28 maggio 2007

Tool - Schism Very GQ

21 maggio 2007

La Malattia

La Malattia
La ragazza si precipitò fuori dall’appartamento urlando, l’eco delle sue grida la seguì facendosi via via più acuto, come a causa di uno strano effetto doppler, fino poi a spegnersi oltre la piazza. Bionda, i capelli scompigliati ma ancora belli, puliti e lucenti, morbidi al vento e agitati dalla corsa frenetica. Era vestita con semplicità, una tuta da ginnastica, delle comode scarpe da tennis e un leggero giubbino a proteggerla dal clima che si faceva ogni giorno più autunnale, più freddo. Corse a perdifiato, continuando ad urlare finché non le scoppiò il cuore e allora si fermò ma non smise di gridare. La nota stridula fin lì incomprensibile si fece pian piano più chiara, e lo stridore disarticolato si tramutò in una singola, sola parola di senso compiuto, un nome. Un nome maschile.
- Jack!-
La cui unica vocale si estendeva in un momento infinito, dilatato e senza confini.
Fu così che la giovane donna scoprì di essere sola al mondo, così scoprì che il mondo che aveva conosciuto non esisteva più, così scoprì che l’assurdo si era fatto strada sino a lei.

Tutto era cominciato circa due mesi prima. Lei e Jack se ne stavano abbracciati sul divano ad guardare il telegiornale in attesa di decidere come passare la serata. Ricordava perfettamente le parole di lui, stava perorando con la sua solita dialettica raffinata la causa di un film che dovevano assolutamente vedere al cinema per non perdere il valore degli effetti speciali computerizzati, mentre lei preferiva l’idea di restarsene a casa, a far nulla, o forse a far l’amore e addormentarsi così, abbracciati, stanchi e appagati.
Con la coda dell’occhio e senza troppa attenzione lei seguiva la giornalista sullo schermo, insolitamente l’espressione della morettina che conduceva il telegiornale era tesa, preoccupata, non aveva il solito sorriso stampato fisso, fasullo e antipatico.
- Jack, stai zitto un attimo per favore. Fammi sentire.
- Cosa?
- Il telegiornale. Guarda miss sorriso, vedi che faccia?
- Le sarà andato di traverso il caviale del direttore
- Smettila! Ascolta
E così per la prima volta sentì parlare della Malattia.
- Sconosciute sono le cause.
La voce della giornalista era tesa come una lastra di metallo, il viso contratto, tirato.
- Al momento abbiamo solo poche notizie ufficiali, quello che sappiamo è che gli abitanti di un intero villaggio a venti chilometri da Kiev sono morti a causa di una patologia sconosciuta. I corpi completamente coperti da macchie nere. Non se ne conosce né le causa, né l’origine. Quello che appare strano è che molti cadaveri sono stati ritrovati in auto, seduti alle scrivanie, con borse della spesa tra le mani, come se gli uomini e le donne fossero morti all’improvviso, falciati lì, in mezzo alla strada, senza preavviso. Per ora le autorità ucraine tacciono e anche l’Organismo Mondiale per la Sanità non rivela nulla. Voci insistenti danno però già in viaggio una commissione di esperti in patologie virali per compiere indagini più accurate.
Vi ricordo che l’Ucraina è una ex-repubblica sovietica..
- Hai sentito, Jack?
- Dai, lascia stare, sarà il solito allarmismo della Tv. Ti ricordi la mucca pazza o l’aviaria? Se ne parla più ora? Stai tranquilla e non ci pensare.
Quella sera andarono al cinema. Videro un film di fantascienza lungo circa tre ore. Durante la proiezione, in Ucraina scomparvero altri tre villaggi.

Bastarono pochi giorni per capire che non si trattava di allarmismo televisivo. Nelle trenta ore successive alla scoperta del primo ceppo della Malattia circa la metà della popolazione dell’Ucraina scomparve e cominciarono a registrarsi focolari epidemici nelle regioni limitrofe.
L’OMS impose ai governi un cordone sanitario estremamente rigoroso. L’Ucraina venne di fatto isolata dal resto del mondo, la speranza era di contenere il fenomeno a livello locale, giusto il tempo necessario per capirne la natura e approntare soluzioni.
Ovviamente non servì a nulla.
Una settimana dopo il focolare si era esteso per tutta L’Europa e per tutta l’Asia. Dieci giorni dopo anche l’America veniva colpita. Dodici giorni dopo l’Africa, il giorno dopo l’Australia.
Al quattordicesimo giorno dalla scoperta del primo cadavere la popolazione mondale era di fatto dimezzata.
Al quindicesimo giorno moriva Jack.

