27 maggio 2008

La Roccia Rossa

Pensa a Phleba (7)
La roccia rossa spuntò all’orizzonte mentre Phleba stava sonnecchiando. Gli arti inferiori artificiali avanzavano nel deserto senza il controllo cosciente dei gangli nervosi e del cervelletto. Un centro di controllo del movimento, tubero di nanotecnologici collegamenti, consentiva alle gambe di avanzare meccanicamente, passo dopo passo. I sensori esterni della tuta offrivano una sufficiente protezione contro eventuali imprevisti o inaspettate minacce.
Phleba aveva chiuso gli occhi e si lasciava cullare dal ritmo lento della camminata, si abbandonò ad un sonno leggero e senza sogni. Quasi si illuse di non essere stato abbandonato sul mondo e si lasciò semplicemente trasportare.
Fu il bulbo destro ad accorgersi della roccia rossa che spuntava verso l’orizzonte. Senza svegliare Phleba autoregolò lo zoom a 100x e scattò qualche fotografia che salvò sul proprio supporto di memoria, avrebbe richiamato le immagini all’eventuale comando di Phleba. Intanto gli arti continuavano ad avanzare e la direzione che avevano preso nel caotico nulla del deserto era quella che portava dritta dritta alla roccia rossa là in fondo.
A due chilometri in linea d’aria dalla roccia rossa Phleba si scosse. Tutti i servosensori erano in fibrillazione, led invisibili si accendevano e spegnevano, passaggi neuronali accompagnati da impulsi al silicio vorticavano nel talamo, una strisciante sensazione di percolo gli correva lungo la schiena. Stava succedendo qualcosa.
Richiamò a sé le immagini registrate dal bulbo oculare nell’ultima mezz’ora e vide la roccia rossa. Niente di strano in apparenza. Una semplice cumulo che spuntava dal deserto. Osservò in presa diretta l’ammasso roccioso intensificando lo zoom a 250x ma a parte la superficie gibbosa della pietra non vide nulla. Amplificò i sensori della tuta protettiva alla ricerca di tracce di organismi viventi, battiti cardiaci, calore corporeo, odore feromonico, linguaggi semicodificabili ma non trovò nulla. Nel raggio di miglia non vi era traccia di alcuna creatura viva, tutto era morto. Tutto tranne se stesso pensò Phleba.
E allora perché i servoricettori sembravano impazziti? Cosa stavano rilevando? Perché non riusciva ad interagire con essi?
Phleba si fece cauto. Zigzagando si avvicinò alla roccia rossa, i ricettori esterni attivati alla massima sensibilità. Continuava a non captare nulla ma non si fidava. Qualcosa doveva nascondersi intorno alla roccia rossa. Ma cosa?
Il cumulo ora incombeva su di lui, alto una decina di metri, la forma a ricordare una struttura piramidale, frastagliata, confusa. Di soppiatto si guardò in giro, niente, ancora nulla. Silenzio, desolazione, deserto. Null’altro. Solo la roccia rossa.
Si avvicinò sino quasi a sfiorarne la superficie, allungò la mano ma non toccò la parete ruvida. Immobile lasciò che il tempo si fermasse, lentamente cercò di rimanere ancorato al singolo momento di un presente dilatato, tentò di comprendere il senso stesso della roccia rossa. Nessun significato. La roccia rossa restava muta e in quel deserto in cui era immerso non vi era altro suono che il trillo fastidioso dei led degli allarmi della tuta. Dov’era il pericolo?
Phleba si sedette, era stanco. Stanco di quel mondo, stanco del deserto che lo circondava, stanco della roccia rossa senza senso che aveva di fronte, stanco di sé stesso.
Sprofondò nella sabbia rossastra, la tuta protettiva regolò la percezione della temperatura nelle zone di contatto con il suolo bollente e Phleba non si rese neppure conto di quanto scottasse il terreno sotto di lui.
Le gambe piegate, la schiena poggiata alla roccia rossa Phleba alzò la mano destra e la mise davanti agli occhi a mò di visiera, guardò ovunque ma non vide nulla. Il mare viola dei lillà era ormai lontano chilometri e ovunque era sabbia e rocce infuocate dal sole invisibile che dominava l’orizzonte.
Qualcosa però continuava a sembrargli sbagliato, non erano solo i led impazziti a trasmettergli una vacua percezione di pericolo, c’era altro. Una sensazione che veniva da dentro, dal suo profondo. Un disagio, una senso di stranezza, di inganno. Di falsità. Phleba si grattò il capo e i pochi capelli radi protetti dalla tuta e dal berretto dell’ordine monastico. Soffocò un’imprecazione e fece per alzarsi quando se ne accorse. Di fronte a lui qualcosa di sbagliato. L’ombra. Phleba era immerso in un ombra densa, scura, un grigio cupo, una pennellata triste sul manto rosso del deserto. Si alzò di scatto e corse intorno alla roccia rossa. L’intera base aveva un perimetro non più grande di una ventina di metri e Phleba non ci mise molto a compierlo tutto. Ecco l’inganno.
L’aveva avuto davanti a sé per tutto il tempo ma non se ne era accorto, cercava altro, cercava un oggetto, un essere vivente, cercava una minaccia vera, concreta. Un’ipostasi contro cui lottare, il suo personale mulino a vento, non poteva aspettarsi quello. Lo scempio, l’ennesimo eccidio di ogni regola, postulati infranti, assiomi insultati, naturalità immonda.
L’ombra avvolgeva la roccia come un anello, un perfetto cerchio, che si estendeva oltre la base della roccia rossa per pochi metri, una circonferenza geometricamente impeccabile, come una dipinto di qualche antico maestro o una computazione videografica precisa. Sostruzione ideale di un pensiero puramente matematico.
Phleba era immerso nell’ombra grigia della roccia rossa e guardò il cielo alla ricerca di un sole a perpendicolo che potesse spiegare, che potesse far supporre una vaga, illusoria ma razionale, risposta. Nessun sole. La luca sembrava venire da ogni punto del cielo, irradiata da una miriade di infinitesimali invisibili soli. Non vi era nessuna empirica consolazione.
Phleba si accasciò a terra. Stremato. L’abominio innaturale che lo circondava gli toglieva le forze, lo spossava, la sua mente non era abituata a ciò che stava affrontando; solo caos, caoticità, irrealtà. Lì davanti ai suoi occhi. Sempiterna impossibilità. Pensò alla sua ombra, all’ombra che al mattino lo seguiva e alla sera lo precedeva, quasi venendogli incontro. Pensò alla sua forma che tante volte aveva sbadatamente osservato dipinta per terra e sorrise. La sua ombra, cangiante, pesante e leggera, chiara e scura, sottomessa ai capricci del tempo, delle nuvole nel cielo, della forza del sole, la sua imperfetta ombra era la prova, urlata, manifesta, vera, vera, vera, che lui era una creatura normale, ontologicamente sana, reale. E non un abominio. E non l’abominio che intorno trionfava

