26 dicembre 2006

E la parola muore

E LA PAROLA MUORE
La musica urlava diffondendosi lungo linee ondulatorie caotiche, rimbalzando tra pareti opposte, scontrandosi e schivando le vaghe figure serpeggianti al centro della sala, innalzandosi in spirali concentriche e impetuose. Nel nero di un buio innaturale sibilavano veloci note distorte di strumenti elettronici, pentagrammi digitali ripetuti infinite volte in una monotona ritorsione di ottave. Il ritmo sincopato fendeva l’etere velato, imprigionato da pareti dipinte di tinte scure e opache, ripercuotendosi nei battiti accelerati degli uomini e delle donne presenti. Un enorme cuore musicale dominate e imperioso, il trionfo di una duplice ritmica diacronica, di un alternato martellare su viscide superfici differenti, metalliche da un lato, miocardiche dall’altro, fino al lento, rassegnato assoggettamento dell’una all’altra, dell’organica all’inorganica. E da lì di corsa verso un’alterazione innaturale del tempo biologico, in un perverso movimento sistolare esterno, incorporeo, un’unica pulsazione collettiva fuori tempo, un’enorme massa pulsante, spremente assordante vischiosità musicale nelle vene dilatate di cervelli eccitati dalle droghe e dagli ormoni artificialmente pompati nell’aria.

Nella vasta oscurità cieca in cui la musica si propagava sino a raggiungere e dominare gli angoli più nascosti, gli interstizi più segreti, nere ombre ondeggiavano in un lento, costante movimento ripetuto, una danza senza ordine in cui tronchi di corpi si agitavano in una frenesia rallentata. Avanti e indietro, scuotendo testa e spalle, come a rendere omaggio alle infide divinità mefitiche dominanti le tenebre.
Solo le improvvise, dolorose ferite di luce, senza preavviso, come fucilate non annunciate, fendevano lo spazio, consentivano agli occhi dilatati e venati di rosso di cogliere istantanee assurde: una massa umana increspata da un movimento disarticolato di corpi sudati e melliflui. Rare fotografie a disegnare attimi diversi, emergenti, quasi per caso, dal vortice del non essere, per poi in esso essere risucchiati, pantomima di un movimento illusorio, a scatti. Volti irriconoscibili nella loro deformata inumanità, espressioni vuote e perse in un orizzonte di miraggi desertici.

E la danza continuava. Guidata, addomesticata, imprigionata dalle note pompate nello spazio nero da altoparlanti invisibili, migliaia di sfere invisibili in grado di trasformare silenziosi impulsi elettrici in urlante disperazione sonora. Dal soffitto, infinitesimali fori filtravano sulla massa caotica e assiepata sostanze organiche e chimiche, miscele indefinite di stupefacenti, allucinogeni, secrezioni ghiandolari animali e estratti ayurvedici di piante selvatiche. Un odore, il tutto diventava un semplice odore che si mischiava sapientemente col profumo di sudore, alcool distillato rozzamente e corpi accaldati. Una sensazione bruciante, solida che colpiva i ricettori olfattivi con un impatto violento, con una corporeità dolorosa, fino a produrre quasi un suono di terriccio umido lanciato con rabbia contro una parete di cemento.

Evocazioni, ricordi, suggestioni di terre bagnate da piogge primaverili, di secrezioni vaginali eccitate, di vini decomposti e campi sterminati sotto il sole d’agosto, l’amalgama incoerente di sostanze si mischiava con il sangue, legandosi alle microscopiche e passive cellule colorate, scorrendo nel denso liquido rossastro verso le circonvoluzioni del cervello, scatenando reazioni dementi nei gangli neuronali. Sino alla perdita della coscienza, della percezione del sé, in una deriva regressiva lungo abissi di istintualità incontrollata e ancestrale. Solo la musica a governare, imporre il suo volere, il suo frenetico ritmo sincopato, impossibile da fuggire, da rinnegare.

Costretti dall’imposizione sonora a obbedire a dettami incisi nelle stesse loro basi nucleiche, gli uomini e le donne nella sala, quei semplici corpi ondulanti, vivevano il loro perfetto, eterno momento. Obbedire al grido dodecafonico proveniente da ogni dove e assoggettarsi alla sua voce, ripetuta, bisbigliata, assillante ed assordante: danza! danza! DANZA! E così nella massificazione identica di una insensata oscillazione, vivere il trionfo del tutto.