Lei e Jack avevano passato quelle due settimane chiusi in casa senza mai uscire. Prima di altri avevano capito la portata dell’epidemia ed erano riusciti a fare rifornimento di viveri, benzina, medicinali prima che cominciassero i saccheggi e le distruzioni di massa. Jack aveva barricato porte e finestre ma un paio di volte era stato costretto a sparare dei colpi con un fucile da caccia che aveva trovato in un negozio d’armi per tenere alla larga alcuni sbandati che stavano tentando di assaltare la casa. Jack non le disse nulla, ma per le strade si aggiravano solo malati e quella volta lui non aveva sparato in aria.
Avevano cibo e acqua per diversi mesi, le comunicazioni erano saltate già da diversi giorni ma la loro speranza era di riuscire a sopravvivere alla fase più virulenta della Malattia, per poi avventurarsi nella città in cerca di altro cibo e gli altri sopravvissuti. Aspettavano con una silenziosa ansia la sera per rifugiarsi nel grande letto della loro stanza, sotto una montagna di coperte pesanti, una sorta di rifugio nel rifugio, un ulteriore tentativo di isolarsi dal mondo e dalla realtà. Passavano le giornate sognando il loro futuro, i viaggi che avrebbero fatto, i figli che avrebbero avuto, ne fantasticarono il nome, tennero bambine immaginarie in braccio, cullandole. Non si chiesero mai che mondo avrebbero trovato fuori dalla barricata che proteggeva la loro piccola casa, nei loro sogni non vi era un oltre a quella porta.

Jack morì circa due ore dopo essersi accorto di avere una macchia nera sul braccio. Lei restò a guardarlo spegnersi lentamente mentre le macchie si moltiplicavano a vista d’occhio trasformando la pelle chiara del suo uomo in un’orrenda massa purulenta di croste.
Jack morì delirando senza neppure riconoscerla, immerso nei propri escrementi e avvolto dall’odore denso della Malattia, del pus e delle feci.
Jack morì senza capire come aveva fatto la Malattia ad entrare nel loro mondo, a distruggerlo, devastandone il senso e tutto ciò che doveva essere in altro modo.
Jack morì lasciandola sola, senza barriere a difendere la bolla di realtà che si erano creati, in balia dell’assurdo famelico che ogni cosa conquistava. E ogni cosa uccideva.

La ragazza restò nella piazza, l’urlo le morì piano in gola e gli occhi cisposi di lacrime a fatica tornarono a vedere. Era la prima volta da due settimane che usciva per strada, si era rifugiata nell’appartamento pensando di riuscire a fuggire alla Malattia, aveva creduto di poter costruire intorno a sé un nocciolo di isolamento con cui difendersi dal mondo e restare isolati ma felici. Ora il mondo le era intorno. Vero, opprimente, pressante e trionfante. Il mondo e la Malattia che era la sua progenie più impetuosa avevano deriso le gracili barriere che lei e Jack avevano eretto: le inferiate chiuse, le piccole palizzate di legno, gli strati di stoffa sulle finestre, le montagne di coperte, tutto era risultato inutile. Il guscio in cui si erano rinchiusi si era rivelato una finzione, una loro illusione. Avevano chiuso gli occhi nella folle speranza che non vedendo l’orrore dell’assurdo che li circondava, l’assurdo li avrebbe ignorati. Non furono ignorati.

