20 gennaio 2008

Stasera ho paura

Stasera ho paura

Alcune volte,
Quando solo,
Chiudo gli occhi
E aspetto la notte arrivare
Con il misericordioso sonno
Ho paura.

Sento le pareti del mio mondo
Fragili e sottili
Scosse dal vento furente
Di ciò che mi circonda
Che non capisco e che non vivo:
La mia misteriosa malattia
La mia follia e la mia poesia.

I ricordi si fanno aspri
Dolorosi da tagliare il fiato
E ferire la pelle
E per un lungo momento
Tutto si spiega
Con la morte
Inflitta.

Ogni cosa che mi circonda
Appare falsa,
Incubo prolungato di un mattino
Che non arriva
Ed io non posso creder vera
La solitudine, l’assenza
E la mia realtà.

Mi si dice rialzati
Combatti e lotta
Vivi questa dannata vita
Che ti è concessa
Ma loro non capiscono
Che ho vissuto
Amato e sofferto
E vorrei ancora
Vivere
Amare
E persino
Soffrire.

Cerco una persona
Che vive dentro un mio sogno
Lontano
Nera
Minuta e strana
Con cui sedere e parlare
E che scriva della mia vita
La parola senso.

So come morirò,
Un giorno non riuscirò
A portare sulle spalle
Il peso dell’assurdo
Che ogni giorno incontro
Svegliandomi
E sarà morte.
Vigliacca ma sarà morte,
L’oblio, la fine.
La pace.

Penso che avevo ogni cosa
So che mi inganno
Ora vedo
Ciò che un tempo mi era negato
Da catene e prigioni
Così dolci
E belle
Ma ora conosco
La segreta gnosi
Di inesistenti demiurghi
Che il caso ha creato.

Parole,
Quante parole ancora una volta
E nessun fatto
Ma il mio mondo della vita
È segregato nel luogo
Nascosto
In cui alberga e prolifera
La malattia
Del mio stanco corpo.

Non voglio null’altro
Che ancora un giorno
Per un lungo momento
Sorridere riflesso
Negli occhi neri e magici
Di una infernale
Beatrice.

Tornerò alla poesia
Ma non stasera,
Stasera ho paura
E nemmeno queste parole
Promessa di morte
Riescono a dirmi
Che la fine è vicina
E il dolore va spegnendosi.

Folle urlo
E imploro di avere la mia ragione
Il piccolo senso di questa vita
Infinitesimale
E assoluta
Che ogni cosa spieghi
E mi lasci riposare.
Vorrei non aver colpe
E aver scelto
Un giorno passato
Poesia
E non prosa.

Null’altro posso fare
Che insano sperare
E ogni giorno guardare
Al domani
Osservando il tempo che scorre veloce
E la mia vita
Che insensata invecchia
E la mia pelle
Segnata di lacrime
Trattenute.
Mai piante.

Se davvero esisti
Mia sognata Douve
Allora
Sappi che in te
Troverò senso
E smetterò di essere
Semplice
Solitaria
Inutile
Parola

08 gennaio 2008

Il tramonto prima che sarà notte

Il tramonto prima che sarà notte
Stasera c’è odore di solitudine nell’aria,
Lo sento chiaramente intorno a me.
Mi volto e vedo gente distratta,
Un po’ assonnata,
Scrive forse poesie con l’immaginazione.
Cerco un volto nuovo ma non riconosco nessuno
E chino il capo aspettando ancora.
L’odore ristagna, lo sento addosso, appiccicaticcio.
Se fumassi mi accenderei un sigaro
E resterei a guardare la brace rossa e incandescente
Muoversi nel buio della sera,
Ma non fumo e mi resta solo il profumo di questa pigra solitudine.
Guardo fuori dal treno e vedo passare un’auto veloce,
Si perde lenta nella nebbia grigia.
La seguo con lo sguardo anche quando scompare
E mi chiedo se esiste davvero.
Sul vagone sono solo e lo sento correre verso occidente,
Ne ero certo, nessuna alba là in fondo per caso.
Al massimo il tramonto prima che sarà notte.

Era tardi

ERA TARDI

Il televisore trasmetteva il telegiornale della sera quando Haruki si scosse dal torpore improvviso che l’aveva colto e fissò l’orologio alla parete. Le sette. Si stropicciò gli occhi e fece maggiore attenzione a quello che la donna sullo schermo stava dicendo. Parlava di crisi petrolifera, di missioni di pace fallite e di pericolo ambientale per qualche esplosione radioattiva. Haruki si distrasse dopo pochi momenti, qualcosa gli ronzava in testa insistentemente e non riusciva a pensar ad altro. Si alzò e se ne andò in cucina, sui fornelli giaceva un pentolino vuoto, sporco della zuppa che si era cucinato a pranzo. Prese una tazza e la riempì d’acqua, la mise nel microonde per farsi un tè. Non era l’orario del tè, ma ne aveva voglia e così se lo stava preparando. Quando l’allarme del forno suonò con il suo gong squillante tolse la tazza e vi immerse il filtro di tè verde. Lo zuccherò e lo poggiò sul tavolo in attesa che l’acqua si colorasse e prendesse il sapore delle foglie.
Nel frattempo se ne tornò in soggiorno, spense il televisore e si sedette sul divano a pensare. Guardò l’orologio alla parete. Le sette e un quarto. Era tardi. Stanco di aspettare prese il telefono cellulare poggiato sul piccolo tavolo al centro del soggiorno e compose il numero. Non lo aveva mai voluto salvare in rubrica, ogni volta diceva che l’avrebbe fatto ma dopo tutti quegli anni non lo aveva ancora memorizzato.
Il telefono suonava libero, attese. Al ventesimo squillo riagganciò premendo il tasto rosso. Non rispondeva.

Haruki viveva in un piccolo appartamento nella periferia occidentale di Tokyo. Contando anche il bagno, lo spazio che chiamava casa non era superiore ai quaranta metri quadrati; un lusso se pensava a chi viveva in centro. Una volta il suo collega Takeshi gli aveva raccontato di come si faceva a vivere in tre, marito, moglie e bambino piccolo, in un appartamento di ventisette metri quadrati. Haruki non aveva voluto crederci, anche se sapeva che in Giappone si poteva.
Lui nell’appartamento ci viveva solo con la moglie. Miguci. Vivevano in quella casa ormai da cinque anni e non avevano mai pensato di avere un bambino. L’appartamento era troppo piccolo per contenervi anche un figlio, sapevano che Tokyo non offriva altre soluzioni.
Metropoli moderna e affaccendata Tokyo aveva una precisa politica urbanistica: molta gente, poco spazio e poco importava se la percentuale di suicidi tra i suoi cittadini fosse la più alta del mondo. C’è chi diceva malignamente che era meglio così, ad ogni morto si guadagnava un po’ di spazio in più. Le stime ufficiali del governo nipponico rilasciavano numeri allarmanti, un suicidio ogni quindici secondi. Haruki si fermò un momento, smise di pensare e contò sino a quindici. Un suicida, pensò. Contò ancora fino a quindici. Un altro. Poi la mente tornò al suo pensiero fastidioso. E smise di contare.
Fissò lo schermo spento del televisore, quasi gli sembrò di sentire ancora la voce della commentatrice, fu tentato di accenderlo e di cambiare canale ma il telecomando era sull’altro divano dove l’aveva buttato pochi minuti prima, quando aveva spento il televisore.
Guardò l’orologio, le sette e mezza. Era tardi.
Gli venne voglia di bersi un tè, poi si ricordò che se lo era preparato e s’alzò. In cucina l’acqua nella tazza si era scurita del colore verdognolo delle foglie di tè. Gettò il filtro dopo averlo strizzato per bene e bevve una lunga sorsata. Il tè era amaro e tiepido. Pensò di correggerlo con il sakè che teneva in frigo ma non gli sembrò una buona idea. Altre volte aveva allentato la tensione con il sakè e ciò che gli era rimasto era solo un tremendo mal di testa.
Finì di bere e mise la tazza nel lavello. Tornò in soggiorno.

Miguci era uscita presto quella mattina per andare al lavoro. Da quando era stata assunta dalla ditta del signor Hara due settimane prima si alzava sempre presto il mattino e rientrava sempre più tardi la sera. Una volta, pochi giorni prima, Haruki glielo aveva fatto notare ma lei si era difesa dicendo che il lavoro era molto, le responsabilità crescevano e che in fondo il guadagno era buono, tanto da potersi permettere qualche sacrificio. Haruki non aveva ribattuto, lui era un semplice insegnante di giapponese in un liceo lì vicino; poche ore di lavoro e uno stipendio misero, ma a lui il suo lavoro piaceva. Parlare di letteratura, di libri a giovani studenti curiosi gli faceva credere di avere una specie di utilità sociale, a volte persino si sentiva come una sorta di difensore della tradizione giapponese. Durante le cene a casa di amici spesso gli veniva chiesto se non si annoiava a ripetere le stesse cose anno dopo anno e lui rispondeva tranquillo che non si annoiava affatto, anzi gli dava un senso di sicurezza il poter trovare ogni volta gli stessi autori, le stesse opere, come compagni fedeli di un viaggio che si ripeteva incessantemente. Ma nessuno capiva quel che voleva dire e allora lui se ne stava zitto e beveva sakè.
Guardò l’orologio, le otto meno un quarto. Era tardi.
Se ne andò il bagno e svuotò la vescica. Restò ad osservare la propria urina cadere nel piccolo water occidentale e ne ascoltò il rumore che faceva nel precipitare nell’acqua in fondo al water. Una piccola cascata fragorosa. Poi il rumore si fece più flebile sino a spegnersi.
Mentre si aggiustava i pantaloni suonò il telefono. Corse in soggiorno e prese la cornetta.
- Pronto?
Silenzio dall’altro capo del filo.
- Pronto?
Sempre silenzio.
- Miguci sei tu? A che ora arrivi? Sei in ritardo.
Ma ancora nessuno rispose.
Haruki sentiva un mormorio sordo provenire dall’altoparlante del telefono. Un respiro sordo ed un brusio, come un parlottare tra sé e sé lontano. Tese l’orecchio cercando di cogliere qualche parola, gli parve di sentire pronunciare il proprio nome ma non ne fu sicuro.
- Pronto?! Chi è?!
C’era qualcosa di strano in quella telefonata, Haruki sentiva che doveva capire chi c’era dall’altra parte del telefono, gli sembrava che fosse importante, una questione di vita o di morte.
- Pronto!
Ma in risposta solo il click della comunicazione interrotta. Fissò la cornetta del telefono poi riagganciò. Chi poteva aver chiamato? Perché non rispondevano? Era davvero il suo nome quello che sentiva bisbigliato?
Guardò l’orologio alla parete, le otto. Era tardi.
Fece ancora il numero di Miguci ma anche questa volta lei non rispose.

