Mi raccontavano di averti vista
Un attimo prima del mio passaggio
Ma tu eri sempre un po’ più in là
E io andavo
Avanti
Camminando sul ghiaccio
Immerso nella guerra
Sepolto dalla neve.

Pastrano scuro
Stivali pesanti
Guanti lanosi
E il buffo cappello.
Poi la barba
La mia bionda barba.

Racconteranno leggende
Sul passaggio di un uomo
Dal capo chino
Dagli abiti invernali
Dagli occhi color del cielo.

O la guerra ucciderà
Tutte le leggende
E il ghiaccio seppellirà
Tutto il passato.
Persino quegli occhi.

Sei rimasta lontana
Ed io ero stanco
E qui mi sono fermato
Nella casa senza muri
In mezzo al cielo.

Attendo,
Non smesso di cercati
Ma aspetto
Che sia tu ad entrare
Da quella porta
Che mi separa
Dal ghiaccio
Dalla guerra
Dalla neve
Da te.

Il suono del caffé si mischia
Al suo profumo e vinco la fatica
Di alzarmi e lasciare i fogli
Sparsi
Sulla scrivania
Sul letto
Per terra sul legno
Decorati
Della mia
Fanciullesca grafia.

La tazza fuma e sorseggio
Piano, ogni tazza è forse l’ultima tazza
E poi resterà solo acqua
Ancora per poco
Calda.

Le nuvole nel cielo
Sono scomparse
Forse fuggite
E un pallido sole
Rischiara il mezzogiorno
E il ghiaccio
E la guerra
E la neve che continua
A cadere.

Non ci sono più libri
Combustibile arso da tempo
Delirio per un momento di tepore
Barattato con l’eterno
Consolamentum
Delle parole.
Ora
Solo silenzio
Intorno
Sulle mensole
Di librerie
Vuote.

Uno sparo,
Forse un soldato
M’affaccio da una delle finestre
Ma non vedo nulla
Se non ghiaccio
E la neve
Che cade
Era solo
Un altro
Ennesimo
Suicida.
La sua pistola,
Invidio la sua pistola.

Quanto tempo?
Da quanto tempo sono qui?
In questa mia casa senza muri
Che sorge a ridosso del cielo?
Da dove arriva questo ghiaccio
E la neve
E la guerra?
La bomba è davvero
Scoppiata?
Boom.

Domande scritte nella neve.
E basta un battito di tempesta
Per lavarle via
E nulla resta.

Steso sul letto
Le braccia aperte
Le gambe aperte
Sono un angelo
Vitruviano
E dalle lenzuola scure
Fisso il soffitto
Le pareti
L’ombra di un armadio
Che ora è cenere
Sparpagliata ovunque
E l’orologio
Fermo ad un tempo
Scomparso
Chiudo gli occhi
E non vedo il ghiaccio entrare
Dalla porta e piano
Scivolare nella stanza.
Continuo a far finta di dormire
Magari non si accorgerà di me.

Ghiaccio.
Ovunque.

Sulla scrivania
La penna è inutile
Incido il foglio con un coltello
E cerco di lasciare
Una traccia
Di un passaggio
Di una sosta
E di una ricerca
Che non si è conclusa.

In vano tento
Di ferire il tempo
E lasciare
Lo sfregio
Del mio presente.
Di questo tempo
E di questa casa
Mia.

Il foglio si lacera,
Si spezza e si frantuma
Patina sottile, cristallo
Di ghiaccio.
E le parole restano mute
La mia memoria
Incontaminata
Non si farà verbo.
Non sarò dio.

La guerra è vicina
Il ghiaccio è qui dentro
E la neve continua a cadere.
Impassibile.
Belle Dame.
Sans merci.

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26 agosto 2008

Ghiaccio e Guerra - prima parte.

Ghiaccio e Guerra
I

Là fuori vi sono solo
Ghiaccio e Guerra

E io ascolto il clamore di battaglie
E il luccichio della neve
Che cade.

Ascolta, lo senti anche tu?

Forse è un urlo, una sirena,
Una mina che esplode,
o è solo il silenzio
di questa scrivania legnosa?

Alzo la testa e guardo
Fuori, solo bianco
Non vi è nulla
Se non bianco
E qualche rada esplosione.

Odo l’orizzonte che riecheggia
Un tonfo, un sordo lamento
Un urlo.

Lo odi?