Svanite le singolarità delle coscienze complesse, dei dettami morali, dei sentimenti emozionali, delle logiche razionali e sociali in un tripudio di collettiva identificazione, genesi sussurrata di una mente superiore tra note stonate e metalliche, tra raschiamenti sanguinolenti di corde vocali e urla deformate di bocche distorte.

Nell’ondeggiare caotico, nel frastuono musicale, nel profumo di chimica illegale, docilmente urlano i vagiti dei sogni teologici e dei voli sciamanici, dei pindarici lirismi falliti e ripetutamente anelati. Lì, nel nero di un cubo oscurato, invaso da feroci e disumane note deviate, deformate da congegni digitali abusivi, il desiderio di schiere di mistici si compie, come un fiore di semplicità quotidiana, misteriosa e impossibile. La perdita di una illusoria singolarità monadica, l’abbandono delle millenarie certezze di solipsistica unicità, il deperimento delle barriere imprigionanti di un Io falsificatore e ingannevole. Inarrestabile nel suo susseguirsi di incessanti flussi d’informazione, lentamente si rivela, sorgendo dalle spume rigogliose del mare violaceo della conoscenza, la vita che sta oltre, le sue movenze, il colore della sua pelle e, infine, il suo volto misterioso e i suo occhi che brillano come quelli di un antico marinaio maledetto.

Svaniscono nella volta di stelle musicali identiche e rossastre, di planetoidi di droghe innaturali, di satelliti di erotismo chimicamente indotto e in nebulose di odori corporali secreti, i nomi che definiscono, condannano e ricordano il fallimento. Distruzione necessaria di falsità antiche come le rocce delle caverne da cui, legati e imbavagliati, s’osservano le ombre riflesse di una realtà pluridimensionale nascosta da muri di invalicabili di impossibilità ontologica.

E’ lento il suo farsi strada nel mondo. La connessione vivente di una mente unificata, l’evoluzione devastante delle imperfette singolarità, la trasformazione inebriante di morti ripetute e vissute infinite volte, il salire i gradini di una scala che si avvolge su sé stessa in geometrie ubriacanti, tutto questo, è ancora incompleto. Embrione di un feto rattrappito e rannicchiato che è solamente vitalità potenziale, forza repressa, non-nascita. La musica è solo il brodo primordiale, denso e appiccicoso ventre fertile, da cui si sviluppa un anelito, un pensiero di vita che non riesce ancora a farsi strada nelle pieghe dolorose dell’essere. Affacciato a immaginarie finestre, vede gli infiniti bivi dell’esistenza incrociarsi e presentarsi ma ancora non può gettarsi, precipitare nel magma gelido dell’essere. Al sorgere della connessione suprema delle menti danzanti nel nero di una musica elettricamente distorta da chimiche alterate manca la venerazione, l’epifanico rivelarsi della divinità. Di colei che crea e distrugge, della dea dalle mille braccia, dai mille volti, di colei che nacque nel primo momento del tempo e che nel tempo trionfa. Perché si compia il sorgere di un sole nuove, distruttore di ogni belief causale, ciò che manca è l’auriga, moderna figlia di Apollo, che nella volta contaminata del cielo dell’esistenza lo guidi, conduca l’astro nuovo e gli consegni lo scettro di un potere annichilente.

La invocano gli uomini e le donne. Inconsapevolmente. Un debole lamento sorge dalla loro danza ossessiva e ripetuta, una preghiera lacrimevole, un’invocazione disperata e urlante. Sono pronti. Il ventre è fecondo. Che venga Lei a ingravidare la massa ondeggiante e così concepire, nel supremo orgasmo capovolto, la genealogia dell’Uno, della Singolarità suprema che dischiude le porte dell’era nuova, al tempo del post-umanesimo. Che venga e dimori questo denso pulviscolo nebbioso di musica e droghe.

Sale l’invocazione. Sale! Come spira guidata da un moto induttivo assurge verso strati di esistenza ulteriori, oltre i veli intessuti da parole insignificanti ma menzognere, sfrecciando su autostrade di percezione allucinatoria e predittiva. Sale!