Maledetto lavoro. E pensare che quando due settimane prima Miguci era tornata a casa dicendo che aveva trovato un lavoro come segretaria nella ditta in cui lavorava la sua amica Midori avevano brindato e festeggiato. Quel lavoro poteva voler dire molto per le loro finanze, forse persino la possibilità di un trasferimento in un appartamento più bello o una macchina nuova, magari una di quelle italiane che si vedono nelle pubblicità.
Haruki si ricordava bene quella sera. Si erano quasi ubriacati come due ragazzini alle prese con le prime bevute di sakè, poi avevano fatto l’amore con passione e si erano addormentati abbracciati. Il futuro sembrava loro ricco di possibilità.
Miguci aveva cominciato a lavorare per la ditta del signor Hara un martedì, fuori cadeva una fitta e fastidiosa pioggerellina calda e lei era uscita dando un bacio a Haruki e augurandogli buona giornata. Lui era andato a scuola ma quel giorno era distratto, pensava a Miguci, al suo nuovo lavoro e sperava tutto andasse bene.
Era tornato alle tre, come solito, e l’aveva aspettata seduto sul divano leggendo un libro di un autore occidentale. Quando lei era rincasata l’aveva tempestata di domande ma lei, con lo sguardo un po’ triste e tra mille scuse, gli aveva spiegato che per motivi di riservatezza non poteva dirgli nulla. Il signor Hara le aveva fatto firmare un foglio in cui si impegnava al totale riserbo sulle sue attività. Era vincolata al silenzio e non poteva parlare del suo lavoro neppure con Haruki. Lui dapprima insistette ma quando vide che lei non cedeva la smise. Si sedette sul tavolo della cucina e non disse una parola per tutta la cena. Si sentiva come tradito, escluso. Lui e Miguci non avevano mai avuto segreti e ora questo signor Hara si metteva fra loro con quella diavolo di riservatezza. Haruki cenò fissando il patto e pensando tra sé e sé, Miguci guardava il marito, triste e delusa che lui non capisse.
Haruki scrollò le spalle. Si, era cominciato tutto quel giorno, con quel nuovo lavoro.
Guardò l’orologio. Le otto e un quarto. Era tardi.
Pensò di chiamare la polizia per chiedere se c’era stato qualche incidente sulla linea metropolitana o per le strade, se per caso una giovane donna fosse rimasta ferita ma si rese conto dell’assurdità della cosa e non si mosse.
La casa era immersa nel silenzio, solo l’ovattato rumore delle macchine che passavano giù per strada rompeva l’assenza di suoni dell’appartamento. Strano, a quest’ora di solito si sentono i vicini parlare, le loro televisioni sintonizzate su qualche programma televisivo, un gioco a premi o un quiz, i bambini che frignano e le mamme che urlano. Stasera però solo silenzio.
Haruki andò alla finestra e osservò la strada, nel buio della sera vedeva solo i fari rossi delle luci posteriori delle auto sfrecciare verso nord e i fari anteriori correre verso sud, il traffico gli parve il solito, non sembrava vi fossero code o ingorghi. Niente che potesse spiegare il ritardo di Miguci.
Il cellulare di Haruki vibrò sul tavolino. Un messaggio di testo. Haruki prese il piccolo telefono grigio e aprì la cartella dei messaggi, finalmente Miguci si faceva sentire. Non sapeva se sentirsi sollevato o arrabbiato per il ritardo. La cartella ci mise un attimo ad aprirsi come se il messaggio ricevuto fosse pesante. Haruki aggrottò la fronte, un numero sconosciuto. Non era Miguci a mandargli il messaggio. Lo aprì, e restò a fissarlo. Era una fotografia di una stanza di hotel, sfocata e sgranata; si vedeva un letto matrimoniale disfatto su cui era stesa una donna e poco più in là un’ombra che cadeva pesantemente sul corpo della donna stesa sul letto. Sembrava l’ombra di un uomo ma Haruki non poteva esserne certo.
Chi era la donna? Guardò meglio cercando di scorgervi dei particolari. Era Miguci? Il pensiero gli venne spontaneo, che ci faceva in quell’hotel? Quando era stata scattata la fotografia? Che significava quel messaggio?
Premette il tasto verde di chiamata. Voleva sapere chi gli aveva mandato quel messaggio. Non sapeva per quale ragione ma era convinto che fosse legato alla telefonata ricevuta poco prima. Il numero sconosciuto era non raggiungibile, la melliflua voce registrata dell’operatrice telefonica informò Haruki che il telefono della persona chiamata era probabilmente spento o non raggiungibile.
Haruki osservò ancora la fotografia ma non riuscì a dire con certezza chi fosse la donna nella stanza. Era davvero Miguci?
Guardò l’orologio, le otto e mezza. Era tardi.

Accese il televisore, non ci potevano essere altre motivazioni se non quelle di un incidente ferroviario, o forse un attentato. E Haruki pensò all’attentato nella metropolitana con il gas Sarin di qualche anno addietro. E se fosse successo ancora? Il Giappone ribolliva di sette religiose fanatiche pronte a tutto pur di affermare le loro verità assolute. La polizia teneva sotto controllo questi pazzi ma uno poteva sempre sfuggire. Persino agli americani erano sfuggiti gli attentatori dell’undici settembre.
Si sintonizzò sul canale del telegiornale ma nessuna ultim’ora allarmante, anzi stavano dedicando un lungo servizio alla figlia dell’imperatore. Haruki osservò la bambina ripresa dalla telecamera della troupe mentre giocava con una bambolina di ceramica bianca e pensò che se fosse nata solo mezzo secolo prima quella bambina si sarebbe potuta dire figlia di una divinità, ora era solo la probabile erede di un impero inutile ed anacronistico.
Cambiò canale in cerca della notizia drammatica che era certo si nascondeva nelle pieghe dell’etere. Nulla. Non trovo però nulla di incidenti stradali, attentati o guasti che potessero spiegare il ritardo di Miguci.
Compose di nuovo il numero della moglie. Questa volta il telefono era spento. La solita voce registrata lo informava cordialmente che sua moglie non era rintracciabile.
Pensò di uscire di casa e andarle incontro. Ma se sua moglie faceva un’altra strada? O se non si incontravano e lui la cercava mentre lei rientrava e non trovava nessuno? Cosa avrebbe pensato? Si sarebbe spaventata a morte. No, doveva restare nell’appartamento e aspettarla.
Nel palazzo intanto ancora nessun rumore. Haruki aprì la porta di casa e uscì sul pianerottolo. Se ne restò in ascolto ma non sentì nulla. Si avvicinò alla porta d’ingresso dell’appartamento del suo vicino, un manager di una qualche ditta automobilistica coreana che viveva lì con la moglie e due figlie piccole. Poggiò cautamente l’orecchio sulla superficie di legno per origliare. Aspettò un po’ ma solo silenzio. Poi gli parve di sentire un mormorio, un brusio soffuso e gli sembrò di udire il suo nome, come nella telefonata che aveva ricevuto prima. Fu quasi tentato di bussare per vedere chi c’era in casa ma cosa avrebbe detto se gli avessero aperto? Non era neppure in così buoni rapporti con quel vicino borioso e affettato. Origliò ancora e questa volta fu quasi certo di sentire proprio il suo nome, biascicato, con la u pronunciata lentamente, per un tempo troppo lungo. Suonò il campanello. Qualcosa di sarebbe inventato. Attese ma nessuno venne ad aprire. Restò a fissare la porta di legno scuro ancora per un po’ senza però avere il coraggio di avvicinare ancora l’orecchio. Quindi rientrò nel suo appartamento.
Guardò l’orologio, le nove meno un quarto. Era tardi.
Chiamò ancora sua moglie al telefono ma lo trovò sempre spento.

Andò in soggiorno e sedette sul divano. Non accese il televisore, osservò a lungo il giornale poggiato sul tavolino. L’aveva già letto tutto nel pomeriggio, dopo essere rientrato da scuola. Non si ricordava neppure una delle notizie lette, le solite identiche cose che si ripetevano giorno dopo giorno. Omicidi, suicidi, conflitti bellici, crisi economiche globali, governi caduti e colpi di stato, nulla che riguardasse la sua vita. Gli tornò in mente che una decina di giorni prima aveva scorto sul giornale un articolo che aveva attirato la sua attenzione. Parlava della ditta del signor Hara, però l’articolo non era nella pagina dell’economia ma in quella delle cronache locali. Il giornalista raccontava di come quella nuova ditta installatasi dall’oggi al domani nel loro quartiere apparisse piuttosto strana. Le finestre erano oscurate, non entrava e non usciva neppure un camion, nessuno sbuffo di fumo dalla piccola ciminiera sul tetto. E poi il silenzio. Nessun rumore di macchinari sembrava venire da dentro le mura della ditta e il giornalista si chiedeva che cosa facessero in quella fabbrica. Il signor Hara aveva, a quanto riportava l’articolo, rifiutato ogni intervista con il giornale, inviando un freddo comunicato in cui semplicemente invitava i giornalisti a starsene alla larga.
La sera, quando Miguci era rincasata, Haruki le aveva fatto leggere l’articolo e le aveva fatto le solite domande, ma Miguci lo aveva guardato in silenzio con i suoi piccoli occhi sottili e aveva mormorato un non posso. Haruki non aveva chiesto altro e quella sera non avevano più parlato.
Haruki si alzò dal divano e si mise a passeggiare avanti e indietro dalla cucina, misurava il piccolo appartamento con grandi passi, cercando di seguire le linee distorte del pavimento in legno. L’iroku era fitto di venature che si disperdevano e si riunivano in forme casuali. Guardò l’orologio, le nove. Era tardi.
Tentò ancora di chiamare al telefono Miguci ma il telefono della moglie era sempre spento.
Haruki andò alla finestra che si apriva sul soggiorno, la più grande della casa che dava direttamente sulla strada di fronte al palazzo, osservò ancora il leggero traffico e le macchine scorrere ordinate. Cercò di scorgere la sagoma di Miguci che si avvicinava al palazzo ma nessun passante era illuminato dalle luci arancioni dei lampioni. Alzò lo sguardo e si mise a guardare il palazzo di fronte, era stato costruito contemporaneamente a quello in cui abitava e le due costruzioni erano identiche. Due parallelepipedi di dieci piani, senza balconi, solo una lunga serie di finestre disposte in file ordinate e monotone. Haruki osservò di fronte a sé e si accorse che nessuna finestra era illuminata. Sembrava che non ci fosse nessuno. Possibile che l’intero palazzo fosse deserto? Che tutti fossero già stesi sui loro futon? Poi una luce si accese. Era la finestra proprio di fronte a quella in cui lui si trovava, stesso piano, stessa altezza. Dietro la finestra s’intravedeva una tenda di color chiaro, forse panna che dava alla luce un tono caldo, sicuro. Haruki restò ad osservare quell’unica finestra e si chiese dove fossero tutti, quando una mano furtiva scosse le tende illuminate. Prima le agitò poi, con un gesto violento, le scostò e Haruki vide un uomo in piedi di fronte alla finestra che lo osservava. Haruki cercò di cogliere qualche tratto dell’uomo ma riusciva a vedere solo una sagoma nera, ne distingueva solo i contorni in contrasto con la luce che veniva da dentro l’appartamento. Haruki era però certo che l’uomo lo stesse fissando, sentiva su di sé lo sguardo penetrante, attento, lo sentiva appiccicarglisi addosso, ne percepiva il fastidio, come il tocco di una mano sudaticcia. L’uomo restava immobile, fermo, come fosse una statua e Haruki si sentiva sempre più a disagio. Che voleva quell’uomo? Pensò di aprire la finestra e urlargli contro qualcosa ma non ebbe il coraggio. Quell’ombra lo spaventava. Chiuse le tende e s’allontanò dalla finestra rimettendosi a passeggiare per la casa, attento però a non avvicinarsi troppo alla finestra del soggiorno.
Guardò l’orologio appeso alla parete, le nove e un quarto. Era tardi.
Prese il cellulare dalla tasca dei pantaloni dove l’aveva riposto prima e compose il numero della moglie ma prima di concluderlo il telefono di casa squillò. Fece tre squilli e si interruppe. Haruki rimase con la mano protesa in direzione della cornetta in attesa di un quarto squillo che non arrivò.