Ascolta il mio stesso
Silenzio.

Il giradischi nella sala accanto
Gracchia guasto
E il vecchio vinile
Non svela l’incanto
Della musica antica.

La casa è piccola
Grandi finestre e vetri crepati
Un tempo aleggiava un profumo
Ma ora solo un vago odore
Di ghiaccio,
di neve
e polvere da sparo,
neppure più gli insetti
molesti
si fermano a curiosare.

In alto
Nel cielo
Grigio
Nuvole pesanti ed io
Penso a lei
Che si muoveva come le nuvole
Nei cieli
Inafferrabile.

Grigio e minaccia di pioggia,
la pioggia del mattino
quella fredda che cade sulle rovine
sulle tombe, sulle strade deserte
di questo panorama mesto
dipinto su questa grande finestra.

Freddo, le mani sono gelate
La sensibilità altrove
E persino la penna pesa
Come un macigno da condurre
Oltre il valico,
Eternamente.

Il legno si screpola, il foglio
Si consuma e l’inchiostro
Si ghiaccia in questo mio
Solitario raccontare
Il ghiaccio
E la guerra.

Bianco e rosso
Freddo e sangue.
Ghiaccio e Guerra.

Non ho mai creduto in Dio
E neppure posso pregare
O urlare insulti
Contro un altro volere
Perché il caso
Solo il caso
E nessun mulino a vento
Mascherato
Mo ha confinato qui
In questa mia casa.

Senza di lei.

Non ricordo più neppure il suo nome
Ma ho imparato a ricordare il mio e lo ascolto
Ripetuto sulle mie
Insanguinate labbra.
Conosco il mio nome.

La porta è là dietro,
un poco oltre il letto disfatto,
quasi la dimentico
aperta ma nessuno entra
in questa stanza
e la neve cade sul ghiaccio
sino a spezzarlo
e sprofondare.

Ghiaccio e guerra
Battaglie congelate
In istanti immobili
Senza esito, statici
Diorami di identici soldati,
sul punto di morire.
Morituri.

E io continuo a scrivere
Sino a che la pagina
finisce e il pallido sole
tramonta e il nero della notte
si riflette sul ghiaccio
e nei suoni della guerra.

In questa casa che guarda
I monti e alcune piramidi
Poco lontane
Attendo che la battaglia arrivi
E il ghiaccio giunga
E mi reclami alla sua
Imperitura
Perfetta immobilità.

Arriveranno prima gli scricchiolii
Del gelo o il ritmo
Distorto
Delle cannonate?

Intanto la neve
continua a cadere
E avvolge ogni cosa,
la mia vista
è priva di ogni cosa.

Io guardo fuori
E vedo piccole orme
Che vanno scomparendo
Non le riconosco, qui intorno
Non c’è nessuno da così
Tanto tempo,
forse sono le mie
o le tue
e tu stai salendo le scale,
i gradini di legno
per bussare ad una porta
e annunciare il tuo
sorriso.

La mia porta resta
Silenziosa
E io continuo a scrivere
E il ghiaccio a conquistare
E la guerra a devastare

E su tutti la neve
Non smette di cadere.
Indifferente.