La ragazza si guardò intorno, fece correre lo sguardo lungo tutta la piazza, vide che lì giacevano decine di cadaveri, donne, bambini, uomini e vecchi, quasi ammucchiati, gettati lì alla rinfusa. Poi guardò meglio e si accorse che i corpi neri e malati avevano qualcosa in comune, sembravano radunati per una specie di cerimonia, di pratica cultuale comune. Tutti erano rivolti verso una medesima direzione, come a voler ascoltare un oratore, un messia ora scomparso. La ragazza si incamminò verso il punto in cui tutti i cadaveri guardavano, scavalcò una decina di corpi e si accorse di un piccolo palco, fatto di assi di legno malamente inchiodate fra di loro, una sorta di barricata non per isolarsi ma piuttosto per elevarsi dal mondo, porsi un gradino sopra la realtà e osservarla, o forse pure comandarla. L’uomo, o meglio ciò che ne restava, era steso sul palco in una posa innaturale, il volto dell’uomo vestito in abiti sacerdotali ancora conservava l’espressione di rigidità e durezza, di insana fierezza. Nella sua bocca aperta sembrava ancora riecheggiare l’arringa strillata poche ore prima. Il sacerdote spiccava sulla folla di cadaveri che lo circondava, la sua diversità urlava con molta più forza che il suo grido silenzioso racchiuso nella bocca spalancata. Il prete era bianco. La sua pelle non era contaminata dal nero delle escrescenze della Malattia. Egli non era morto per via della Malattia, egli era sano e forse questo stava urlando alla folla di malati da quel palco improvvisato.
- Solo chi è nella grazia di Dio sarà risparmiato dall’orrore della morte nera, della Malattia. Guardate la mia pelle, è liscia, morbida, bianca! Io sono la prova che i giusti agli occhi di Dio saranno salvati. Voi! Peccatori! Pentitevi e Dio avrà pietà. La Malattia è il Suo strumento!
Gli occhi di Dio erano di certo chiusi in un sonno pacificatore quando la folla di malati si avventò sul predicatore e fece scempio del suo corpo, bianco, liscio e sano.

La ragazza camminò per giorni senza cibarsi e bevendo da luride pozzanghere solo quando la sete diventava così impellente da impedire ogni forma di rifiuto. Si perse per le vie di una città che un tempo aveva amato e che sentiva come sua, una sorta di palcoscenico della vita. Lì era nata, li era cresciuta, lì aveva conosciuto Jack e lì lo aveva amato.
Vagò senza metà inconsapevole di ciò che faceva, di ciò che la circondava. Si era rifugiata dentro sé stessa, tentando ancora una volta di fuggire dal mondo che le stava intorno, che le premeva contro la pelle, tentando di prenetare in lei, marchiandola col nero della Malattia.
Dentro la sua mente la sua coscienza stava lentamente costruendo un altro mondo, fatto di sole idee e ricordi, mattoni che in suo potere venivano disposti in un ordine sensato, meticoloso, in cui non vi era spazio per l’assurdo, per quello che i suoi occhi spalancati e spenti vedevano. Nel mondo dentro la sua testa non vi era traccia dell’assurdo.
Passava le ore dialogando con Jack, giocando con la loro bambina, correndo felici lungo spiagge incontaminate, smarrendosi in boschi odorosi e luminosi, sedendo la sera al fresco della primavera senza pensieri se non la vita e il presente lieto.
Lì ancora una volta la ragazza stava tentando una fuga vana ed inutile.