Andò in anticamera. Si fissò allo specchio appeso alla parete di fronte alla porta del piccolo bagno. Lo specchio era stretto ma lungo e Haruki poteva vedersi a figura intera. Si osservò con calma. Piccolo di statura, era piuttosto tozzo, le spalle larghe frutto del suo passato di contadino nella fattoria dei suoi su nell’isola di Hokkaido, le gambe un po’ arcuate ma ben solide. Il viso piccolo con la fronte ampia e i due occhi scuri che erano poco più che strette e coricate fessure. Il naso adunco, stranamente a punta per un orientale. Si piaceva. Si considerava un bell’uomo e sapeva che le colleghe del liceo e persino qualche studentessa lo trovavano attraente. Un paio di volte aveva ricevuto delle avances piuttosto sfacciate ma aveva sempre declinato con garbo. Amava Miguci e non aveva mai pensato di tradirla.
Guardò l’orologio, le nove e mezza. Era tardi.
Pensò a quella volta in gita scolastica a Osaka, ormai erano passati un paio d’anni. Una delle sue alunne era entrata furtivamente nella sua stanza e lui se l’era trovata nel piccolo letto della camera d’hotel completamente nuda. Non era stata una situazione facile da gestire, soprattutto non voleva che si creassero dei malintesi che avrebbero potuto distruggere la sua carriera d’insegnante. Aveva fatto vestire la ragazza e l’aveva accompagnata fuori dalla stanza, promettendole che avrebbe dimenticato quanto accaduto. Lei lo osservava con occhi piangenti e pieni di aspettative, Haruki a tutt’oggi non sapeva dire che cosa ci celasse davvero dietro quegli occhi tristi.
Andò in bagno, si risciacquò il viso con l’acqua fredda del rubinetto, un torpore lo stava avvolgendo e sentiva gli occhi che si facevano pesanti, doveva però restare sveglio. Si chiese come potesse mai aver sonno con i mille pensieri che gli affollavano la testa, avrebbe dovuto essere agitato, teso, invece, non desiderava altro che sdraiarsi sul morbido futon e addormentarsi. Per un attimo si lasciò cullare dall’idea di farlo davvero, di chiudere gli occhi e di abbandonarsi al sonno.
Tornò in cucina, aprì l’armadietto sopra il frigo e tirò fuori la bottiglia bianca e panciuta del saké. Ne bevve prima un lungo sorso dal collo della bottiglia poi se ne versò un ampio bicchiere e se lo portò in soggiorno. Accese la televisione e mise sul canale del telegiornale. Parlava di una qualche partita di baseball. Una squadra giapponese aveva battuto una squadra americana in un certo torneo internazionale e il cronista era così euforico che urlava parlando della supremazia giapponese, della forza e del coraggio dei giocatori e di imprecisate rivincite storiche. Haruki tolse il volume al televisore e bevve il bicchiere di saké senza sentirne neppure il sapore.
Guardò l’ora sull’orologio del display del televisore. Erano le dieci meno un quarto. Era tardi.
Prese il cellulare e chiamò Migugi. Questa volta il telefono suonava libero. Haruki si drizzò sul divano sperando che la moglie rispondesse. Cinque squilli, sei squilli… dieci squilli.. quindici squilli… stava per riagganciare quando Miguci rispose. Haruki attese che la moglie dicesse pronto ma dall’altro capo solo silenzio.
- Miguci? Sono io, Haruki. Dove sei? Sei in ritardo, quando vieni a casa?
Ma dall’altoparlante non giunse nessuna risposta.
- Miguci? Pronto? Ci sei? Perché non rispondi?
Haruki si premette il cellulare contro l’orecchio e alzò al massimo il volume del telefono, gli parve di udire il brusio che aveva sentito provenire poco prima dal telefono di casa e dall’appartamento vicino. Cercò di comprendere quel ronzio fastidioso ma non riuscì a distinguere nessuna parola conosciuta, non era neppure certo che si trattasse davvero di parole e non magari di un semplice rumore di fondo.
- Miguci? Dì qualcosa!
Haruki ascoltò ancora il mormorio sommesso, non sapeva se sperare o temere di udire pronunciare il proprio nome con la u biascicata, allungata oppure finalmente la voce della moglie che lo chiamava. Schiacciò il cellulare contro l’orecchio sino quasi a farsi male ma non colse nulla. Si mise ad urlare.
- Miguci rispondi!!! Che ti succede?!!!
Poi sentì il click della comunicazione interrotta, dall’altra parte avevano premuto il tasto rosso.
Richiamò subito il numero di Miguci con la funzione reply call ma il telefono della moglie era spento come gli riferì la consueta voce registrata.
Haruki osservò l’ora sullo schermo del suo cellulare, le dieci. Era tardi.
Andò il cucina. Aprì il frigorifero e prese una bottiglia di birra cinese, la stappò con un gesto rabbioso e ne bevve una lunga sorsata. Il liquido freddo gli scese nell’esofago violentemente, Haruki sentì la birra ghiacciata sprofondare nel suo corpo sino allo stomaco e li gorgogliare sommessamente. Ne bevve un altro sorso e si asciugò le labbra col dorso della mano.
Finì la bottiglia di birra cinese in piedi lì in cucina, fermo. Gettò la bottiglia nella spazzatura e tornò in soggiorno.
Furtivamente scosse le tende della finestra che dava sul palazzo di fronte e vide che c’era sempre una sola finestra illuminata, ma non scorse più la sagoma nera che prima aveva osservato. Le tende tirate consentivano di vedere l’interno della appartamento illuminato. Haruki, nascosto dietro il pesante tendaggio che Miguci aveva voluto a tutti i costi mettere sulle finestre scrutò dentro l’appartamento del palazzo dall’altro lato della strada. Non riuscì a scorgere molto ma c’era qualcosa di familiare, come se avesse già visto quei muri, quei mobili e il letto che intravedeva al centro della stanza. Poi si ricordò del messaggio che aveva ricevuto; prese il telefono e tornò alla fotografia. La stanza ritratta era la stessa. Haruki non poteva esserne certo ma qualcosa dentro di lui gli diceva che non si stava sbagliando. Passò velocemente lo sguardo dalla fotografia sul telefono all’appartamento di fronte. Si, non c’erano dubbi. Lo stesso colore alle pareti, un giallino opaco e triste, lo stesso letto occidentale e c’era quel quadro che nella fotografia solo si intravedeva che era lì, appeso in bella vista, proprio al centro della parete di fronte alla finestra. Haruki riconobbe facilmente l’opera, era l’onda di Hokusai, una delle più famose visioni del monte Fuji ritratte dal pittore dell’Ukiyoe. Forse l’opera nipponica più conosciuta nel mondo. Strano che un giapponese appendesse quel quadro, di solito erano gli occidentali a farlo pensando di essere originali.
Haruki restò nascosto ad osservare la stanza di fronte, voleva vedere la donna che nella fotografia era stesa sul letto. Era davvero Miguci? Ma nella stanza non si vedeva nessuno, neppure un’ombra. Guardò l’intero palazzo, ancora tutte le altre finestre erano buie, nessuna stanza era illuminata. Ma dov’erano tutti? Si concentrò sui rumori del suo palazzo ma non sentì nulla, solo quel denso silenzio così insolito per quell’ora.
Guardò l’orologio, le dieci e un quarto. Era tardi.
Compose il numero della moglie senza smettere di guardare nella casa di fronte. Il telefono era ancora staccato. Gettò il cellulare sul piccolo divano del soggiorno e sbirciò ancora.
Suonarono al campanello della porta di casa. Haruki fu scosso dallo spavento e non capì subito che cosa fosse quel suono. Il campanello suonò una volta sola per un periodo di tempo insolitamente lungo, come se chi avesse premuto il pulsante avesse indugiato troppo. Miguci non suonava mai. Lei aveva le sue chiavi e le usava per aprire la porta del loro appartamento.
Haruki si avvicinò alla porta senza dire nulla, scostò il cerchietto di metallo che copriva lo spioncino e guardò fuori sul pianerottolo. Non vide nulla, tutto era avvolto dal buio. Chi aveva suonato non aveva acceso le luci delle scale. Nessun rumore proveniva da fuori la porta. Haruki si chiese se far finta di nulla, ma se poi era un messaggio di Miguci. Chi aveva suonato doveva aver bisogno di lui. Che altre ragioni per suonare?
Haruki domandò chi fosse con voce più bassa e dura del solito, come a voler trasmettere un senso di sicurezza e autorità. Nessuno rispose. Silenzio.
Haruki prese le chiavi, le infilò nella toppa e girò una mandata. La porta era chiusa con due. Attese un momento chiedendosi se aprire. Poi girò anche la seconda e spalancò la porta. La luce del suo appartamento illuminò soffusamente il pianerottolo e Haruki vide la bambina. Stava in piedi, immobile, di fronte alla sua porta, lo sguardo fisso in basso e i corti capelli scuri raccolti da un fiocco in cima alla testa.
Restarono così per qualche momento. Haruki a fissare la bambina e la bambina a guardare per terra. Poi lei alzò gli occhi e guardò Haruki.
Doveva avere circa cinque o sei anni, il viso tondo, pallido, quasi bianco, come una bambola, e ad Haruki tornò in mente la bambolina con cui stava giocando la figlia dell’imperatore nel servizio visto al telegiornale. La bambina era vestita con la divisa della scuola elementare Oe a poche centinaia di metri dal liceo in cui insegnava Haruki. La riconobbe dalla pezza a forma di giraffa tipica della scuola. La bambina era scalza.
- C’è la mia mamma?
La vocina della bambina sorprese Haruki, era bassa, lacrimevole ma nella domanda c’era un’urgenza, un impeto nascosto, come se quella bambina fosse più abituata a dare ordini che a fare domande.
- Chi è la tua mamma? Tu come ti chiami? Ti sei persa?
- La mia mamma si chiama Miguci e io non la trovo più, aiutami signore.
Miguci? Non era possibile! Stava parlando della sua Miguci, di sua moglie? Chi era quella bambina? Da dove veniva? Perché aveva suonato alla sua porta.
Haruki fece un passo verso la bambina ma lei indietreggiò. Lo fissò dritto negli occhi, spalancò la piccola bocca e Haruki vide tutti i dentini ordinati e bianchi. Poi la piccola si mise ad urlare, un grido acuto, vibrante, altissimo. Haruki si mise le mani sulle orecchie e strinse le palpebre. Il grido cessò ma la bambina restò con la bocca spalancata e i dentini in fila sulle gengive.
- Non ti voglio far del male. Chi è la tua mamma? Vuoi che la cerchiamo insieme?
Haruki fece un altro passo verso la bambina che però indietreggiò.
- Tu non la conosci la mia mamma. La mia mamma si chiama Miguci.
Un’altra Miguci? Un caso fortuito di omonimia?
- Ma tu dove abiti? Perché sei scalza?
- Io abito lì.
E la bambina allungò il braccio in direzione dell’appartamento di Haruki, che seguì il piccolo dito della bambina voltando il capo, come se non si ricordasse quale fosse l’appartamento dietro le sue spalle.
Suonò il telefono di casa. Un trillo improvviso. Fastidioso.
Haruki rimase dov’era, indeciso se continuare a parlare con la bambina e capire cosa volessero dire le sue parole oppure rispondere al telefono. Magari era Miguci, la sua Miguci, che lo stava chiamando.
- Stai ferma qui, non ti muovere.
Corse in casa e prese il telefono.
- Pronto?
Intanto guardava la bambina che rimaneva ferma nel buio del pianerottolo. Lo fissava con i suo occhi grandi, quasi occidentali, le braccine penzolanti lungo i fianchi e la bocca seria.
- Pronto?
- Signor Ono Haruki?
Una voce maschile. Lontana come provenisse da un pozzo.
- Si, sono io. Chi parla.
Haruki continuava a guardare la bambina, che all’improvviso cambiò espressione del viso. Sorrise, un aperto sorriso le si disegnò sul piccolo volto.
- Se ne vada.
E l’uomo riattaccò il telefono.
Haruki posò la cornetta sulla base del telefono, che avrà voluto dire? Di chi era quella voce? Parlavano proprio a me, Ono Haruki. Ono era il cognome di sua madre che aveva preso al posto di quello del padre quando questi era fuggito senza dar spiegazioni. Era il suo modo di testimoniare che non avrebbe mai perdonato il padre, che lo rinnegava come padre.
Guardò sul pianerottolo, la bambina non c’era più.
Uscì e si guardò intorno ma non la vide. La chiamò urlando. Non ne sentiva neppure i passi sulle scale. Pensò di scendere le scale per cercarla ma se poi chiamava Miguci? Non poteva lasciare l’appartamento. Rientrò e si chiuse la porta alle spalle con due mandate della chiave.
Guardò l’orologio. Erano le dieci e mezza. Era tardi.
Se ne andò in cucina, aprì il frigorifero ed estrasse un piatto di tempura avanzato dalla sera precedente. Non lo scaldò nel microonde, lo posò sul tavolo, prese una bottiglia di birra cinese e la stappò. Mangiò frettolosamente la tempura fredda e bevve la birra in piccoli sorsi. Haruki si chiese come potevano i cinesi produrre la birra più bevuta nel mondo, non era neppure certo che in Cina crescesse il luppolo. Finita la tempura mise il piatto nella lavastoviglie sotto i fornelli, ma non l’accese.
Tornò in soggiorno e si sedette sul divano.