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14 maggio 2008

Questa sera ho visto il muro

Dipingi il mondo

Dipingi il mondo
Da una finestra cieca.

Ascolta il suono delle stelle
Cadenti,
Pensa all’acqua
Che ti avvolge.

Siedi nella mia stanza
E sul palco smetti
Di recitare.

Incidi il vento
Del sud
E danza litanie
Funebri.

Il fiume scorre e insegue
La fonte
Una piccola barca va
Alla deriva.

Ricorda le note
Di violini scordati
Cavalca l’ansa
Di una duna.

Questo il mio nome
Null’altro ho da offrire.

Biografia riflessa
In uno specchio
Argentato.


Come un silenzio


Come un silenzio
Le note di Schubert
Placano la mente.

Deserto musicale
E tutto è solo
Polvere di nulla.

Scompare persino il dolore
Di un corpo
Segretamente malato.

La follia
Il ricordo
L’altra vita.

Sussurrano i violini
E gli altri archi
Solo un’antica melodia.

Canta incessante
Il nome mio:
Chiudo gli occhi

Conosce il mio nome.


Questa sera ho visto il muro

Questa sera ho visto il muro,
limpido sguardo oltre un velo
e il castello ne resta avvolto
come un’afosa nebbia.

Creature senza volto
Appese a tralicci di un vagone dipinto
Che corre ridicolo
In circolo perenne.

Ed io vedo nei loro occhi
La tristezza
E maledico me stesso,
Archeologo del dolore.

Stasera ho visto il muro
Me nessun vago infinito aldilà
Se non un solito cammino
E altri urlanti poeti.

Mercanti fenici e niente altro
Solo un muro in cui affogare
Senza alcuna eretica
Resurrezione.