Il mondo le venne incontro ancora una volta qualche giorno dopo. Era ormai denutrita e sfinita dal continuo vagabondare, ma lei non era più il corpo che avanzava, lei si era rifugiata, esiliata dentro di sé, negli strati oscuri e inconsapevoli della coscienza. Il corpo era una sorta di automa che proseguiva senza volontà, un macchinario senza pilota, un regno il cui re aveva abdicato e che continuava ad andare avanti solo per una strana inerzia. Il sorriso ebete e folle impresso sul volto della ragazza mostrava quanto fosse lontana da ciò che la circondava.
Fu un lamento a ricondurla dagli abissi della sua coscienza al mondo. Un lungo, cupo, tetro lamento che si ripeteva ciclico, come una specie di disco incantato che ossessivamente ripete la stessa nota, infinite volte.
La ragazza, dovunque avesse trovato rifugio dentro si sé, fu scovata da quel suono pietoso che si diffondeva nell’aria, quasi come un odore, un profumo che ristagna in una stanza piccola, senza finestre. Piano la sua coscienza emerse, risalì e si espanse, riprendendo possesso del corpo. E allora la ragazza vide.
Seduta al bordo della strada stava una donna, i capelli sporchi erano neri, il viso macchiato di ogni nefandezza, ma sano. La Malattia non aveva ancora preteso il corpo di quella donna. Se ne stava seduta e ciondolava, tenendo tra le mani un fagotto di coperte. Il lamento sembrava una nenia, una lugubre ninnananna. La donna e la ragazza rimasero un momento a fissarsi dai lati opposti della strada deserta. Una seduta e ciondolante, l’altra in piedi e tremante.
Fu la donna a parlare. La voce era pastosa, come se stesse masticando qualcosa di gommoso, di viscido.
- Vieni! Vieni! Vieni a vedere la mia bella bambina! Guarda come dorme. E’ tanto che dorme ma io non la voglio svegliare.
La ragazza non si mosse. Troppi i cadaveri che aveva incrociato per strada per non essere certa che anche quella dormiente bambina in realtà era nera, morta.
La donna continuò.
- Su! Vieni! Vieni! Vieni a vedere la mia bella bambina!
E la sua voce si fece più alta, un tentativo di grido malriuscito.
La ragazza si avvicinò alla donna che lentamente disfò il fagotto di coperte sino a rivelare ciò che in esso era contenuto. Lo fece piano. Come se volesse dare teatralità a quel gesto. Come se la ragazza che di lì era passata per caso fosse un pubblico esigente che andava sedotto, catturato, conquistato. Strato dopo strato il fagotto fu aperto. Disteso sul palmo delle mani, sulle piccole coperte, la donna mostrò alla ragazza ciò che stava cullando, la sua preziosa e dolce bambina. Lo fece quasi elevandola al cielo, offrendola ad un Dio pietoso. Le braccia distese, alte verso il sole, verso la ragazza. E fu così che la giovane vide ciò che conteneva il fagotto. L’aveva già visto ma non l’aveva riconosciuto, aveva fatto finta nonostante tutto che non esistesse, che neppure la morte di Jack, la Malattia, la morte di tanta gente, la devastazione che vedeva intorno fossero una prova sufficiente della sua esistenza. Solo ora, in quel momento, dentro quel fagotto che la donna macilenta le mostrava lo vedeva, lo fissava, lo riconosceva e, soprattutto, gli dava un nome.
L’assurdo era lì, e lei ne era ora consapevole.

07 maggio 2007

Poesie di un giorno di metafisica libertà

Poesie di un giorno di metafisica libertà

Manichino e Cavallo


Un manichino senza volto
E un cavallo
Con la coda di pietra
Camminano lenti
Nella piazza quadrata
E dietro ad un muro
Non molto alto
Si intravede una vela
E lo sbuffo del treno.

Io in un angolo
Dipinto a scacchiera
Siedo come un pedone
O forse una torre
E li osservo venire
Nella mia direzione
Parlandosi piano
In un fastidioso bisbiglio
Che non è la mia lingua.

Vorrei chieder loro
“Dite figure dipinte
Da dove venite?”
Ma so che di là vengono,
In alto nel cielo, lassù
Ho udito poco fa
Lo strappo ferente
Nel velo di Maya
E lacero è il cielo.

Zampilla come una Fontana
La realtà che aldilà
Sonnecchia racchiusa.
Un’ocarina, un’upupa giuliva,
Mill’altre figure e forme sincere,
Ma a me s’avvicinano
Solo un manichino
E un cavallo
Con la coda di pietra.

Ora di fronte a me
Il cavallo saggio
Che il manichino conduce
M’osserva e urla
Il lungo nitrito
E con un gesto
Del muso scolpito
Sembra volermi dire
“Guarda là”.

Io il capo volto
E mi accordo ridente
Che nulla sono
Se non testa
Di bianco marmo
Con tondi occhiali
Neri da sole,
Nostalgia di un poeta
Che mai sono stato.

E su nel cielo
Vedo la sagoma
Del sole e dei raggi
E persino la luna,
Neri ritagli
Sullo sfondo azzurro
Ad olio dipinto,
Non mi chiedo perplesso
“Dove sono i due astri?”

E’ il manichino,
Trovatore e condottiero,
Eroe e padre,
con un moto del viso
Di legno levigato
A rivelarmi il banale
Semplice segreto:
“Là sul palcoscenico:
Il sole e la luna!”

Allora applausi
Scroscianti e tondi
Come ad un matrimonio
O al funerale di un solitario
Dittatore.
Al sole alla luna
Vorrei applaudire
Ma io poeta
Non ho arti, né mani.