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10 agosto 2008

Connettivismo e Fantascienza

Il Connettivismo si pone ad una prima indagine come una corrente inserita a pieno titolo all’interno dei canoni della fantascienza, tanto che per molta critica non sussiste neppure una differenza peculiare e profonda tra l’uno e l’altra, sino ad arrivare ad un’identificazione di fondo, un indistinto amalgama che non riconosce al Movimento Connettivismo specificità sue proprie.
Tale presunta identificazione è facilmente scardinabile semplicemente ricordando come il Connettivismo, nel suo stesso definirsi e nel suo stesso arroccarsi in un’identità condivisa tra i vari autori (scrittori, artisti, fotografi che siano), delinea una specificità che non può essere ignorata. I Connettivisti si riconoscono tra di loro, condividono un intento, uno stile e una visione del mondo e della letteratura. Basterebbe questa affermazione a rendere vano il tentativo di riduzione del Movimento a semplice SF, anche ammettendo che a tutt’oggi sia ancora piuttosto arduo dare una definizione esaustiva
[1] del Connettivismo.
Sgombrato il campo da ogni facile tentativo di semplificazione del Movimento resta da osservare quali siano le specificità che permettono il riconoscimento di una peculiarità all’interno del genere. Cosa permette di differenziare il Connettivismo dalla Fantascienza?
Rispondere a questa domanda non è complesso: la novità. Il Connettivismo, come già ricordato, è sorto sull’humus di una fantascienza italiana che, a parte casi sporadici e pressoché relegati a pubblicazioni di bassa diffusione, è ancora confinata dentro meccanismi consumati, pregiudiziali odiose e luoghi comuni banali. Non stiamo parlando solo della produzione autoctona che è, al contrario, spesso ricca di voci di grande interesse
[2] ma in generale della percezione che la cultura, l’opinione pubblica, il pubblico ha della fantascienza. In Italia (e i motivi sarebbero da svelare) più che in altre realtà la SF è confinata a genere di serie B, riservato ad un pubblico autoreferenziale e vista ancora attraverso le lenti pregiudizievoli che ben poca strada hanno fatto dai tempi di “Star Trek”.
Insieme ad autori non appartenenti al Movimento i Connettivisti stanno cercando di portare avanti un’operazione di svecchiamento e di innovazione della tradizione SF italiana, tradizione che ha la necessità di essere riscritta, totalmente ripensata, reinventata da penne che siano criticamente e consapevolmente immerse nel presente e che possano portare non solo nuove immagini ad arricchire l’iconografia di genere ma soprattutto che possano fare della forma fantascientifica il luogo in cui sfogare le angosce dell’oggi e dell’immediato domani.
La SF italiana ha bisogno di uscire dalla nicchia delle convention dedicate al suo consueto pubblico in cui diventa difficile distinguere lo scrittore dal lettore e viceversa; deve evitare il rischio di sclerotizzarsi su se stessa sino a perdere quello che è stato per lungo tempo il suo tratto peculiare, la sua specificità, ovvero il suo potere predittivo e immaginativo.
Riscoprire la fantascienza per se stessa, donare di nuovo alla sf le sue specificità, le caratteristiche di genere che le erano proprie e che via via si sono perse in una deriva di banalizzazione televisiva. Sono diverse in Italia le figure che a più livello (editoriale e narrativo) stanno portando avanti questo progetto anche se i risultati concreti paiono essere ancora piuttosto lontani.
Il Connettivismo però si rapporta alla fantascienza in un modo diverso, completamente nuovo, consapevole della necessità di un’operazione di carattere apertamente rivoluzionario. La SF non è allora per il Connettivismo il fine del suo “agire letterario”; lo svecchiamento del genere, il rinnovamento di una produzione spesso polverosa ed arrugginita non è il solo ed ultimo scopo delle pagine Connettiviste. Vi è altro e questo altro è un cambio di prospettiva radicale, una sorta di Rivoluzione Copernicana in senso Kantiano.