Haruki si era appena appisolato quando fu scosso da un rumore. Spalancò gli occhi e guardo l’orologio appeso alla parete. Le undici meno un quarto. Era tardi.
Aveva sonnecchiato solo per un paio di minuti, quasi senza volerlo e senza essersi neppure accorto di aver chiuso gli occhi. Sentì ancora quel rumore.
Proveniva dalla porta di casa. Un suono sordo, come se qualcuno stesse grattando con un bastoncino di metallo contro il legno della porta. Ad Haruki venne in mente il suono di un seghetto, uno di quelli che usava da piccolo per ritagliare forme e figure nel compensato, era un gioco che gli aveva regalato suo padre. Forse l’ultimo prima di scappare.
Haruki si alzò. Andò alla porta e guardò dallo spioncino ma il pianerottolo era sempre buio.
- Chi è là?
Haruki gridò quasi più per sovrastare il rumore che veniva dalla porta che non per sapere davvero chi si nascondeva nel buio. Si rese conto che non gliene importava neppure. E se fosse stata sua moglie? Miguci aveva le chiavi, non avrebbe di certo grattato in quel modo. O forse la bambina di prima? Tanto lì non c’era sua madre. Haruki pensò che la bambina doveva cercarla altrove la mamma.
Haruki tornò sul divano, si sedette e chiuse gli occhi, non ci volle molto che si addormentò.

Fu svegliato dal suono del telefono di casa. Sbadigliò. Ad Haruki sembrava di aver dormito per ore. Guardò l’orologio. Le undici. Era tardi. Con passo pensante raggiunse il telefono posato sul mobile del soggiorno e alzò la cornetta.
- Pronto?
Non riuscì a soffocare uno sbadiglio e la voce gli uscì distorta, deformata.
- Pronto?
Ripeté.
Una voce di donna uscì dall’altoparlante. Haruki non la riconobbe.
- Haruki?
- Si. Chi parla?
- Sono io.
- Io chi?
- Ma come chi? Miguci!
- Miguci? Ma chi è lei? Lei non è Miguci?
- Haruki non scherzare. Ti sei ricordato la bambina, vero? Sei andato a prenderla a scuola?
- Ma quale bambina? Chi è lei? Che cosa vuole da me?
- Haruki sono Miguci. Tua…
E la comunicazione si interruppe. Improvvisamente.
Haruki restò a fissare il ricevitore del telefono. Chi era quella donna? Aveva sbagliato numero? Di che bambina parlava? Gli venne in mente la bambina di prima. Che l’avesse chiamato sua madre? Ma cosa c’entrava lui con loro. Chi erano? E perché la donna aveva detto di essere sua? Sua che cosa?
Haruki si sedette al divano e accese il televisore. Fece un po’ di zapping passando da un canale all’altro senza fermarsi su nessuno neppure il tempo necessario a capire che cosa trasmetteva. Poi spense.
Prese il cellulare e compose il numero della moglie, della sua Miguci. Ancora spento. Guardò l’orologio. Le undici e un quarto. Era tardi.
Haruki si alzò dal divano. Andò in bagno e urinò lentamente. Sentì la vescica svuotarsi ed immaginò le birre che aveva bevuto ed il sakè che dopo avergli attraversato tutto il corpo ora gli fuoriuscivano dal foro sul pene. Osservò il getto di urina e quando ebbe finito tirò lo sciacquone. Si lavò le mani e tornò in soggiorno.
Haruki non sapeva cosa fare. Guardò l’orologio. Le undici e mezza. Era tardi. Miguci non aveva mai ritardato così tanto, solo una volta, un paio d’anni prima era rientrata dopo la mezzanotte. Haruki si ricordava che l’aspettava a casa per le sei. Era il periodo in cui lei non lavorava preferendo restare a casa a dedicarsi alle faccende domestiche. Era uscita nel pomeriggio per fare la spesa. Di solito rientrava per le sei, il tempo di preparare la cena e di sedersi a tavola.
Ma quella sera alle sei non tornò. Haruki si ricordava che l’aveva aspettata seduto in cucina, con la tavola imbandita. Aveva atteso le sette, le otto, le nove e ogni volta si diceva che avrebbe chiamato la polizia se Miguci non fosse rientrata di lì a cinque minuti. Ma non lo faceva mai. Diceva, altri cinque minuti. E i minuti si trasformavano in ore.
Miguci rientrò a mezzanotte e cinque minuti. Lui era ancora seduto a tavola. Haruki non disse nulla, non le chiese nulla. Lei da par suo non diede spiegazioni. Si tolse il leggero soprabito autunnale e se ne andò in bagno. Haruki sentiva l’acqua della doccia scorrere. Miguci restò sotto la doccia per più di mezz’ora come se avesse da lavar via tanto sporco. Uscì dal bagno e si sedette con Haruki in cucina. Non parlarono. Lei scaldò in un pentolino un po’ d’acqua calda e preparò due tè. Lo bevvero in silenzio fissando le tazze e se ne andarono a letto. S’addormentarono ognuno dal suo lato senza dirsi neppure buona notte. Haruki aveva molte domande che avrebbe voluto fare ma si rese conto che la paura delle risposte era più forte della curiosità e così se ne stette zitto. S’accorse che Miguci si era addormentata subito, lo capiva dal respiro leggero e ritmato. Chiuse gli occhi anche lui e si addormentò pensieroso.
Al mattino Haruki trovò Miguci in cucina, aveva già preparato la colazione e lo accolse con un caloroso buon giorno. L’episodio della sera prima era stato cancellato. Haruki si rese conto che non ne avevano mai parlato, l’avevano semplicemente rimosso.
Haruki questa volta però era certo, avrebbe chiamato la polizia e quando Miguci sarebbe tornata l’avrebbe martellata di domande. Si promise di chiamare la polizia, ma non subito si disse. Tra cinque minuti.
Haruki si alzò dal divano, nel farlo scorse l’orologio illuminato del display del videoregistratore, mezzanotte meno un quarto. Era tardi.
Andò alla finestra che dava sulla strada scostò il pesante tendaggio. Guardò fuori in cerca di passanti ma nessuna figura si muoveva sulla strada. Solo qualche rara macchina sfrecciava sull’asfalto nero. Alzò gli occhi e vide il palazzo di fronte. C’era sempre la solita finestra illuminata, tutte le altre restavano spente. Fissò nella stanza di fronte ma non vide nessuno. Poi all’improvviso gli parve di vedere qualcosa muoversi. Guardò meglio e finalmente riuscì a scorgerla. Era un ombra che faceva avanti e indietro nella stanza, verso la parete di sinistra. Haruki non riusciva a vedere chi fosse, la figura restava fuori dal suo campo visivo, ma ne vedeva l’ombra riflettersi sul pavimento fare avanti e indietro. Haruki notò che si muoveva in modo cadenzato, lento, con la stessa velocità, avanti e poi indietro. Restò a fissarla a lungo. Haruki si chiese se era la stessa che aveva visto in precedenza stagliarsi contro la finestra illuminata. Non poteva esserne certo ma avrebbe detto di no. Sembrava più piccola, come proiettata da un corpo più minuto. Fanciullesco, forse. Poi l’ombra si fermò, Haruki guardò a sinistra delle stanza ma non riuscì a vedere nulla. L’ombra parve ingigantirsi ed occupare tutta la stanza, la figura si stava muovendo. Si stava spostando verso il centro della stanza, e Haruki potè vederla. Era la bambina. La bambina che aveva suonato alla sua porta. Che avesse trovato finalmente sua madre? La bambina si fermò in mezzo alla stanza. Lo sguardo era rivolto davanti a sé, Haruki la vedeva di profilo. La bambina si volse e lo fissò. Haruki era lontano ma sentì su di sé lo sguardo autorevole e imperioso di quegli occhi. La bambina alzò lentamente il braccio nella sua direzione, allungò l’indice e Haruki fu certo che lo stesse indicando. La bambina rimase ferma così, un braccio molle penzoloni lungo la divisa scolastica e l’altro teso, il dito proteso ad indicare di fronte a sé. Haruki chiuse il tendaggio di scatto. Non voleva vederla. Chi era?
Guardò l’orologio, mezzanotte. Haruki pensò che era arrivato il giorno dopo. Si mise a riflettere sul fatto che in quel momento era cominciato il domani. Non era più nel giorno prima ma nel giorno dopo. Ed era bastato un attimo, un secondo prima era in un giorno, il secondo dopo in un altro giorno. Non aveva fatto nulla ma lo stesso domani era comunque arrivato, indipendentemente dalla sua volontà, senza neppure se ne accorgesse. Era successo, così, improvvisamente. Se anche avesse voluto impedirlo non avrebbe potuto far nulla per fermarlo, il giorno nuovo sarebbe arrivato in ogni caso. Haruki sorrise tra sé dell’assurdità di quel pensiero quindi spense le luci del soggiorno e se ne andò in camera da letto.

Stese il futon matrimoniale che la mattina aveva riordinato nell’armadio e si spogliò. Restò in mutande. Haruki pensò che doveva fare qualcosa, che forse si era dimenticato di qualcosa ma scacciò via quel pensiero con una scrollata di spalle e si coricò sul futon. Tirò la leggera coperta sulle spalle e si voltò sul lato destro. Chiuse gli occhi e cercò di addormentarsi.
La stanza era fredda e la coperta troppo leggera, Haruki si alzò e aprì l’anta scorrevole dell’armadio per prenderne una più pensate. Frugò fra i suoi vestiti e le varie coperte riposte con ordine sui ripiani, alla fine trovò quella che cercava.
Haruki stese la coperta pesante sopra quella più leggera e richiuse le ante dell’armadio.
Se ne andò in soggiorno. Si sedette sul divano e accese la televisione. Haruki era certo di essersi dimenticato di qualcosa. Fissava le immagini sullo schermo pensando che doveva fare con urgenza una cosa ma questa faccenda non gli veniva in mente. Passò in rassegna tutti gli impegni importanti della giornata. I compiti dei suoi alunni li aveva corretti, la bolletta del telefono che scadeva di lì a poco l’aveva pagata il giorno prima, la spesa l’aveva fatta, sua madre stava bene e non doveva portarla a fare qualche visita. Che cosa si stava dimenticando? C’era come una parte della sua vita che gli sembrava di aver smarrito. Ma cos’era?
Guardò l’orologio. Le dodici e un quarto. Era tardi, doveva andare a letto, la mattina dopo aveva la sveglia presto, aveva lezione la prima ora. Spense il televisore e se ne andò in camera.
Haruki s’infilo sotto le coperte sopra il morbido materasso del futon. Si voltò verso destra, chiuse gli occhi. S’addormentò in pochi minuti.



Logos


06\01\08

02 gennaio 2008

Blutengel - I'm Dying Alone

01 gennaio 2008

Io sono

Io sono

Io sono il silenzio
Che viene urlante
Dopo la parola.

Io sono il vento
Che spira nelle fronde
D’alberi senza radici.

Io sono l’acqua
Che bagna le sponde
D’infiniti mari.

Io sono l’istante
Che dice di sé
Il tempo e la fine.

Io sono la pietra
Che incisa reca
La menzogna dell’uomo.

Io sono la foglia
Maciullata e putrida
Sotto lo scafo della nave.

Io sono il fuoco
Che consuma e della fenice
Si fa genitore.

Io sono il sangue
Che rosso scivola
Sul selciato ferito.

Io sono il nero
Degli occhi crudeli
Della peste assassina.

Io sono il dolore
Della nascita e della morte
E dell’intermezzo.

Io sono l’illusione
Che ostinata disprezza
La mia ragione.

Io sono il nulla
Che ogni cosa dipinge
D'assurde tinte


Io sono Douve
E osservo la folgore
Illuminare la mia

Morte.