Una donna siede

Una donna siede
Con me nel vagone
Nessun profumo
O di vita l’odore,
Sempre governa
L’assurdo silenzio
Di un uomo che è libero
E solo.


Inutili souvenir


Rinasco nel viaggiare
Solo senza una parola
Da dire o un sorriso
Da regalare,
Sono un turista
In questa vita
E voi gli strani
Indigeni
Di cui conserverò
Inutili souvenir.


Ho visto un Drago

Ho visto un drago
Dipinto nelle nuvole
Bianco su sfondo azzurro
Guardava in alto
Il cielo blu
E triste erano i suoi occhi
Di lacrime feriti
Asciutti, pioggia
Annunciata.

Se ne stava così
Senza nulla aspettare
Se non forse i cipressi
Di un lacustre cimitero
Incombenti in basso
Sotto di lui.

Ma fu un attimo
Forse la corsa del treno
Forse un applauso ad un matrimonio:
Una brezza leggera
E crudele
Nell’aria si alzò
E dalla mente mia
Il drago sorpreso
Fu spazzato via:
Forme caotiche
D’infiniti altri
Medioevali bestiari.

La mia Ignara Musa


Forse non meriti
Questa strana poesia
Composta nel giorno
Di metafisica libertà.

Forse non meriti
Le mie non lette parole
Sbiadite sulla pagina in grigio,
Forse meriti di più.

Ma al poeta poco importa
Ciò che pensa il soggetto
Del suo versificare
Stanco e malato.

Così come al pittore
Nulla conta se la piazza
O il manichino cieco
Voglion restar inespresse idee.

Si scrive per ricordare
E nel tempo tracciare
Un promemoria annodato
Un segnalibro dipinto.

Un punto a cui tornare
Nel frettoloso fluire
Del libro della vita,
(Ne sono il protagonista?)

Spunta il lago
Dal finestrino del treno
E solo nel vagone,
Ripetuto destino,

Continuo a scrivere
E alla mente mi torna
Il volto tuo
E il vero sorriso.

Come un regalo
Alla festa a sorpresa
Di un non compleanno
E il coniglio e il cappellaio.

I tuoi modi gentili
Semplice marchingegno
Per il tempo viaggiare
Indietro e un po’ anche avanti,

Alla mia epoca
Anacronistica e formale
Ritrovarti, sorpreso
Ma, mio dio, felice.

Le tue parole
E la tua voce
Così femminile.
E un po’ bambina.

Mi tornano ancora
Magici e oscuri
I tuoi occhi
Neri e misteriosi

Specchio d’una donna
Forse nascosta
Negli anni che saranno
Ma svelata a quelli miei.

Così ho scritto di te
Senza neppure sapere
Il nome con cui
Sei nel mondo ora.

Ma a me basta
E nulla cerco
Se non far di te:
La mia musa ignara.

Son quelle di un vecchio

Come un fotogramma
Le dita sulla tastiera
Vedo ferme in attesa.

Invecchia il tempo
E scorre nel silenzio
Di ripetuti istanti.

Si scavano i solchi
Sulla pallida pelle
Marcata e stanca.

Strana clessidra
Di sottili granelli
Di ruvide rughe.

Ogni cosa resta
Nel momento immota
Cristallo di stasi.

Ma poi mi accorgo
Le vedo ignote
Non sono più mie.

Le dita sottili
Sul nero dei tasti
Non riconosco.

Sono quelle di un vecchio
Ossuto e stanco
Son quelle di un vecchio!

Semplice spettatore

Tra mura scrostate
D’un giallo malato
Siedo solitario
Tra avventori ubriachi
E osservo fumante
La tazza bollente
D’erbe essiccate.

Tra le spire odorose
Di fiori morenti
Intuisco a fatica
I volti e colori
Ridicoli e vaghi
Di squallide ombre,
Di me riflessi.

Donne sedute
Scomposte e volgari
Uomini in piedi
Minacciosi e pii,
Sconosciute commedie,
Mille volte recitate
Di attori capaci.

Vuota è la tazza
Fredda e macchiata
E continuo a vedere
Lo strano squallore
In cui avvolto mi sento
Affondare:
Semplice spettatore.

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