Statico resta il mio nome.
Tratto sul polso e biografia incisa
Sulla viva corteccia di un sempreverde
Che guarda al sole.

Stasera ho visto il muro
E resta solo il mio nome
Il muro è lontano,
Intatto vigliacco.

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12 maggio 2008

Il cammino

Pensa a Phleba (6)
Phleba si incamminò nella distesa viola, ad ogni passo migliaia di lillà venivano calpestati, sterminati dalle suole rinforzate dei suoi stivali ma Phleba non se ne curò. Non vi era alcuna bellezza da preservare, nessuna estetica da salvaguardare. I lillà erano solo l’ennesima manifestazione demente di un’impossibilità che ostinatamente continuava ad esistere, a sopravvivere, a procrearsi ininterrottamente, a trionfare. Ogni passo era una sadica ribellione, un urlo sbattuto in faccia all’ontologia deformata del mondo e Phleba ne provava un sottile piacere, anacronistica testimonianza di un tendere a Dio, di confondersi con la sua onnipotenza.
Ad ogni passo pestava il suolo del pianeta con cattiveria di cui era solo in parte cosciente, una rabbia recondita che si sfogava spostando tutto il peso del suo corpo sulla pianta del piede, premendo. Distruggendo miriadi di lillà. Goccia in un mare viola inestinguibile.
Camminò per ore circondato solo e sempre dal viola glaciale dei lillà. Non volle regolare i bulbi oculari, lasciò che la percezione dei colori fosse quella naturale, senza alterazioni imposte. Viola era il mondo intorno a lui, viola ciò che voleva, doveva vedere. Nessuna facile scappatoia. La sua postumanità metallica gli avrebbe anche permesso di cancellare quell’orrendo colore dagli occhi ma avrebbe rischiato di fargli dimenticare anche per un solo momento l’abominio in cui era immerso. Nessuna consolazione. Solo la densa realtà dell’orrore.
Camminò per ore, la luce che si diffondeva dal cielo, pallida, sbiadita, fredda non mutò, nessun tramonto sembrava profilarsi all’orizzonte e tutto intorno a lui sembrava avvolto in una bolla di staticità. Di demente atemporalità. Solo i suoi passi, il mare viola dei lillà e niente altro. Era preparato. Era stato addestrato alla follia che avrebbe trovato, all’abominio in cui sarebbe stato immerso, sapeva come combatterlo, come affrontarlo.
Ma perché allora sentiva dentro di sé una strana pressione? Perché sentiva in lontananza, al confine fra la sua coscienza e l’oltre indefinito delle voci? Da dove venivano quelle risate? La follia… Phleba intuì per la prima volta che dentro la sua mente non era solo, e, forse, non lo era mai stato. Tentò di ascoltare le voci, non riuscì però a scorgere nulla di intelligibile, un brusio, un vago mormorare oltre la soglia della comprensibilità. Un bisbiglio fastidioso, un parlottare fra sé che sembrava nascondere dentro di sé, quasi che ne fosse stato imbevuto, un’emozione, una cattiva emozione. Un insano desiderio di morte, di distruzione, di annichilimento sanguinolento e crudele. Una preghiera alla distruzione di sé stessi, alla feroce devastazione della propria coscienza e di ogni senso recondito. Phleba ebbe paura. Paura di sé stesso, paura di cosa sarebbe diventato proseguendo il suo viaggio in quel mondo, paura di qualcosa ben peggiore della morte. Paura della carne che vive senza coscienza.
Intonò un canto. Un canto parco, scarno, una litania. Ritmi ancestrali nascosti dentro la sua coscienza di specie, in essi si perse, si annullò, dimenticò se stesso e le voci che da lontano parevano venire, continuò solo a camminare, immerso nei lillà, circondato dal viola, ignorando la follia che l’aveva accolto materna. La follia che non lo avrebbe abbandonato mai più.