Ermetica Ermeneutica

LA POETICA CONNETTIVISTA E YVES BONNEFOY
Vedo Douve supina.
Alla sommità dello spazio carnale
L’odo brusire.
Scarabei neri affrettano le mandibole
Attraverso questa distesa
In cui le mani di Douve si espandono,
ossa spolpate delle carni
trasmutandosi in tela grigia
che il ragno solenne
rischiara.

Yves Bonnefoy
(“Movimento ed Immobilità di Douve” – Yves Bonnefoy – Giulio Einaudi Editore)
Fra le molte caratteristiche peculiari del Connettivismo ve n’è una che spicca in modo manifesto e che si configura come elemento essenziale di tutta la filosofia che soggiace nelle pieghe del movimento. Ci stiamo riferendo ovviamente alla velocità; a ciò che si declina nella spinta ad andare Oltre, nell’incessante e continua ricerca di ciò che il domani riserva, senza incertezze, sino alla pretesa del Connettivismo di essere de facto artefice (e dunque non solo osservatore) di ciò sarà l’alba del giorno dopo.
Tale elemento costituisce uno degli essenziali punti di forza della riflessione, della visione del mondo connettivista, il rifiuto quasi urlato ad ogni forma di conservatorismo verso una coraggiosa e spregiudicata auto-innovazione che non teme di abbandonare le vette raggiunte per spingersi sempre aldilà, Oltre.
L’Oltre, nelle sue differenti accezioni tipiche di un movimento solo apparentemente coeso e omogeneo (scientifiche, narrative, poetiche, filosofiche) resta il Graal inarrivabile a cui è paradossalmente sufficiente tendere per averlo di fatto conquistato, una possessione nella non-conquista.
Una corsa verso il futuro di cui si sentono i battiti di un cuore accelerato (termine non certo casuale) e il rumore dei piedi sull’asfalto piovoso dipinto del riflesso di violacei neon metropolitani. Una corsa consapevole dell’infinità della strada da percorrere e dell’eternità del tempo che l’avvolge, ma è proprio questa consapevolezza della impossibilità del raggiungimento, presente in ogni produzione (narrativa, poetica, saggistica) del Connettivismo che rivela come il Movimento stesso abbia preso sulle proprie giovani spalle il peso della finitudine dell’uomo e che, a partire da questo suo limite essenziale ed ontologico, abbia costruito la strada verso l’Oltre, verso le misteriose e differenti forme di post-umanismo.
Nella situazione limite della presa di coscienza dell’impossibilità del ottenimento dell’aldilà ricercato e bramato, il Connettivismo mostra come un aldilà esista e che solo nel tendervi incessantemente lo si realizza perpetuamente.
Il Connettivismo è dunque un treno che continuamente corre lungo argentei binari, senza soste intermedie, senza stazioni di cambio, un supernova express che sfreccia verso l’Oltre.

Se quanto tracciato nelle righe precedenti è ormai una riflessione consueta che già altrove e da penne più illustri è stata vergata, la rubrica che con queste pagine vogliamo inaugurare ha un obiettivo differente, concreto, un’aspettativa d’analisi ambiziosa, quasi sfacciata. Il tentativo che si strutturerà iterazione dopo iterazione sarà di soffermarci a descrivere la corsa del Connettivismo correndo con esso, ci arrabatteremo per isolare l’attimo e di fatto costringerlo a mostrarsi. Obbligheremo il Movimento stesso a una virtuale sosta in cui osservarsi nella corsa e nella destinazione.
Si vorrà fare nelle pagine che seguono e che seguiranno un’ermeneutica del presente, una storiografia del contemporaneo, un’analisi statica della dinamica. Un’operazione paradossale come ben avrà intuito il lettore; non si può infatti dare interpretazione di un testo non ancora scritto, o non si può pretendere il distacco dell’analisi storica nell’oggi dei fatti accaduti.
Per chi preferisce le metafore di natura scientifica si potrebbe dire che nella pagine che seguono tenteremo di osservare un movimento restando sullo stesso piano di riferimento dell’oggetto di cui vogliamo descrivere la corsa. Seduti su uno dei molti sedili del Supernova Express connettivista tenteremo di fare un’ermeneutica che sarà, per le ovvie ragioni ricordate, un’ermetica ermeneutica.
Scardineremo famosi principi fisici d’indeterminazione attraverso un percorso di paradossalità e di assurdità che pian piano svelerà la natura stessa del Connettivismo legandolo indissolubilmente (e molto più di quanto è stato fatto sinora) al sostrato culturale, narrativo, letterario contemporaneo.
Si prepari allora il lettore ad una riflessione sul senso stretto del Connettivismo, sulla via che sta percorrendo e sui risultati che sta raccogliendo senza che tuttavia il Connettivismo abbia ancora in sé definito un senso, identificato la strada percorsa ed ottenuto i risultati auspicati.
La nostra ermetica ermeneutica costituirà il primo, delirante, tentativo di proiettare il lettore in un ipotetico futuro e mostrare quale sarà la riflessione esegetica compiuta dai critici di domani sul Connettivismo che per allora sarà solo ricordo. Questo è il modo di fare ermeneutica del Connettivismo e sul Connettivismo. Questa è ermetica ermeneutica.
Le ragioni che stanno alla base di questa nostra intenzione sono molteplici e complesse, si potrebbe citare un personale desiderio di comprensione e di consapevolezza sul Movimento oppure l’esigenza di una risposta ad una domanda primigenia sul senso di ciò in cui siamo immersi. Lasciamo al lettore la preferenza sulle ragioni che costingono ad un folle tentativo ermeneutico, resta tuttavia forte in chi scrive la convinzione che più non si poteva ignorare la muta richiesta di introspezione proveniente dal Connettivismo stesso, ora che esso stesso è sulle soglie della fama e dell’uscita allo scoperto nella società culturale italiana.
Finalmente rivelato e mostrato l’intento manifesto di questa nuova rubrica, avendo anche avvisato il lettore del grado non indifferente di paradossalità che vi ritroverà, possiamo ora proseguire iniziando questa nostra operazione d’ermetica ermeneutica.
Il primo aspetto del Connettivismo su cui vorremmo compiere l’ardita operazione ermeneutica è la poetica, ovvero cercheremo di indagare il senso ed il significato che soggiace alla produzione in versi del Movimento, produzione ricca e piuttosto eterogenea.
Una prima considerazione necessaria e piuttosto ovvia appare subito palese. Il Connettivismo è, aldilà delle sue molteplici definizioni sempre insufficienti, soprattutto un movimento letterario che si innesta pienamente sul genere della fantascienza. Dalla sf il Connettivismo nasce, da essa trae le sue immagini più caratteristiche e definenti, la sua produzione narrativa è (a parte qualche caso particolare) rispondente pienamente ai topoi narrativi tipici di genere e il Connettivismo stesso non ha mai nascosto tale sua illustre ascendenza.
Ecco che allora si mostra palese una prima discrepanza tra le origini (biologiche potremmo dire) del Connettivismo e il suo stesso manifestarsi letterario, infatti la sf non ha mai considerato la poesia come forma espressiva propria, preferendole sempre ed in modo prepotente la prosa, la narrazione prosaica e puramente descrittiva
[1].
Il Connettivismo sin dalle sue prime, amorfe, apparizioni trova nell’elemento poetico una forma di espressione importante, riconoscendo alla versificazione un valore d’analisi del reale peculiare e tipico e soprattutto estremamente potente.
E’ necessario però non anticipare e proseguire con ordine. Le ragioni che spinsero i primi autori del Connettivismo ad avvicinarsi alla poesia sono da rintracciare in altri motivi rispetto alla presa di coscienza del potere “penetrativo” della parola poetica. Il Connettivismo, come spesso si è detto, ha molti padri e molte madri, a formare una sorta di nucleo familiare moderno (o post-moderno) da cui attingere una eterogenea ereditarietà memetica. Il Connettivismo nasce dal Futurismo, dal Simbolismo, dal Surrealismo, dal Crepuscolarismo e da altre correnti che in modo più o meno diretto sfociano nelle pagine di NeXT, accogliente estuario sul mare della contemporaneità.
Da tali illustri genitori il Connettivismo trae la sua accettazione della poesia come strumento narrativo plausibile a valido per narrare i temi che gli sono cari e peculiari, senza veder incoerenza tra la matrice scientifica della sf e gli stilemi sentimentali caratteristici del componimento poetico. Anzi, si potrebbe osservare come la poesia è stata per il primo Connettivismo un forte e palese strumento con cui differenziarsi da altri movimenti di genere sf precedentemente apparsi nel panorama letterario e mostrarsi come qualcosa di nuovo, di innovativo e di costitutivamente coraggioso. Il Connettivismo si pasceva dello scandalo creato nei benpensanti della sf di fronte ad una “poesia di fantascienza”. Uno sberleffo in faccia alle rigide tradizioni fantascientifiche che esiliavano la poesia a autori sentimentali e “antichi”.
A fianco di questa ragione che si potrebbe definire “politica” ve ne era un’altra più concettuale e profonda per cui il Connettivismo scelse come forma espressiva lecita anche la poesia, ovvero il desiderio di rispondere ad un’esigenza intimistica, riflessiva, crepuscolare che si era palesata sin da subito nelle intenzioni del Movimento
[2].
La poesia che è per sua per natura strumento espressivo di chi ha intenti riflessivi si prestava molto bene a rispondere all’esigenza connettivista di descrivere le emozioni suscitate dall’osservazione di un neon intermittente in una metropolitana deserta, di una fabbrica dismessa nelle brughiere nebbioso di infinite pianure, di silenzi misteriosi che legano antichi passati con futuri sognati, di una astronave che si staglia nell’attimo eterno di un buco nero. Erano queste e altre le immagini che ribollivano nelle menti dei primi connettivisti che li costrinsero a fare della poesia uno strumento narrativo e una peculiarità del movimento che andavano pian piano disegnando.
Come non rileggere allora in quest’ottica i primi componimenti apparsi sul numero zero o sull’iterazione uno di NeXT?
Scriveva X sul preistorico zero:

Fredda luminescenza
Sbiadita che di sera
Si stende sulla città
Assopita: cielo al neon
Che prelude stanco
A notti senza tempo
[3].

O ancora Zoon nella Iterazione uno:

Sono in prossimità della storia
Coordinate prossime a dove cammino
Solo spostate nel tempo.

Sono connesso agli eventi
Che accadono qui accanto
[4].

O il frammento di Pykmill:

Nuvole basse
Come bianche astronavi
Regine del cielo
[5].

Ritroviamo in questi brevi, e non certo esaustivi esempi, tutta l’intenzione stessa, la spinta costitutiva che ha portato alla nascita del Connettivismo e che doveva trovare sua espressione necessariamente nella forma poetica perché solo in essa ci si poteva librare sopra la fatticità della prosa scientifica e iper-tecnolgica che dominava (e domina) la fantascienza hard tipica della cultura anglosassone. La poesia rivelava una sensibilità nuova che soggiaceva, più o meno latente, nelle pagine di un movimento che voleva proporsi non solo come rinnovatore ma di fatto come nuova via per la fantascienza e per tutto il pensiero sf.
La poesia divenne così una delle forme espressive peculiari del Connettivismo presente costantemente nelle pagine di NeXT senza alcuna subordinazione alla prosa o alla saggistica.