La fantascienza non più come fine dello scrivere fantascientifico ma come mezzo, strumento, pretesto per giungere ad un fine ulteriore ad essa. Un intento che trascende il genere stesso e che lo trasforma in ideale veicolo, terreno di cultura per la rappresentazione di un significato e di una ricerca successiva.
L’abbiamo mostrato in queste stesse pagine nell’Iterazione precedente e lo faremo in tutte le altre che verranno: il Connettivismo non si esaurisce nella lettura del suo contenuto manifesto, nella fruizione della sua narrativa ma, con buona pace di molti, va oltre ogni finalità di puro intrattenimento e corre spedito verso la filosofia, la sociologia, l’antropologia, l’escatologia, insomma il logos della realtà. Scopo del Movimento è osservare, indagare, descrivere, comprendere (nel senso Diltheyano del termine
[3]) l’attimo presente, il momento in movimento, l’uomo nel suo adesso che è orlo del suo domani, un domani in bilico sul baratro di un’evoluzione, di un abisso postumano, di un salto quantico che attende poco oltre e che comincia a far sentire vaghi echi e rintocchi che si fanno prossimi.
Ci si sente sul limes di un ottimismo sregolato e di un pessimismo depresso.
Siamo a pochi passi dalla cascata, non la vediamo ancora ma ne sentiamo le urla fragorose. Il Connettivismo questo ci racconta e lo fa con le sue diverse anime, l’una fiduciosa, l’altra disillusa.
Il Connettivismo, in una prospettiva che ricorda da vicino le scelte Dickiane, è consapevole che solo la fantascienza ha in sé il potere immaginifico, evocativo e soprattutto la potenza epistemologica per intuire ciò che sta oltre e ciò che sta per cambiare.
Nell’identico modo della “parola ermetica”, la “parola fantascientifica” penetra la realtà sino alle sue più profonde origini di senso e le disvela, le mostra. Un’ostentazione non manifesta e aperta ma espressa attraverso la narrazione filtrante che è propria della SF. La “parola fantascientifica” ha dunque il potere evocare il significato della realtà, ovvero ciò che è di fronte all’uomo in questo momento, ora).
Evocare nel senso di riecheggiare lontano ma soprattutto di portare con sé un’aurea emozionale che “colora” ciò che sarebbe altrimenti solo asettica spiegazione scientifica matematica.
Spiegare i processi chimici alla base di un’operazione di clonazione del proprio DNA non equivale epistemologicamente e esistenzialmente a raccontare l’angoscia, la paura, la speranza, i dubbi, il mistero che si nasconde nell’atto clonativo
[4].
Il Connettivismo indaga il reale e lo fa con uno strumento che gli consente di dire il fatto e l’emozione in una rappresentazione del reale che è umanamente fondata.
Si comprende ora come per il Connettivismo il fine del suo agire letterario e filosofico non possa essere semplicemente la pura narrazione fantascientifica, neppure l’intento liberatorio e innovativo, persino rivoluzionario. La fantascienza è utilizzata come utensile per poter svolgere un compito che rimanda ad un fine che sta oltre e che ha intenti conoscitivi e predittivi.
Se il fine ultimo del Connettivismo, e forse addirittura la sua ragion d’essere, è l’indagine esistenziale di un presente (questo presente) che mai come altre volte è percepito instabile verso salti repentini ed evolutivi, allora la fantascienza è l’unico veicolo possibile per giungere a descrivere (e nel farlo comprendere) questo nostro tempo, la nostra epoca perché la SF è il solo genere che ha in sé le potenzialità infinite e senza limiti di spaziare nelle ipotesi più inverosimili e, quindi, più sensate.
Solo la fantascienza, tra i generi, permette di creare mondi con regole impossibile e pretendere dal lettore la cieca fiducia e l’attribuzione del criterio di verosimiglianza sino alla conseguenze ultime e più radicali
[5].
Il radicalismo che le è proprio è ciò che il Connettivismo sfrutta per mostrare al lettore l’alba di un giorno, forse prossimo, ma incredibilmente diverso da oggi.
L’alba del giorno postumano.