Il viola finì all’improvviso, una linea netta, come una ferita perfetta, un solco inatteso. Phleba non fu sorpreso. Osservò i lillà terminare il loro dominio. Si chinò sul limitare della distesa e raccolse un fiore, uno degli ultimi fiori sul confine, un guardiano del limes. Lo guardò attentamente. Sapeva cosa vi avrebbe scorto ma lo stesso non potè non sentirne l’orrore, l’innaturale realtà. Il fiore esisteva a metà, separato, reciso di netto. Tutta la parte destra era stata cancellata, forse neppure mai esistita. Come se oltre ad un certo, preciso, puntiglioso punto alla marea viola dei lillà non fosse stato consentito di estendersi e persino il singolo fiore si era dovuto sottomettere a questa folle regola. Dio stesso si era preoccupato di non consentire al lillà che Phleba stringeva fra le dita di essere uno, di essere un semplice normale fiore e non un incompiuto nulla a ridosso di un confine ridicolo.
Phleba gettò via il fiore che si perse nel mare viola e avanzò. Non si voltò ad osservare la distesa dei lillà, non vide i fiori fremere, non li vide scuotersi, non si avvide del loro tendere in un famelico, animale, desiderio di possessione. Desiderio di morte.
Di fronte a Phleba ora solo un deserto rosso. Terra fine, essiccata, moribonda e rossa. Phleba conosceva quella zona. I satelliti di rivelazione geocentrica avevano raccolto innumerevoli fotografie del deserto rosso. Un enorme territorio che si estendeva per buona parte del pianeta. Un deserto roccioso colorato di un assurdo rosso. Non vi era acqua in quel luogo. Non vi era mai stato neppure il ricordo dell’acqua su quel pianeta morto, solo rosso, solo rocce rosse e polvere rossa e sabbia rossa, e delirio rosso.
Phleba attivò una funzione della tuta di protezione e regolò la traspirazione con l’esterno. Da quel momento ogni goccia di liquido trasudata da Phleba sarebbe stata raccolta, depurata e rimessa in circolo. Un meccanismo quasi perfetto di totale recupero delle sostanze organiche. Sudore, urine, lacrime, saliva, tutto era destinato ad essere rimesso in circolo. Il degrado della percentuale di potabilità dei liquami organici depurati era così basso che Phleba avrebbe potuto sopravvivere per anni senza altre fonti d’acqua. Organismo semibiologico perfetto e autosufficiente, essere esiliato dal suo stesso ambiente, solitaria creatura alla deriva nell’inconcepibile assurdo.Il viaggio di Phleba proseguì.