Sino a questo punto però ancora nulla si è detto dell’indagine ermeneutica che abbiamo dichiarato di voler compiere, tace ancora l’esegetico strumento di indagine del senso profondo (latente?) che si annida nel nucleo stesso del Movimento. Si è, sinora, fatto piuttosto del facile giornalismo nel descrivere, cronologizzando, eventi e considerazioni piuttosto note a chi è stato assiduo frequentatore del Movimento. Lo scopo di questa rubrica però ci impone di andare oltre (l’Oltre che rappresenta sempre il confine di ogni intento connettivista) e di abbandonare le boriose riflessioni da quotidiano per addentrarci nell’indagine interpretativa che ci siamo prefissati di portare avanti.
Ritorna in questa nostra intenzione la stessa spinta del Connettivismo che incessante non si ferma, non si placa delle mete raggiunte e guarda sempre, famelico, aldilà.
Per poter trasformare queste nostre riflessioni da banale giornalismo a bizzarra ermeneutica è necessario compiere quel passo assurdo di cui abbiamo sopra accennato. Dovremo ora svelare attraverso quale artificio razionale tenteremo di fare storiografia del contemporaneo e ermeneutica del presente, mostrando il movimento da dentro il Movimento.
In questo passaggio si radica tutto il valore esegetico delle pagine che stiamo vergando e di quelle che vergheremo nelle Iterazioni successive, un’operazione che lascerà i più interdetti, storditi e sorpresi ma ci consentirà di svelare il valore originario, profondo, misterioso della poesia connettivista.
Il senso e il significato che, nascosto, emerge dalla produzione in versi del Movimento e che rivela, agli occhi di chi si pone ad osservare, quale valore abbia il componimento poetico per il Connettivismo. Vedremo come la poesia non sia solo strumento per il dire emozionale e sentimentale delle descrizioni struggenti di luci soffuse o si astronavi perse nell’immensità siderale del nero. La poesia connettivista ha in sé un potere, un valore gnoseologico
[6] costitutivo e peculiare che disgeleremo. La poesia connettivista come rifiuto o superamento di ogni intento puramente estetico e come emersione di un potere conoscitivo e penetrativo del reale che le è proprio e unico, irripetibile e mai duplicabile nelle altre forme d’espressione (prosa e saggistica) che sono tipici del Movimento.
La poesia connettivista, vedremo nelle pagine che seguiranno, si struttura come un pozzo
[7] che penetra la realtà nel profondo sino ad arrivare a sfiorare e divellere la sottile membrana che separa il qui dall’aldilà, l’illusorio dal reale, il sustruito[8] dal Mondo della Vita[9].
Lo svelamento di questo misterioso e recondito potere che si nasconde in ogni verso connettivista sarà il fine della nostra ermetica ermeneutica.

Eccoci ora giunti al nodo gordiano di tutta questa riflessione, la chiave di volta che sorregge la complessa architettura ad arco, fallisse questo nostro procedere riflessivo cadrebbe miseramente quanto riportato nella pagine scritte e in quelle che seguiranno. Non abbiamo però strumenti per giudicare la correttezza dell’operazione che compiremo, non vi sono metri di paragone e di giudizio; invitiamo il lettore semplicemente ad accettare il paradosso e il surreale insito in questa operazione.
Avrà molte occasioni in futuro di esprimere un giudizio che ora invitiamo semplicemente a sospendere, si compia dunque e finalmente l’epochè fenomenologia
[10].
Per poter rivelare il valore proprio della poetica connettivista, il potere che latente (oscuro forse anche a suoi autori) s’insinua in ogni verso ritmico, e perciò svelare il senso ultimo della produzione poetica del Movimento analizzeremo e studieremo nel dettaglio la produzione poetica di un autore che con il Connettivismo non ha nulla a che fare, poeta di altra nazione, di altre origini culturali, lontano anni luce da ogni influenza e lettura fantascientifica; insomma un poeta non connettivista.
Ecco svelata l’assurdità e la paradossalità che però ci permette di guardare con distacco ciò in cui siamo immersi, di registrare la velocità del Supernova Express seduti comodi suoi sfreccianti sedili. Stiamo creando un liquido di contrasto che ci permetterà di osservare ciò che altrimenti sarebbe stato velato e oscuro. L’impossibilità di osservare da dentro ciò che accade all’interno del Movimento ci ha di fatto costretto a compiere un assurdo passaggio che ci ha poso al di fuori dandoci i presupposti conoscitivi, esegetici necessari a compiere l’ermeneutica di cui vogliamo dire. Un espediente, un meccanismo razionale, un’operazione logica o forse un utilitaristico utilizzo dell’altrui poesia, poco importa al momento, a noi preme poter osservare ciò che altrimenti resterebbe velato.
Vedremo al termine di queste pagine come questa operazione sarà meno ardita di quello che ora di certo appare e la sua antinomia si ammanterà di lampante chiarezza e consueta evidenza.
Prenderemo dunque in prestito la produzione di un poeta contemporaneo, l’analizzeremo a fondo, ne sveleremo il senso profondo (grazie alla lettura dei componimenti stessi e di alcuni importanti saggi) e una volta che questo senso sarà emerso ci accorgeremo che esso è l’identico che soggiace in profondità al Connettivismo. E qui lo scandalo! Leggere un poeta non connettivista e scoprire che il senso che soggiace al suo poetare è il medesimo di quello connettivista, senza che vi siano manifesti rimandi, palesi richiami o sfacciati plagi. Un invisibile filo unisce il poeta di cui diremo al connettivismo e viceversa, unificandoli e compenetrandoli.
Far dire ad altri ciò che è peculiare (ed unico) del Connettivismo, questa la nostra ermetica ermeneutica.
Noteremo poi, in conclusione, che nell’emergere del senso dalle profondità in cui alberga esso si “attuerà” in modi ovviamente differenti e che naturalmente non sarà possibile sovrapporre il poeta che leggeremo con i poeti connettivisti tout court. Differente la produzione manifesta del verso, delle parole, del versificare ma identico e medesimo il senso profondo e il potere che da esso deriva; una filiazione leggermente differente da un genoma (meme?) identico.
Non ci resta che rivelare il nome del poeta che si è prestato, volente o nolente, a questa nostra operazione: Yves Bonnefoy.

Per poter comprendere la poetica di Yves Bonnefoy e trasformarla in un’operazione d’assurda ermeneutica nella poesia connettivista dovremo lentamente risalire il fiume della produzione del poeta francese tappa dopo tappa, e far sì che ogni sua opera poetica sia una spiaggia a cui approdare e da lì proseguire oltre, giungendo all’obiettivo che in Bonnefoy è chiaro sin dai primi versi del suo testo d’esordio: “Movimento e immobilità di Douve
[11]”.
Tenteremo di ripercorrere il complesso cammino compiuto dal poeta francese durante tutta la seconda metà del ventesimo secolo leggendo le sue poesie, le note critiche e alcuni importanti saggi che hanno permesso di far luce sulla sua, non sempre immediata, finalità poetica.
Finalità, si perché Yves Bonnefoy ha un’idea precisa e definita di quale debba essere lo scopo e il senso della poesia (e quindi non solo della propria poesia) e in tale direzione egli mira, coscientemente, ad arrivare attraverso un sentiero logico ben rintracciabile nelle sue principali opere.
Ives Bonnefoy è stato spesso accostato con maggiore facilità ad autori di testi filosofici che non a precedenti poeti sia francesi che stranieri, questo è senza dubbio corretto, sia per la formazione personale di Bonnefoy che lo rende avulso dalla tradizione poetica francese (così ricca in campo poetico) ma che lo avvicina prepotentemente a fonti di natura filosofica, tra cui (e lo vedremo molto bene nelle pagine che seguono) con tutto il pensiero fenomenologico di Edmund Husserl.
Resta sempre il dubbio di quanto questa ascendenza fenomenologica sia in Bonnefoy consapevole o sia semplicemente un’influenza memetica inconscia se non addirittura un giungere a medesime conclusioni riflessive passando per altre vie logiche (nel qual caso poetiche e non prettamente filosofiche). Scopo della presente analisi, ed più in generale di tutta la rubrica “Ermetica Ermeneutica”, sarà proprio quello di insinuare il sospetto che alcune ascendenze analitiche non siano così legittime come spesso creduto e vadano, al contrario, ricercate in una più ampia prospettica che attribuisce ai memi un ruolo maggiormente rilevante.
Prima di addentrarci nella lettura di Bonnefoy e, facendo ciò, mostrare de facto la stessa poetica connettivista, vorremmo tracciare gli ideali passi del nostro cammino, in una sorta di indice riassuntivo volto a facilitare il lettore poco aduso all’esegesi di testi di poesia.
Il cammino che seguiremo muove a partire dalla lettura delle quattro opere poetiche
[12] principali del poeta francese. Il testo da cui prenderemo il via è il già citato “Movimento e immobilità di Douve” edito nel 1953 che costituisce nella nostra trama la pars destruens della riflessione di Bonnefoy, ovvero il tentativo violento di distruzione di ogni forma di concettualizzazione, di uso normativo e falsificatorio della parola, il rifiuto della sua aberrante sottomissione a predefiniti schematismi che le impediscono di penetrare la realtà che resta, perciò, mascherata e nascosta da finti linguaggi, semplici costrutti ingannevoli dell’uomo. Una volta spazzato via il campo da ogni sustruzione linguistica si apre davanti a Bonnefoy il mondo, il mondo della vita in cui abbandonarsi ma si apre anche il problema di descrivere questo vero mondo utilizzando una parola nuova che sia in grado di giungere nel cuore del reale senza fare di sé stessa strumento d’inganno. Ecco allora la lettura di due testi fra loro lontani negli anni ma vicini nei propositi (che non a caso in Italia sono stati editi in un unico testo): “Ieri deserto regnante” e “Pietra scritta[13]”, il primo del 1958 e il secondo del 1965. Primi, timidi tentativi di dire il mondo della vita con una parola rinnovata, viva che segni la fine del deserto di senso che sino ad ieri regnava incontrastato.
Infine, l’ultima opera del poeta francese, edita in Italia solo da pochi mesi: “Le assi curve
[14]” del 2001, con cui il tentativo di cui dicevamo sopra si compie con un buon grado di pienezza.
Nelle pagine che seguono ci addentreremo nella lettura del testo di Bonnefoy per svelare il lirismo assolto, a tratti allucinatorio con cui il poeta francese prende per mano il lettore e lo guida verso un nuovo modo di vedere la realtà, di descrivere l’essere e (di conseguenza) di vivere il mondo della vita.
Senza indugi quindi muoviamo il passo e precipitiamo nelle pagine di Yves Bonnefoy.


Ti vedevo correre sulle terrazze,
Ti vedevo lottare contro il vento,
Ti sanguinava il freddo sulle labbra.

E t’ho vista spezzarti e gioire d’esser morta, oh, più bella
Della folgore, quando chiazza i vetri (già) bianchi del tuo sangue.


Così Bonnefoy presenta al lettore Douve. Non ha timore il poeta di utilizzare immagini forti, sanguinolente e drammatiche, vetri sporchi di sangue illuminati da folgori nel cielo. Ma chi è Douve, e quale è il messaggio che porta nel suo gioire di morte?
Douve
[15] è un luogo, Douve è una donna, Douve è una condizione mentale, Douve è uno strumento nella mani del poeta, Douve è ciò che il lettore vuole che Douve sia. Chi scrive la immagina con il volto di donna, il corpo androgino e lo sguardo nero che penetra oltre la superficie.
Dice bene Stefano Agosti nella sua introduzione all’edizione italiana del testo: “Douve è dunque una creatura investita della morte. Attraverso di lei e dentro lo spazio del mito che essa continuamente ricrea, si assiste alla promozione del reale a statuto conoscitivo. Ma si tratta d’uno statuto non codificato dall’intelletto.”
Ecco il punto, Douve è una negazione. Douve è un rifiuto, una consapevole messa tra parentesi di un modo di descrivere e di osservare il mondo e tale urlato “no” è possibile per il poeta solo nella presa di coscienza della morte, come ancoraggio prepotente verso una realtà non idealizzata, non costruita di fatti concettuali, ma una realtà viva e vivente. Douve è il recupero dell’elemento mortale della vicenda umana, è l’epopea del corpo che si trasforma e corrompe.
Dice lo stesso Bonnefoy nell’eccellente introduzione all’edizione italiana di “Ieri deserto regnante”: “Douve è stata per me una presa di coscienza della poesia nella specificità del suo atto, che mi parve essere quello di capire bene – non con il pensiero, ma in modo più immediato, nel più profondo dell’esperienza vissuta – che gli esseri e perfino le cose sono mera assenza, “morte” quando li affronta soltanto per mezzo dello strumento concettuale.”
Douve è dunque, nell’intenzione del poeta, una figura mitica che porta con sé, come ogni altra figura mitica, un’allegoria personale, un messaggio universale che si ripercuote incessantemente ad ogni sua lettura. Bonnefoy fa mitologia della riflessione filosofica ed esistenziale dando vita ad un personaggio che s’insinua nel sostrato memetico dell’uomo del ventesimo secolo e piano, subdolamente, ne va a scardinarne le certezze e le false convinzioni.