E a Lei, infine, giunge!

E Lei, infine, giunge.

Improvvisa come una rivelazione, inaspettata come il ricordo di un’amante persa nelle spire stritolanti del passato. E’ lì. Semplicemente lì.

E la musica si ferma.
E il tempo si ferma.
E la danza si ferma.
E il cuore pulsante si ferma.
E la vita si ferma.

E ciò che resta sono gli occhi, cristallizzati nella gelida contemplazione della perfezione che si è fatta corpo. Carne di donna. Lucente del colore ambrato di una pelle nuda. Risplendente di un alone di sensualità orgiastica incontrollabile. Urlante i gemiti di un caleidoscopio di orgasmi, sussurrante ansimate parole d’amore sincero.

E le sue movenze sono i battiti dell’Universo che nasce esplodendo dalla devastazione del nulla del big-bang. E le sue movenze sono la morte che giunge improvvisa nascosta nella disperazione d’una vita insensata. E le sue movenze sono l’immobilità di una cascata alpina ghiacciata dal freddo di un inverno atomico. E le sue movenze sono il fuoco senza fiamme che brucia i muri di case esposte alle deflagrazione finale. E le sue movenze sono il tutto. Il tutto che non lascia scampo. Il tutto che ingloba l’essere e il non essere, rendendone ridicola la separazione. Il tutto che non consente altro che il proprio dominio. Il tutto che ordina severo e paterno indica la via. La via delle stelle. La strada verso cui correre, verso cui bramare, verso cui trovare l’assoggettamento ad una evoluzione liberatrice.

Impossibile descrivere l’inenarrabile, il volto di colei che rende vera la suprema connessione delle menti. I suoi tratti si fondono e si confondono come opalescenti nubi al tramonto, le linee del suo profilo si stagliano come monti pacificamente adagiati lungo orizzonti innevati per poi cambiare, mutare, evolversi e adattarsi.
E’ negli occhi stralunati di coloro che la osservano, nelle tradizioni iscritte in DNA culturali, in ricordi di visi conosciuti e amati. Solo in quei luoghi dove ristagna la memoria alterata dal desiderio, dal lavorio di giorni e giorni di reminescenze felici e dolorose, solo in quelle zone di materia grigia irrorata dal sangue pulsante di un cuore affaticato, lì, e solo lì, sta la chiave di un volto che esiste solo per l’osservatore e mai di per sé stesso, mai solo. Lì sta il segreto di una oggettività che è tale solo nella miriade di soggettività percepenti.
Nella strana commistione di realtà diafana e di memoria solida i tratti splendenti, perfetti e indescrivibili prendono forma e vita. Infiniti sguardi, infiniti volti di una medesima donna che, danzando, conduce per mano verso la fine della singolarità individuale, di corsa verso l’annullamento nel tutto dell’uno unificato e pacificato.

Nel silenzio del nero alterato, nell’etere inquinato da sostanze sciamaniche, nel piccolo spazio racchiuso dalla folla venerante, il corpo flessuoso danza e si dimena al ritmo stesso delle stelle che nel cielo si muovono in orbite disegnate nella mente di un dio casuale e distratto.
Le perle di sudore che serpeggiando accarezzano le morbide membra della donna divinizzante, s’illuminano di un riflesso impossibile, argenteo, intenso e cadono a terra come gocce di vita generatrice e fertile, rendendo prospero persino il suolo metallico infinitamente calpestato e sporco.
Le spire di ribelli capelli corvini s’agitano mosse da un vento solo pensato e, assecondando ritmi propri, vivono di una vita propria e indipendente.
E lei danza.

E lei danza. E la folla la segue. Nella mente e negli occhi e si lascia condurre là dove, attraverso gironi di consapevole incoscienza, regna la semplice verità di un evoluzione compiuta, il passo oltre di un uomo miserevole. Là, nel luogo, in cui lei è noi e noi siamo lei.

Danza. Danza per un tempo infinito che è racchiuso dall’istante di un momento, danza per ore che scorrono in orologi accelerati, danza finchè il tempo stesso smette di compiere il suo eterno compito e resta a giacere immobile nel fissarla e, ammirandola, in essa si perde.