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05 maggio 2008

I lillà

Pensa a Phleba (5)
La prima cosa che vide furono i fiori. Fiori ovunque, fiori. Un campo disteso che sembrava perdesi all’orizzonte. Fiori viola, piccoli, ammucchiati l’uni sugli altri, disordinati, caotici. Brulicante massa tumorale colorata che pareva senza fine.
Phleba fece un passo. Il primo passo sulla superficie del pianeta e sorpreso si accorse di poterlo fare, di potersi muovere. Non vi era apparente differenza. L’abominio sembrava identico alla normalità che aveva sempre conosciuto. Mimetico inganno. Illusione di una anormalità mascherata.
La tuta protettiva aderente alla pelle gli trasmetteva fedele tutti gli impulsi esterni provenienti dal mondo, immediatamente il suo ipotalamo provvedeva a trasformarli in sensazioni, in percezioni sensoriali, in qualia. Phleba sentì sul volto la brezza di un leggero vento, ne percepì la bassa temperatura ma non rabbrividì. Sotto i suoi piedi sentiva il terriccio secco dello spazioporto. Terra morta, terra essiccata dal caldo, terra infertile.
Fece un altro passo e i fiori si fecero più vicini. Erano là, a cinquanta metri da lui, sul limitare stesso dello spiazzo dello spazioporto, come in attesa di un attacco, di un’invasione che sino a quel giorno non era giunta. Promessa eterna di una guerra imminente.
Regolò lo zoom del bulbo oculare sinistro e l’innesto metallico, splendente nei suoi riflessi argentati si mosse leggermente regolando il fuoco del diaframma. Phleba attese la giusta profondità e osservò i fiori ingranditi a 200x.
Li riconobbe. Lillà. Una coperta fitta di lillà si era posata sul quell’area del pianeta. Phleba si chiese come fosse stato possibile. I lillà non erano originari della flora di quel mondo. Immaginò forse qualche seme caduto sbadatamente a un antico esploratore, seme che l’anomalia stessa del pianeta aveva fatto crescere, fiorire, esplodere in un’infinità di floreali discendenti. O forse era stato lo stesso pianeta a sognarli, a metterli lì, a farli esistere dal nulla di una fasulla non esistenza. Manifestazione di un incubo grande quanto un mondo.
Diminuì lo zoom del bulbo oculare a 20x e fece scorrere lo sguardo lungo la distesa viola che gli si parava davanti. Non v’era altro colore. Tutto era stato tinto di un violetto fastidioso, freddo. Phleba non vide né alberi, né arbusti, una distesa pianura livellata da un mantello spesso, ammassato di piccoli fori. Di lillà.
Un suono lo scosse. Il rumore elettronico dei motori della nave in accensione lo costrinse a voltarsi. Vide lo scafo biancastro del veicolo scuotersi e piano sollevarsi. Osservò la camera di decompressione che presto sarebbe stata espulsa, osservò la sala di osservazione che dall’esterno sembrava un bozzolo di vetro trasparente, la plancia e pensò al pilota. Lo invidiò come mai aveva invidiato nessun altro uomo. Il pilota stava tornando a casa. Stava tornando al pianeta d’origine. Si sarebbe lasciato dietro per sempre l’orrore in cui lui, Phleba, era confinato. Fu tentato di alzar la mano e, con un gesto universale, salutare il pilota che se ne andava ma non lo fece. Non ebbe la forza di sollevare l’arto. La desolazione del pianeta già si stava facendo strada in lui, consumandolo. Annichilendo la sua volontà.
La nave prese quota, lentamente si staccò dalla superficie terrosa dello spazioporto e si sollevò. Dieci metri, venti metri, trenta metri e poi si piegò su un fianco. Phleba si figurò il pilota sdraiato nel cunicolo di controllo, le sinapsi della corteccia esterna direttamente collegate all’intelligenza della nave tramite i neuro-trasmettitori indotti, immaginò gli impulsi elettrochimici dell’encefalo del pilota raccolti, catalogati e resi operativi. Ordini mentali dati alla nave.
Il pilota pensò. La nave ascoltò ed obbedì: i retrorazzi si accesero. Tre, due, uno… la nave sfrecciò via, punto di luce invisibile nel cielo terso del pianeta. Phleba restò ad osservare la porzione di cielo dove un attimo prima era ferma la nave. Deserto azzurro. Ora era solo.
Si voltò e vide i lillà.
Solo con i fiori viola.

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03 maggio 2008

Placet

Pensa a Phleba (4)
Coperto della patina della tuta, velo impenetrabile, mura a difesa della sua postumanità, Phleba terminò la vestizione indossando gli abiti talari del suo ordine militare. Abiti comuni a ricordargli che nessuna evoluzione indotta l’avrebbe disancorato dal mondo, dalle sue regole e dalle sue inutili tradizioni. Finì di allacciarsi i bottoni dorati della giubba e in un gesto orami sbadato, abitudinario, senza più alcun valore si appuntò al petto la spilla dell’ordine. Inutilmente elegante, anacronismo di una civiltà defunta che ancora si ostinava a estetismi decadenti, ridondanti, Phleba si avviò lungo lo stretto corridoio della plancia centrale verso la camera di decompressione.
Non vi era nulla da decomprimere.
Nessun dislivello atmosferico, nessun barometro a cui riconoscere il tributo di una ennesima ritualità, nessuna pressione assassina da placare.
Vi era solo l’orrore, l’immondo assurdo che se ne restava acquattato fuori dalla nave in attesa. Brulicante, selvaggio, odioso. Niente doveva sopravvivere al contatto con quel pianeta. Nessuna traccia, nessun ricordo, nessun imprevedibile residuo. La camera di decompressione era il baluardo finale tra l’obbrobrio e il resto dell’universo. Un errore avrebbe significato la fine, l’errore non era contemplato. Una volta in orbita la nave avrebbe espulso la camera di decompressione, lasciandola distruggersi contro il muro dell’atmosfera. Niente sarebbe rimasto. Nulla poteva sopravvivere al contatto con il pianeta. Phleba lo sapeva. Nulla sarebbe sopravvissuto al pianeta.
Tese la mano, strinse la maniglia della porta ermetica della camera stagna di decompressione e ci si infilò dentro. La porta si chiuse dietro di lui. Ingobbito dallo spazio angusto restò un lungo momento a fissare il corridoio della nave. Nessun luogo gli sembrava più bello; là, al sicuro nell’ontologia ordinata dell’universo comune.
Ma non poteva neppure più desiderarlo.
Chiuse gli occhi e pronunciò la parola.
La sua vita finì nello stesso istante.