La poetica di Bonnefoy si apre, prima ancora di Douve, nella considerazione personale (e filosofica) del potere malefico e ricattatorio del “concetto”, ovvero della nozione astratta di un sentimento, di un evento, che seduce l’uomo perché si vanta di una illusoria eternità, immutabilità, perfezione.
La realtà viene, secondo Bonnefoy, falsificata dall’utilizzo di parole che sono frutto di una operazione di “concettualizzazione”, una idealizzazione per cui oggetti viventi e veri vengono ipostatizzati in concetti eterni, assoluti, sferici e perfetti nella loro lucente luminosità. Bonnefoy intuisce però che questi “concetti” nulla dicono del mondo in cui l’uomo è quotidianamente immerso, anzi, sono la principale fonte di un fittizio meccanismo di idealizzazione che porta alla creazione (platonicheggiante) di un altro-mondo, fatto di oggetti puri, avulsi dal tempo, dallo spazio, dalla mortalità stessa che permea ontologicamente ogni cosa. La parola si trasforma in un nefasto dispositivo di sustruzione attraverso cui costruire un soppalco concettuale ad uso e consumo di una visione de-umanizzata dell’essere nel mondo.
Uno dei massimi commentari di Bonnefoy, J. P. Richard, sottolinea molto bene che il concetto porta con sé un potere consolatorio perché ammutolisce gli urti dell’esistenza e gli stravolgimenti del caso creando un equilibrio armonioso, ma proprio questa calma armoniosa può essere offerta solo dall’astrazione che dimentica l’esperienza vissuta, che trascura che l’uomo è foglia d’edera maciullata, segnata dal tempo, dalla violenza. Il concetto di foglia è dunque il tradimento di quella foglia che l’erlebnis
[16] porta con sé.

Vedo douve supina. Nella città scarlatta dell’aria,
Dove i rami combattono sul suo viso,
Dove le radici s’insinuano dentro il suo corpo
Ella irradia una gioia stridente d’insetti,
Una musica orribile.

Al passo nero della terra, Douve sconvolta, esultante
Raggiunge la lampada contorta degli altipiani
[17].

Vedo Douve supina. In una stanza bianca,
Cerchiati di gesso gli occhi, vertiginosa la bozza
E le mani condannate all’erba lussureggiante
Che da ogni parte la invade.

S’apre la porta. Un’orchestra avanza.
E con gli occhi sfaccettati, toraci pelosi,
Teste fredde con becchi, con mandibole,
La inondano
[18].


Questo il panorama che si apre di fronti agli occhi atterriti del poeta, una mistificazione in cui l’uomo inconsapevole giace, un inganno costruito dalla parola concettualizzata, un’illusione voluta dall’uomo stesso per nascondersi la verità del mondo in cui ogni giorno respira, mascherandolo con una patina di eterna (ma apparente) perfezione.
Il poeta non può, per sua stessa natura, restare indifferente a questa finzione, il poeta (e Bonnefoy lo è di certo) è l’archetipo dell’uomo nuovo (del post-uomo?) che non ha paura di guardare con occhi non velati da lenti consolatorie e non teme d’immergersi nel non senso che potrà scoprire; ma per far questo è necessario compiere un’operazione negativa, una pars destruens di un percorso articolato che spazzi via ogni sustruzione ingannatoria e spalanchi ad un nuovo modo di vedere e descrivere (la cui somma è vivere) il mondo.
Bonnefoy attua la pars destruens del suo pensiero proprio in “Movimento ed immobilità di Douve”, rifiuto, negazione, “no” con cui abbattere le mistificazioni, svelare gli occhi cisposi dell’uomo e divellere finti veli.
Il poeta compie una tabula rasa per sbarazzarsi della “parole exterieure” della lingua quotidiana degradata e distante dall’erlebnis. Il poeta deve allora “riannodare il linguaggio con l’esistente
[19]” creando la possibilità di una parola viva che permetta al poeta di dire la vita.
Un abbattimento voluto dal poeta che ha lo scopo di creare il silenzio.
Si, il silenzio.
Il silenzio che la poesia instaura prima della creazione poetica garantisce l’autenticità delle parole che sorgeranno. Giungere al silenzio come condizione di possibilità di un linguaggio nuovo che dica finalmente il mondo della vita scevro da ogni concettualizzazione e mistificazione. E’ un trattenere il respiro prima dell’immersione, un lungo momento personale, individuale, l’attimo in cui il soggetto prende coscienza di sé stesso come essere vivente per poi gettarsi a capofitto nel mondo della vita, senza paura, senza finzioni.
Leggiamo quanto sapientemente Bonnefoy ci dice e riveliamo che la poesia è capacità di conoscenza più che mille discorsi:

Il Luogo della Salamandra

La salamandra sorpresa sta immobile
E finge la morte.
E’ il primo passo della coscienza nelle pietre,
Il mito più puro,
E’ un grande fuoco trapassato, è spirito.

Stava la salamandra a mezza altezza
Del muro, nella luminosità delle finestre.
Il suo sguardo era soltanto pietra,
ma vedevo il suo cuore pulsare perenne.


Oh mia complice e mio pensiero, allegoria
D’ogni purezza
Quanto amo chi racchiude così nel suo silenzio
La sola forza di letizia.

Quanto amo chi s’accorda agli astri per l’inerte
Massa di tutto il corpo,
quanto amo chi attende il suo momento di vittoria,
e trattiene il respiro e posa al suolo
[20].

Ecco svelato dunque lo scopo della poetica di “Movimento ed immobilità di Douve”, ecco rivelato chi è Douve e quale il suo compito nell’universo memetico dell’uomo
[21].

La parola. Il fine della poetica di Bonnefoy è la riscoperta della parola, di una parola in grado di dire, vivamente, la realtà; una parola che porta con sé un quasi magico potere penetrativo della realtà, un tunnel possente che scava la realtà stessa sino al suo cuore pulsante, a quel mondo della vita che si dà solo nell’esistere stesso dell’uomo come essere significante. Questa parola cercata da Bonnefoy non è altro che la poesia, la poesia silenziosa liberata dalle concettualizzazioni grazie all’operazione mortale compiuta da Douve e che ora ha in sé il potere di dire, di vedere. Abbiamo assistito alla “lotta della parola contro la lingua, delle frasi contro i concetti, del referente contro il significato, una lotta costitutiva delle opere di poesia ovunque sulla terra e in ogni epoca
[22]”.
La parola è finalmente libera di librarsi (lemma meraviglioso che mischia il volo con le pagine dei libri) al di sopra di ogni convenzione normativa precostituita, di ogni regola lessicale impaludante e condannante, sola s’innalza e giunge a svelare, in un movimento ricorsivo, incessante, ciclico ed eterno la realtà del mondo della vita, il mondo delle madri.
Parola che non è più confinata nel significante che l’esprime, nei suoni o nei tratti che la rappresentano, parola che si rigenera continuamente attribuendosi gli infiniti significati che le sono propri e che le permettono di essere al tempo stesso silenzio.
Parola che è finalmente non costretta dalle regole della lingua, dagli artifici retorici, dalle “proposizioni cristallizzate” di Wittgensteiniana memoria, parola che non è più martirizzata in normative storiche e contestuali ma che recupera il suo originario potere evocativo e mistico-magico. Parola che fa di se stessa incantesimo con cui creare, prima ancora di significare, il mondo.
La poesia mostra qui il suo paradosso, la contraddizione impossibile che le è propria: essa abbatte il linguaggio concettuale per mostrare attraverso il silenzio una parola nuova che sappia finalmente penetrare il mondo della vita, ma questa parola nuova è la poesia stessa, che si è, dunque, divinamente, autocreata in un percorso che ciclico ed interrotto. La poesia svela la falsità del concetto, apre le porte al silenzio da cui emerge la parola nuova che è poesia che a sua volta svela l’inganno, ripetutamente, senza soluzione di continuità, in un’eternità ripetuta.

Siamo finalmente giunti al punto in cui ogni cosa comincia ad ammantarsi di chiarezza, il progressivo disvelamento della poetica di Bonnefoy, delle sue finalità, dei suoi portentosi paradossi mostra anche al lettore più distratto che l’operazione assurda che abbiamo dichiarato di compiere con questa ermetica ermeneutica appare meno delirante e folle di quanto pareva inizialmente, si cominciano, infatti, ad intuire nel pensiero di Bonnefoy le strutture portanti della riflessione connettivista.
Ma non interrompiamo il fiume della riflessione e proseguiamo oltre.

A questo punto a Bonnefoy si para davanti il vero problema della sua poetica, se, infatti, era chiaro l’intento e la finalità “distruttiva” compiuta da “Movimento ed immobilità di Douve” arduo sembrava il passo successivo, la pars construens, ovvero la questione sulla possibilità reale di fare poesia con la parola viva senza che lo scriverla e il versificarla ne annulli la vitalità, la forza, il paradossale potere magico e creativo.
Insomma, tanti buoni propositi per nulla?
Lo stesso Bonnefoy è ben consapevole di questo pericolo come dimostrano queste sue parole: “Tale era la sfida che vedevo per il mio primo libro: conformare la mia pratica della poesia alla mia idea della poesia
[23]”.
Le opere successive a “Movimento e immobilità di Douve” sono per Bonnefoy il tentativo di rendere reale nella poesia il superamento del concetto, la scoperta della misteriosa sospensione del tempo, l’aderenza totale alla tortuosità del divenire. Bonnefoy lentamente mostra la pars construens del suo pensiero e la attua concretamente nelle sue poesie che sono manifestazione, epifania misticheggiante, dell’immersione assoluta nel reale, della realizzazione perfetta dell’esistenza dell’uomo. Poesia non più estetica ma etica. E’ la poesia del momento, inaspettato, sorprendente, improvviso, precipitoso, in cui l’essere si svela per ciò che è, nella sua totale ed assoluta pienezza. Tutta l’opera di Bonnefoy successiva a “Movimento ed immobilità di Douve” mostra la sua ricerca di occasioni improvvise e insperate, istanti che danno pienezza del tempo, frammenti che interrompono la durata, fuoriescono dalla continuità e dicono la totalità da cui provengono.
Ogni singola poesia di Bonnefoy è la descrizione fluente, irrisolta ed irriducibile di questi attimi che si fanno forse confusi, forse allucinatori, ma che mantengono in pieno il potere di parlare, di creare connessioni laddove apparentemente connessioni non ve ne sono, vedere legami nella realtà viva in cui l’uomo giace in questo esser-ci, vedere il tutto nel particolare e il particolare nel tutto, la perfezione nell’imperfezione.

L’imperfezione è la cima
[24]

E’ vero che occorreva distruggere e distruggere e distruggere
E’ vero che la salvezza era a quel prezzo.

Devastare il volto nudo che affiora nel marmo,
martellare ogni forma di bellezza.

Amare la perfezione in quanto soglia,
ma conosciuta negarla, dimenticarla morta,

L’imperfezione è la cima.


Lasciamo che sia allora lo stesso Bonnefoy a parlare, a descrivere l’attimo, a donare al lettore squarci di quella realtà che sta al di là di ogni velo di Maya, oltre l’illusoria consolazione del “concetto”, lasciamoci incantare dalle immagini che il poeta svela e ci proiettano magicamente nell’Oltre.

Il paese scoperto
[25]

La stella sulla soglia. Il vento, chiuso
Fra le immobili mani della morte.
Vento e parola furono lunga lotta,
Poi venne il silenzio nella calma del vento.
Il paese scoperto era di pietra grigia.
Lontano giaceva basso, il lampo di un non fiume.
Ma le piogge notturne sull’attonita terra
Destarono l’ardore che tu chiami tempo.

O ancora una poesia in cui il lirismo raggiunge apici d’incommensurabile bellezza:

Ora sei solo nonostante le stelle,
il centro ti è vicino e ti è lontano,
hai camminato, cammini, nulla cambia,
sempre la stessa notte senza fine.