[1] A meno di rifugiarsi, come fa il buon Masali nell’Introduzione all’Antologia: “Frammenti di una Rosa Quantica”, in sagaci scappatoie tautologiche.
[2] Citerei a questo proposito l’ottimo Tonani.
[3] Si veda a tal proposito: “Studi per la fondazione delle scienze dello spirito” (1905-1910).
[4] Ancora una volta questa pagine attingono alla riflessione e alla saggezza di Edmond Husserl e del suo “La Crisi delle Scienze Europee e la Fenomenologia Trascendentale”.
[5] Come imporre al lettore di creder vero che il Tempo, per una qualche strana ragione, dedica di scorrere al contrario e così imporre al lettore la “verosimiglianza” di nascere vecchi dalle tombe e morire feti nell’utero materno (“In Senso inverso” P. K. Dick).

05 agosto 2008

Tiresia, il Priore.

Pensa a Phleba (17)
Non era più neppure il ricordo di un uomo. Spariti gli arti superiori, il tronco s’incurvava spinto verso il basso dalle mammelle enormi e cadenti, avvizzito retaggio del superamento di ogni genere, di ogni limite. Vecchio e donna. Cieco, se ne stava maliziosamente disteso sulla servostruttura robotica di movimento, cingoli metallici e silenziosi che avanzavano sottomessi al volere biomeccanico di sinapsi estese e potenziate. Avide. Le gambe da anni giacevano in qualche discarica biologica ad imputridire, inutile accessorio umano spazzato via persino dalla memoria.
Tiresia, il Priore, il Cieco, restava accovacciato al suo scranno mentre la sera scendeva oltre l’orizzonte e la seconda luna spariva dalla volta celeste del Sacro Pianeta. Nero. Il panorama del Priore era nero, i suoi occhi sacrificati molte decine di anni prima, estremo tributo all’impianto di bulbi oculari metallici, sfere argentee che gli avevano donato la meraviglia della sua assoluta postumanità. La realtà non aveva più potuto nascondersi alla sua vista. Ma il tempo era stato impietoso e si era accanito contro Tiresia devastandogli i nervi ottici e vaste aree della corteccia dell’encefalo; nessun intervento nanotecnologico era stato in grado di ridurre il danno, rallentarne il processo di decadimento e di devastazione.
Tiresia era divenuto cieco. Tiresia era il Priore dell’Ordine, Tiresia era il Cieco.
L’ultimo cieco, paradosso della razza postumana, assurda coesione di una menomazione spregevolmente umana e la totale, incondizionata, illimitata evoluzione all’oltre metallico.
Nel nero scavato dei fori in cui un tempo albergavano i suoi finti occhi postumani Tiresia, il Priore, aveva ora impiantato congegni inauditi di segreta e raccapricciante potenza. Misterioso frutto di una tradizione religiosa ed inconfessata.
Tiresia, l’ultima vittima del Tempo, aveva sconfitto il Tempo.
Tiresia, il Priore, era il Veggente.
Il Futuro confuso si districava davanti nel buio della sua non-vista fino a che ogni cosa diveniva limpida, luminosa. Come quella sera viola. Tiresia, il Cieco, vedeva il futuro, lo governava e lo violava nel sottometterlo a sé e alla sua illimitata bramosia.
Improvviso venne un rumore. La porta.
La dattilografa entrò nella stanza di Tiresia e il Priore, più per un riflesso condizionato che per vera necessità, alzò lo sguardo e disegnò nella mente i tratti grotteschi della creatura subumana che gli era di fronte. Costruzione bioingegneristica senza consapevolezza di sé, senza neppure un nome, un’esistenza. Essa era nulla. Prodotto di infiniti incroci genetici, basi con basi, tentativi ripetuti a migliaia sino a giungere alla combinazione perfetta. Al risultato utile.
Una creatura biologicamente modificata, un essere creato per scrivere le note del Priore, Tiresia, il Cieco.
Tiresia non le prestò attenzione e restò perso tra i suoi pensieri. Nel futuro che aveva letto non vi era nulla di interessante nella sera viola che sciabordava verso la notte.
Si sbagliava.

Priore.

La dattilografa aveva parlato. Tiresia corrucciò la fronte. Non aveva previsto questa intrusione. Che voleva quella creatura inutile?

Che vuoi?

E’ arrivato il dispaccio della nave di fregata “Ezra”. Pare che abbia raccolto un segnale proveniente dal quadrante 22.

Il quadrante 22? Ma è quello del…

Neppure il Priore Tiresia riusciva a pronunciare il Nome. Il Nome del luogo che non è un luogo, il Nome della Desolazione assoluta, il Nome dell’Ontologia che si ritorce urlante e sbavante contro se stessa.
Il Quadrante 22. Lì vi era solo un pianeta. Il Pianeta. La Terra Desolata.

Cosa dice il segnale?

Nulla, Priore. Il segnale non dice nulla. E’ solo il faro di segnalazione di una Tuta Protettiva senza più il suo soggetto possessore. Solo un’identica ripetizione di un fascio di neutroni. Nessun significato.

E’ impossibile! Il dispaccio deve essere errato. Non l’ho previsto. Non ho visto questo!

Mi spiace Priore ma il dispaccio è stato già ispezionato. Il segnale è forte e limpido. E’ la Tuta del Marinaio Phleba.

No. Non è possibile. Non può essere morto. Non era questo ciò che ho visto! Cosa è successo? Perché non l’ho visto?

Altre urla.
La dattilografa uscì dalla stanza senza far rumore, la disperazione del Priore non le interessava, era stata progettata biologicamente per prendere appunti e riportarli fedelmente sul supporto menmonico dell’Abbazia in costante connessione con le altre dimore sparse in tutto l’universo. Avrebbe salvato il contenuto del dispaccio della nave “Ezra” nella rete semivivente che connetteva ogni avamposto dell’Ordine. Di lì a poco la morte di Phleba sarebbe stata conosciuta da tutti.

Nella sua stanza il Priore Tiresia se ne stava immobile, scomodamente adagiato sulla sua struttura semovente mentre lo sguardo cieco volgeva verso il cielo. Non lo poteva vedere. Non poteva vedere l’ora viola, l’ora della sera che volge al ritorno e che porta a casa dal mare il marinaio.
Phleba.

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