- Placet.

E la porta esterna della camera di decompressione si aprì e la deformazione del mondo intorno urlò, invase la cabina e travolse Phleba.
Phleba non fece altro che aprire gli occhi e guardare intorno a sè.

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02 maggio 2008

Siedi se puoi tu che leggi

Siedi se puoi tu che leggi
Ho sognato altri miei stessi
Vecchi attori e sognatori
Seder solitari su una riva
Deserta di un fiume pacificatore
e un po' folli con un abaco infantile
Contar le stelle.

Ma stasera il sole è pigro
E il tramonto tarda
Pudica la notte non si mostra.
Le stelle stanno nascoste,
Meraviglia Nascosta
Lontana.
.
Siedi se puoi tu che leggi,
Resta nel silenzio di un buio denso
Ascolta lo scroscio di lontane fontane
E la pace di chiostri religiosi,
Di medioevali gradini,
Di folli menestrelli.

Siedi se puoi tu che leggi
E guarda le stelle
Sono certo arriveranno
E io le aspetto curioso
Camminando e vagando
Sotto il tuo stesso cielo.

La Vestizione

Pensa a Phleba (3)
Le note ristagnavano dense nella sala della vestizione. Phleba aveva gli occhi chiusi e lasciò che i canti antichi delle pianure delle sue terre gli scorressero addosso, lo toccassero, lo accarezzassero. Mantra solidi di mistiche tradizioni.
Si osservò riflesso nel grande specchio che decorava la sala. Nudo fece scorrere gli occhi sulle cicatrici di altre battaglie e sulle giunture di contatto fra la sua parte biologica e quella metallica, ne ammirò la perfezione. Contemplò il suo essere organismo semi metallizzato; le gambe, le bracca, alcune parti del torace erano state sostitute, la carne dimenticata e il metallo splendente, assoluto. Eterno.
Ripensò a riti, alle cerimonie che avevano attraversato la sua infanzia, religioso e sociale cammino verso la metallizzazione; riconosciuta e condivisa autobiografia nei dettami della memoria collettiva di massa. Riti di passaggio verso la totale appartenenza alla sua specie, alla sua gente. Certificazione dell’identificazione.
Nella metallizzazione progressiva del suo corpo, nella perdita delle sue radici biologiche, nel trionfo del metallo entrava nella comunità e veniva accettato, riconosciuto. Smetteva l’insopportabile solitudine della carne.
Phleba si chiese dove fosse la comunità ora, e quasi la invocò. Ma nessuno sarebbe venuto a salvarlo. Scacciò dalla mente quei pensieri e si concentrò su sé stesso, su ciò che doveva fare. E iniziò la vestizione.
Con un gesto attento, lirico nella sua tragicità estrasse dal piccolo cassetto incavato nella paratia della nave un fagotto. Lentamente lo srotolò e lasciò che la tuta di protezione cominciasse a respirare. E cominciasse a riconoscerlo.
Fu un attimo. La bianca superficie di stoffa parve scuotersi. Un leggero tremolio. Indistinto, come un alito di un vento che da nessuna parte pareva provenire. Tra le dita di Phleba la tuta presa vita. Si estese, si deformò, si contorse in un spasmo che ricordava più una morte che una nascita. Phleba restò immobile, le gambe muscolose, artificiali, salde e leggermente divaricate, le braccia distese a sorreggere la tuta e tra le labbra un motivo, una canto sussurrato, vago, così flebile da restare silenzioso ma troppo ornato per essere ricordato. Forse una preghiera.
La tuta di protezione si scosse in un ultimo, straziante rantolo e si disfece. Il tessuto trasmutò. Si fece un liquido oleoso, viscido di amniotica memoria e, con un gorgoglio disumano, si avvinghiò alle braccia di Phleba e senza indugi, senza esitazioni s’appiccò al corpo semi metallico dell’uomo. Prima le braccia, il tronco, le gambe, i piedi, il collo, la nuca e, con un ultimo soffocante slancio, la testa, il viso, gli occhi, le narici. La bocca. L’urlo di dolore di Phleba, la percezione della morte restò impressa sul liquido che andava solidificandosi. Un’istantanea scultura, un fotogramma tridimensionale sul volto deformato dalla paura, maschera violenta di statica agonia.
La tuta si compattò e aderì perfettamente al corpo di Phleba, seconda pelle di una seconda vita enormemente potenziata, evoluzione subitanea a stati ulteriori nella catena verso la deificazione. La tuta era Phleba e Phleba era la tuta, fusi erano una nuova creatura. Perfetta e pressoché immortale.
Ma per un lungo momento Phleba pensò di morire.
Ogni volta pensava di morire.
La tuta ricordava Phleba; il suo stesso codice genetico, ogni singola fibra del DNA era impressa nanotecnologicamente nella trama del tessuto. Ogni millimetro dell’ordito era una accurata riproduzione del menoma di Phleba. La tuta lo sapeva. La tuta non l’avrebbe mai dimenticato. La tuta era la compagna eterna di Phleba. La sua condanna infinita.
Ogni volta che la indossava Phleba temeva di morire.
Temeva che la tuta lo rifiutasse, forse per una segreta e inconfessata colpa, forse per una follia improvvisa e malvagia. L’attimo. L’istante tra il momento in cui la tuta lo possedeva e quando iniziava a respirare per lui, in quel lungo secondo di silenzio tra le pareti solide del tessuto bianco cristallizzato, Phleba moriva. E ogni volta rinasceva. Risurrezione reiterata in una meccanicistica assenza di dubbi. Nuova vita, vecchia morte e ancora vita.
La morte gli restava addosso. Come un ricordo troppo vivido che non riusciva a dimenticare.