E vedi, sei già separato da te stesso,
sempre lo stesso grido, e tu non l’odi,
sei tu colui che muore, tu che non hai più angoscia,
sei tu stesso smarrito, che non cerchi
[26]?

Potremmo proseguire a lungo, citando via via tutti i componimenti che formano “Ieri deserto regnante” ma sarebbe ridondante e piuttosto preferiamo invitare il lettore ad immergersi direttamente nel testo di Bonnefoy e considerare queste nostre parole solo come un invito, un suggerimento alla lettura e uno sprone all’Oltre.

Dicevamo nell’iniziare la lunga disamina sulla poetica di Bonnefoy che “Ieri deserto regnante” edito nel 1958 si poteva ben accostare ad un’opera successiva del poeta francese, ovvero “Pietra scritta”, infatti, in questi due testi vi sono i primi tentativi, forse ancora solo abbozzati, di dire con la parola nuova, con il logos vivo emerso dall’abbattimento della concettualizzazione.
“Pietra scritta” è dunque una tappa a cui approdare per poter andare ancora oltre, per poter fare della poesia lo strumento conoscitivo per eccellenza del reale, reale inteso ovviamente come il mondo della vita libero da falsificazioni.
Leggiamo alcune poesie di “Pietra scritta” ed osserviamo come progressivamente la parola di Bonnefoy si faccia più carica di quel potere penetrativo di cui dicevamo, di come abbandoni ogni intenti espressionista e descrittivo e di come giunga, attraverso la sua completa liberazione dal significante, all’Oltre in cui l’uomo giace.

Una pietra

Due anni, o tre
Mi sentii sufficiente. Astri,
fiumi, foreste non mi uguagliavano.
Si sfaldava la luna sulle mie vesti grigie.
I miei occhi cerchiati
Illuminavano i mari sotto volte d’ombra,
e i miei capelli erano vasti più che il mondo
dai vinti sguardi, e grida che non mi giungevano.


Urlano bestie notturne, è la mia strada,
si sbarrano usci neri
[27].

Senza ulteriori commenti si intuisce, come una musica che viene da lontano che le parole di Bonnefoy dicono altro, creano immagini polimorfe, sfaccettate, sfocate che lasciano intravedere un Oltre non spiegabile con la mente o con la logica ma solo intuibile come limite, come annuncio della finitidune dell’uomo che il mondo rivela.
E come non lasciarsi sedurre dall’immagine della barca che giunge alla riva e cade di “L’albero, il lume”? Quel cadere non è un fallimento ma è il precipitare nelle profondità multiformi del mondo della vita:

L’albero, il lume
[28]

L’albero invecchia nell’albero, è l’estate.
L’uccello varca il canto dell’uccello ed evade.
Il rosso delle vesti illumina e sperde lontano,
in cielo, i carreggi del dolore antico.

Oh fragile paese,
come la fiamma di un lume recato,
prossimo il sonno nelle linfa del mondo,
semplice il pulsare dell’anima condivisa.

Ami anche tu l’istante in cui il lume chiaro
Scolora sognando nel giorno.
Lo sai, è l’oscuro del tuo cuore a guarire,
la barca raggiunge la riva, e cade.


E chiudiamo gli occhi al suono degli uccelli che parlano tra loro nella luce della sera e sembrano dirci un brusio lontano:

La luce della sera
[29]

Sera,
Uccelli che parlano tra loro, indefiniti,
che si mordono, luce.
La mano si è mossa sul fianco deserto.

Noi siamo immobili da tanto tempo.
Parliamo a voce bassa.
E il tempo intorno come colore a chiazze.



La nostra lettura di Bonnefoy si sta concludendo, abbiamo descritto il suo lento percorso nella parola e sulla parola, ed in essa abbiamo intravisto l’Oltre di un reale de-mistificato, abbiamo intuito, epifanica rivelazione, il mondo della vita in cui l’uomo è immerso, libero da sustruzioni, idealizzazioni e, soprattutto, illusioni consolatorie
[30]. Chi legge queste nostre pagine avrà probabilmente intuito quanta affinità memetica vi sia tra la riflessione fenomenologica di Bonnefoy e il sostrato filosofico su cui poggia tutto il Connettivismo, sarà senza dubbio più chiaro che lo scandaloso intento dichiarato ad incipit di questa nostra “Ermetica ermeneutica” sia prossimo al suo raggiungimento e di come, maliziosamente, si sia fatta storiografia del contemporaneo, esegesi del presente.
Non ci resta che accennare all’ultima opera di Bonnefoy, edita in Francia nel 2001 e giunta in Italia (sfortunatamente senza nessun apparato critico a margine) nell’agosto del 2007 per la collana “Lo Specchio” della Mondadori.
Ne “Le assi curve” il percorso di Bonnefoy raggiunge il suo pieno, luminoso, traguardo in un testo poetico che a differenza di “Ieri deserto regnante” e “Pietra scritta” è senza dubbio di più facile lettura, senza tuttavia perdere un briciolo del potere gnoseologico della parola che ancora rappresenta il senso stesso della poesia per Bonnefoy.
Vi è ne “Le assi curve” un sentimento nuovo, non presente nelle precedenti produzioni del poeta francese, una sensazione di felicità, di diffusa gioia, lontana è l’angoscia di “Douve”, lontani i pericoli della “concettualizzazione”, qui v’è solo il piacere di dire e di lasciare la parola libera di conoscere, senza freni, senza briglie, senza controllo.
Vi è nelle pagine la consapevolezza della “bellezza” che è (keatsiana memoria) sempre e solo “Verità”.

Sognare: che la bellezza
sia verità, la stessa
evidenza, un bambino
che avanza, stupito, sotto una pergola.

Si drizza e, felice
Di tanta luce,
tende la mano per cogliere
il rosso grappolo.

Bonnefoy, sulla soglia della vecchiaia torna bambino e si stupisce ancora una volta della tanta luce che abbaglia il mondo oltre le illusioni, che rischiara l’Oltre.

Concludiamo allora questa nostra lunga disamina con la citazione di un brano tratto dalla seconda poesia della sezione “L’inganno delle parole” presente nella raccolta “Le assi curve”; qui Bonnefoy fa la sua personale dichiarazione d’amore alla poesia, il suo urlo orgoglioso contro chi non comprende, chi gretto non capisce, è l’invocazione amorosa ed ammirata al potere che nascosto giace nella parola della poesia:

“Oh, Poesia
non posso impedirmi di chiamarti
con il tuo nome che non si ama più tra quelli che errano
oggi tra le rovine delle parole,

(…)

Lo faccio, confidando che la memoria,
insegnando le sue parole semplici a quelli che cercano
di fare essere il senso malgrado l’enigma,
farà decifrare loro, sulle sue grandi pagine,
il tuo nome uno e molteplice, in cui arderanno
in silenzio, un fuoco chiaro,
i sarmenti dei loro dubbi e delle loro paure.
[31]


L’ermetica ermeneutica è ora svelata, manifesta e ciò che appariva delirante e folle sorge ora agli occhi del lettore evidente, chiaro e lampante: Bonnefoy parla a coloro che “cercano di fare essere il senso malgrado l’enigma”, Bonnefoy parla ai Connettivisti.

Bonnefoy parla come un poeta connettivista.

Bonnefoy è, senza scandali, un autore connettivista.


(Un ringraziamento a Lorena Zaccagnino il cui saggio, “Yves Bonnefoy, un poeta fenomenologo” è stato fonte di costante ispirazione e di influenza diretta per la stesura di queste pagine)




Logos
01\01\2008




Biografia e bibliografia essenziale di Yves Bonnefoy


Yves Bonnefoy (Tours, 1923), professore emerito di Studi comparati della funzione poetica al Collège de France di Parigi, è poeta, prosatore, traduttore e saggista fra i maggiori del Secondo Novecento. Ha tradotto Shakespeare, Donne, Keats, Yeats, Petrarca, Leopardi ed è autore di studi fondamentali sulla poetica e l’arte compresa fra il primo Rinascimento e l’epoca contemporanea. Massimo poeta francese vivente ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali. Le sue opere principali sono apparse presso alcuni dei maggiori editori italiani. Il suo volume Tutte le poesie è in preparazione, a cura di Fabio Scotto, nei Meridiani Mondadori. Bibliografia Sintetica: L’Improbabile, Sellerio, 1982. L’impossibile e la libertà. Saggio su Rimbaud, Marietti, 1988. Lo sguardo per iscritto. Saggi sull’arte del Novecento, Le Lettere, 2000. Trattato del pianista, Archinto, 2000. Seguendo un fuoco. Poesie scelte 1953-2001, Crocetti, 2003. Osservazioni sullo sguardo, Donzelli, 2003. Il disordine. Frammenti, San Marco dei Giustiniani, 2004. L’Entroterra, Donzelli, 2004. Ieri deserto regnante seguito da Pietra scritta, Guanda, 2005. La civiltà delle immagini. Pittori e poeti d’Italia, Donzelli, 2005. La comunità dei traduttori, Sellerio, 2005. Terre intraviste. Poesie 1953-2006, Edizioni del Leone, 2006. Goya, le pitture nere, Donzelli, 2006. Le assi curve, Mondadori 2007







[1] Molte sono le ragioni e i perché che soggiacciono a questa scelta della SF, ma senza dubbio la principale è l’origine tecnica-scientifica del genere che mal si accorda con una forma espressiva evocativa e anti-descrittiva come la poesia.
[2] La prima versione del Manifesto Connettivista è a questo proposito rivelatrice.
[3] Sunset Boulevard di Giovanni De Matteo, NeXT numero zero.
[4] Connected di Sandro Battisti, NeXT Iterazione uno.
[5] Nuvole Basse, di Marco Milano, NeXT Iterazione uno.
[6] Ovvero di indagine originaria del reale.
[7] Non possiamo qui non citare uno dei testi fondamentali di Haruki Murakami: “L’Uccello che girava le viti del mondo” in cui il pozzo riveste proprio questa funzione di abbandono del reale illusorio e di passaggio di comunicazione con un aldilà ulteriore e rivelatore di sensi altrimenti nascosti.
[8] Termine mutuato nel significato che ne dà Edmond Husserl nella “Crisi delle Scienze Europee e la Fenomenologia Trascendentale”
[9] O anche il “Mondo delle Madri” di Gothiana memoria.
[10] Ancora Edmond Husserl, “Crisi delle Scienze Europee e la Fenomenologia Trascendentale”
[11] “Movimento e immobilità di Douve” – Yves Bonnefoy – Giulio Einaudi Editore
[12] Bonnefoy è autore anche di saggi, testi in prosa e opere teatrali ma che qui non verranno prese in considerazione.
[13] “Ieri deserto regnane seguito da Pietra scritta” – Yves Bonnefoy – Guanda Editore
[14] “Le assi curve” – Yves Bonnefoy – Mondadori Editore
[15] Termine francese introducile che indica: acqua morta, acqua melmosa ma che Bonnefoy usa come nome proprio riferentesi ad una presunta e sconosciuta “altra”.
[16] Esperienza vissuta.
[17] “Movimento e immobilità di Douve” – pag. 47
[18] Ibidem, pag. 51.
[19] Lorena Zaccagnino, “Yves Bonnefoy, un poeta fenomelogo” – Fonte Internet
[20] Ibidem , pag. 163
[21] E la presente esegesi è la prova del successo dell’operazione di Douve.
[22] Introduzione all’edizione italiana di “Ieri deserto regnate” – Yves Bonnefoy (il passo rivela la piena conoscenza della filosofia di De Saussure da parte di Bonnefoy).
[23] Introduzione a “Ieri deserto regnate” – Yves Bonnefoy – pag. 9
[24] “Ieri Deserto Regnante” – pag. 73
[25] Ibidem, pag. 135
[26] Ibidem , pag. 35
[27] “Pietra scritta”, pag. 199
[28] Ibidem, pag. 227.
[29] Ibidem , pag. 239.
[30] Come sarebbe facile qui accostare la riflessione esistenziale di Albert Camus.
[31] “Le assi curve”, pag. 131

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