Lo spazio si dilata, ogni forma, ogni tentativo di dare una significazione al reale, categorizzandolo in schemi comprensibili all’intelletto anomalo dell’uomo, fallisce, decade. Solo lei, il suo corpo, il suo sinuoso arrotarsi su sé stessa, il suo grido in un linguaggio corporeo universale, solo la luce vivida che rischiara la sua bellezza. Resta solo lei nell’universo. Lei è l’universo ed ogni cosa in lei trova il fine che è la fine. Tutto in lei si annulla e tutto in lei diventa uno. Lei è l’uno.

Capovolta catabasi paradisiaca, Lei apre le porte a regni neppure sognati in cui albergano divinità decadute di finzioni passate, e ancora oltre, ancora più in là, nel cuore stesso dell’esistenza cosciente, nell’anomalia stessa di un’evoluzione bizzarra.

Esplodono le singole menti imprigionate, deflagrazione silenziosa di costrutti allucinatori, e dal furore di un nuovo big bang si riversa nel piano dell’esistenza, nel qui ed ora del tempo dell’essere, un singolo magma di verità.

Vive! Vive! Vive!

La danza è feconda, il grembo irrorato di spermatiche invocazioni, la gestazione si attua nel silenzioso momento infinitamente dilatato e il parto, travaglio senza dolore né sangue, è compiuto.

Un vagito. Nella musica furente solo nelle menti degli uomini e delle donne in un eco di ricordi plasmati s’ode un vagito.

Il rito è compiuto. La negromantica evocazione si è ripetuta e dal nulla di infiniti tentativi falliti sorge ciò che sta oltre.

Sorge la verità dell’Uno.

E la parola muore.

E la parola muore.

Logos
27\12\2006

Di lontano assonnate campane

Di lontano assonnate campane
Di lontano assonnate campane
Rintoccano il tempo
Che come bianca bruma
Scorre sul fiume lento.

Voci si confondono
Nel silenzio della notte
E il freddo ristagna
Sulle panchine deserte.

Un albero bianco
Aldilà della riva,
Confusa promessa
Di un oltre lontano.

Mulinelli improvvisi
di una mano segreta
increspano caotici
La linea dell’acqua.

Nero scorre il rivo,
inchiostro versato
Di parole non dette
Nella mente assillanti.

Immobile osservo
Nel chiarore improvviso
Le mie mani, il mio viso
Simulacro d’un uomo.

Ed è ancora inverno
Nel cielo senza stelle,
nella vita senza pace
di questo strano inferno.

Ma l’alba della primavera
Lo so, è ormai chiusa
nel segreto di un affetto
dimentico, verità sincera.

13 dicembre 2006

Poesie venete

Grido silenzioso

Grido silenzioso
Di vorticanti pensieri
Come fili intrecciati
In stoffe sussurrate.

Muto il volto scolpito
In una maschera mesta,
Levigato specchio d’avorio,
Cesello di dita crudeli.

Gli occhi guizzanti
Azzurri e ghiacciati
Vagano intorno.

Il nero là in fondo,
Forse d’inganno,
Chiusi dimenticano.

Stridono i freni del treno

Stridono i freni del treno,
La stazione, come un ventre
Materno, ci accoglie frenetica.

Marea ondeggiante di gente,
Sfuggono veloci agli sguardi
Di chi rimane, stranito.

Si vedono abbracci
E si odono sospiri
D’amanti ricongiunti.

Per un momento dimentiche
Le liti e il dolore
E tutto è tinto d’affetto.

Intime unioni di vite
In un soffio legate,
Sembrano pacificate.

Così solitario resto,
Avanzando e serpeggiando
Tra coloro che non pensano.

Nessuno attende il mio arrivo,
Il mio volto e il mio sorriso
E me ne vado nel cammino.

Bramo occhi nuovi
In cui rispecchiarmi
Ma invano li cerco.

In un guizzo si fa strada
Nel ricordo un passato
Ronzante e ora lo scaccio.

Nel silenzio della voce
Siedo e rifletto
La mia vita e il destino.

Il viaggio è finito
Ed ogni cosa torna
Identica nel sempre

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