- Capitano Phleba, cinque minuti al go-live.
- Sono pronto pilota. Sto scendendo.
- Al suo placet apro.
- Ricevuto. Al mio placet.
- Resto on-line, Capitano. Buona fortuna.
- Grazie pilota.

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01 maggio 2008

L'atterraggio

Pensa a Phleba (2)
Un impulso lontano, una sensazione indefinita di urgenza, qualcosa di sbagliato, di guasto. Con grande fatica si costrinse a rimanere appoggiato al vetro dello scafo e a guardare in basso, gli occhi fissi a seguire l’immondo assurdo che si ergeva dalla superficie del pianeta. Tentacoli, Phleba si figurò dei tentacoli che salivano spiraleggianti verso la nave avvinghiandola, stritolandola, violandola. Arti viscidi e purulenti, dita disarticolate e fameliche.
Una voce metallica lo scosse dai suoi pensieri. L’annuncio che la nave si stava preparando all’atterraggio, ancora poche centinaia di metri e sarebbero stati sopra la zona di planaggio.
Lo spazioporto era una distesa di terra rinsecchita, poche decine di metri quadrati, l’unico punto in tutto il pianeta in cui era stato possibile ritagliare uno spazio di stabilità, e mantenerlo intatto. Attimo contro la deriva dell’eternità.
Phleba restò a fissare la superficie del mondo che gli si faceva incontro e chiuse gli occhi un momento prima che gli artigli metallici della nave si ancorassero al suolo. Non voleva essere testimone del suo arrivo sul mondo. Non voleva serbare dentro di sé il ricordo, non poteva sopportare l’idea di avere davanti agli occhi per tutta la vita il momento.
La perdita dell’innocenza.

- Capitano Phleba, abbiamo toccato.
- Trenta minuti, poi pronti a ripartire.
- Vuole che le mandi l’assistente-nave?
- No. Faccio da solo. Da solo.
- Come preferisce. Chiudo.

La voce del pilota si perse velocemente e non ne rimase traccia nella piccola sala d’osservazione esterna in cui il Capitano Phleba si era rinchiuso. No. Non avrebbe chiesto alcun aiuto ai servo assistenti della nave. Si sarebbe preparato sa solo, gesto dopo gesto. Strato dopo strato. Come un rituale di iniziazione, una cerimonia silenziosa di commiato. Una pratica cultuale, segreto retaggio di religioni dimenticate ma mai estinte.
Aveva solo trenta minuti per prepararsi e per completare la vestizione della tuta di protezione poi la nave sarebbe ripartita e lui sarebbe rimasto sul pianeta.
La sua missione stava per iniziare.
Ordinò alla nave di attivare gli altoparlanti e nei locali si diffuso una canto soffuso, musica tradizionale del suo pianeta d’origine. Phleba si incamminò lento verso i suoi alloggiamenti.
Fuori dalla nave soffiava un vento cattivo, sibilante, un vento che non andava da nessuna parte.

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